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Pensiero

Io difendo Ambrogio. Ambrogio difende me

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Come ogni anno Renovatio 21 pubblica questo articolo nel giorno di Sant’Ambrogio, patrono di Milano. Il pezzo, lo sappiamo, è vecchio di anni – tuttavia attualissimo. Vorremmo avere molto altro da dire, ma già tanto viene detto nelle righe sotto. Come abbiamo avuto modo di scrivere di recente, l’importanza di Ambrogio è più grande che mai: e se non lo si capisce, dopo la rivolta etnica di Corvetto degli scorsi giorni, il problema diviene irrisolvibile. Senza un ritorno ad Ambrogio Milano è finita – e quindi, è finita anche l’Italia. Invochiamo quindi, anche in questo 2024, la bontà di Ambrogio – ma anche il suo flagello. Senza un movimento per la tradizione ambrosiana la sua città diverrà un inferno, e in larghissima parte già lo è. Chiediamo ai lettori milanesi che comprendono quanto stiamo scrivendo di comunicarci qualora siano interessati a fare davvero qualcosa. Noi lo siamo.

 

Anche quest’anno, nella festa si Sant’Ambrogio, Renovatio 21 ripubblica un articolo sull’importanza del Santo di Milano, e della devozione in generale. L’attualità di questo santo, specie nel presente disastro geopolitico e religioso, è indiscutibile. Molti lettori lo avranno già letto, molti altri, nuovi in questo sito, non lo hanno mai letto. Preghiamo Ambrogio di difenderci nell’ora oscura in cui viviamo. A tutti i nostri lettori, milanesi e non, auguriamo: Buon Sant’Ambroeus!

 

 

Fu Penelope, una ragazza greca, a mostrarmelo per la prima volta.

 

In realtà mi porse una cartolina. La foto di un mosaico: un uomo dell’antichità, con la barba i baffi e i capelli corti. Un volto semplice, immerso in paramenti che invece parevan importanti. Sopra questa figura c’era scritto solo «AMBROSIVS».

 

«È Ambrogio. È il protettore di Milano. Tenete questa foto con voi».

 

Ciò accadeva, a Milano, quasi una ventina di anni fa. Per me, più di un’era geologica. Un altro pianeta, un’altra vita.

 

Si era, appunto, nei giorni di Sant’Ambrogio. Vivevo a Milano da un anno ma io mai avevo sentito il bisogno di sapere chi fosse Ambrogio. Mai avevo avvertito la necessità di guardarlo in faccia. Del resto, una faccia non poteva averla. Sant’Ambrogio era una festa, non una persona.

 

Eppure, pure in quella passata incarnazione del mio essere in cui la Fede era remota, avevo compreso che il gesto di Penelope aveva un valore inusuale. Non mi aveva passato un disco (allora c’erano) e neppure un libro (di quelli che non leggi e non restituisci). Sentivo che voleva trasmettermi qualcosa di speciale. Quasi un oggetto magico, un talismano: all’epoca le mie categorie cerebrali erano quelle.

 

Penelope aveva studiato negli anni Novanta con quella che allora era la mia fidanzata, una ragazza tedesco-americana.

 

Avevano studiato quella cosa che si chiama «design», che allora era quasi una cosa seria. Lo avevano fatto a Londra, al tempo centro di rimescolamento della intraprendenza giovanile mondiale, quel tipo di frullatore dove gli ingredienti erano americani, giapponesi, libanesi, russi, austriaci, coreani, fiamminghi, croati, i cui schizzi ormai apolidi si riversavano ad ondate nelle case di moda o negli studi pubblicitari di Milano. Erano giorni corruschi e distratti.

 

Niente di quel mondo poteva portarmi a pensare a quella inspiegabile scintilla che vedevo negli occhi di Penelope, un qualcosa che allora non potevo sapere come chiamare, ma ora sì: devozione. Penelope aveva ritrovato la Fede proprio in quel bailamme di colore e nichilismo che immergeva la nostra giovinezza.

 

Era cristiana ortodossa, anche questo scuoteva la mia ignoranza. Ma come, una ortodossa che mi parla di un santo cattolico?

 

«I santi venuti prima dello scisma sono santi per tutti» mi edusse con quell’accento soave. Io mica lo sapevo.

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Devozione

Fu con quella cartolina in tasca che un pomeriggio d’inverno, senza saper neanche bene perché, entrai per la prima volta nella Basilica di Sant’Ambrogio.

 

Vagai per la navata, che rispetto a quella del Duomo, notai, era più luminosa, e non so quanto la cosa mi piacesse. Osservai quella colonna stranissima che si erge a metà chiesa, che sopra monta un serpente di bronzo. Ero confuso.

 

C’era pace. Quello, sì, lo sentivo distintamente. Non passò molto prima di venir magnetizzato verso il fondo della Basilica. E di lì, giù per quella mezza manciata di scalini.

 

Ero entrato nella cripta.

 

Non ero preparato: non mi aspettavo di trovare, in quel cunicolo buio sotto l’altare, tre scheletri — gli unici punti illuminati — e una grande cancellata di metallo a dividermi da essi.

 

Di quella prima volta, conservo il ricordo nitido di una sola figura umana che stava dinanzi a me. Una ragazzina, che non arrivava ai vent’anni. Composta, nel suo cappottino elegante, stivali alti, gli occhi azzurri, che potevo scorgere con un bagliore proveniente dall’esterno, trasmettevano fierezza, ma non solo quella. Era in ginocchio davanti alla cancellata, rivolta verso i Santi. Le mani erano giunte in preghiera. Con le stesse, poi si aggrappava alle barre di metallo. Come se fossero le inferriate di un carcere, come se ardesse per liberare se stessa o qualcos’altro, tenuto appena oltre quelle sbarre.

 

Cosa stava facendo? Perché una ragazza così — una ragazza di buona famiglia, che trovavo anche carina — aveva bisogno di fare una cosa simile? Pregare con tutto lo spirito uno scheletro?

 

La risposta è in qualcosa che imparai a comprendere tempo dopo: devozione.

 

La devozione era, in realtà, quella fierezza che avevo fugacemente letto negli occhi di Penelope, e che ora veniva irradiata da questa ragazzina. Una devozione speciale, personale, locale: quella fanciulla stava pregando il protettore della città. Il difensore proprio di quella città specifica.

 

Passarono gli anni, passarono le fidanzate, le fortune, le sventure, gli studi, i lavori, le gioie, le disgrazie, i sindaci e i governi: eppure mi ritrovai sempre, e sempre più spesso, immerso in quella cripta. Con il tempo, mi ritrovai ad emulare quella ragazzina che non vidi mai più: in ginocchio, le mani a stringere forte quella grata, di cui anche ora che scrivo percepisco il freddo del metallo mentre tocca i miei palmi.

 

A volte, su quella grata appoggio anche la testa, così, tra una sbarra e l’altra, nell’impossibilità di fare passare attraverso il mio cranio, così, in quello che è anche un appoggio di sollievo, sempre con il ferro gelido a toccarmi fino alle ossa. In ginocchio, a parlare con il Patrono. A chiedergli di proteggermi, e di proteggere tutta la città dove vivevo. Proteggere Milano, perché a Milano, talvolta a distanza talvolta no, avevo visto ogni sorta di cosa.

 

Avevo visto la gente brutalizzarsi nel modo più abietto; avevo visto la cattiveria dei potenti; avevo visto la cattiveria degli impotenti; avevo visto uomini combattersi e ammalarsi; avevo visto amici accumulare danari perdendo l’umanità e anche la famiglia; avevo visto un uomo spararsi davanti all’ex fidanzata nel bar sottocasa; avevo visto coetanei inghiottiti da abissi notturni per non riemergere più; avevo visto la droga (sia quella illegale che quella legale) consumare le menti di una o due generazioni per non lasciare niente; avevo visto una bella conterranea fucilata dal convivente impasticcato psichiatricamente, un’altra fu squartata dal rampollo suo convivente; avevo visto luoghi di perdizione vera, che ancora oggi mi chiedo come facciano ad esistere; avevo visto il crimine convivere tranquillo con la quotidianità; avevo visto l’ambizione delle persone renderle squallide, mostruose, deformi; avevo visto tradimenti, adulterii, ogni sorta di sovversione sessuale e morale; avevo visto ragazze rifiutare i propri figli, e ucciderli; altre ne avevo viste uccidere in provetta quantità indefinite di bambini per alla fine averne uno solo in braccio.

 

Perversione, decadenza, morte. Milano è davvero una metropoli.

 

Come non invocare la protezione di Ambrogio? La cosa mi era impensabile.

 

Come non immaginare, mentre stringo quelle sbarre, che egli stenda un manto santo sopra la città?

 

Che blocchi il Male che correva libero per quelle strade?

 

Finii col credere fermamente che Ambrogio fosse ciò che tratteneva Milano dallo sprofondare in quell’Inferno di fuoco che avrebbe inghiottito quell’inferno umano che registravo con i miei occhi.

 

Per questo, la preghiera in quella cripta divenne per me assidua.

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Tales ambio defensores

Non posso enumerare le volte in cui sono finito davanti alle spoglie mortali di Ambrogio, Gervaso e Protaso. Per dei periodi, è stato un affare quotidiano.

 

Mi sono aggrappato a quelle sbarre migliaia di volte; spesso sono stato mandato via dal solerte signore filippino (credo) che arriva con l’enorme, tintinnante mazzo di chiavi per chiudere tutta la basilica.

 

Ho fatto ogni sorta di meravigliosi incontri in quel luogo santo.

 

Ricordo quando, inciampandole addosso, dissi «izvinite» («mi scusi») a una anziana signora velata. Si faceva multipli segni della croce ed era, chiaramente, una delle tante signore ortodosse — per lo più immagino badanti, ma vi sono talvolta anche veri e propri gruppi di pellegrini — che vanno ad omaggiare Ambrogio.

 

La signora, usciti dalla cripta, volle scambiare quattro chiacchiere con me, entusiasta del misero russo che stavo studiando. Pretese che salissi immediatamente con lei in metropolitana fino al Duomo, dove mi schiuse le porte di una chiesa ortodossa, che prima di allora mai avevo saputo esistere, appena dietro la cattedrale. La visita ad Ambrogio era una fermata che ella faceva prima di andare nella sua chiesa. C’erano tante signore (moldave, ucraine, bielorusse, russe, kazake…), alcune ho pensato fossero impiegate nell’assistenza di malati o anziani, altre, più giovani ed eleganti, lavoravano chiaramente nella moda; altre ancora, più formose e appariscenti, probabilmente si occupavano di altro – tutte, però, portavano il velo. C’erano i pope con barbe e vesti scure e lunghissime, le candele, l’iconostasi immensa con i suoi bagliori dorati. Tutto sembrava solenne anche se non vi era una funzione in corso. Anche la signora moldava, come Penelope, mi passò una cartolina, e cioè quel che poteva donarmi di più vicino ad una icona.

 

Capii di essere finito un’altra volta in un circuito invisibile il cui termine era sempre e comunque Ambrogio. La devozione.

 

Sì, il circuito della devozione, la cui fermata principale era quella cripta, in cui sono finito non perché ho letto un libro (ignoravo, e tuttora ignoro tutto del Santo!) ma perché sospinto da questo flusso intangibile che scorreva a Milano attraverso perfino i cuori degli stranieri.

 

In quella cripta ho portato tutto: dalle gioie dei primi (piccoli) incassi per i lavori compiuti alla morte di un genitore, dalla speranza di prosperità alla frantumazione del mio essere che a volte gli eventi milanesi potevano cagionare.

 

Soprattutto, ho portato la mia pochezza. Il mio bisogno di essere protetto, difeso.

 

«Tales ambio defensores» disse Ambrogio quando rinvenne i corpi dei due martiri Gervaso e Protaso che ora giacciono con lui (fu l’esito di uno scavo che egli volle commissionare guidato da un presagio interiore; l’evento gli permise di vincere definitivamente il cuore di Milano, che all’epoca contava molti eretici ariani).

 

Me lo sono ripetuto anche io tante volte: «Tali difensori io desidero».

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Nemici di Ambrogio

Al contempo, mi sento in dovere di difendere Ambrogio. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, Ambrogio ha dei nemici.

 

Forze che bramano la distruzione di Ambrogio e di quel fiume invisibile che mi ha portato da lui.

 

Nel 1799 i napoleonici della Repubblica Cisalpina vollero che la Basilica venisse trasformata in un ospedale militare.

 

Altre forze figlie della Rivoluzione — i nostri «liberatori» angloamericani — bombardarono vigliaccamente dal cielo Sant’Ambrogio nel 1943.

 

Poi, il 28 giugno 2000 il Male e la sua manovalanza terrena passano all’attacco diretto, penetrando sino al cuore ambrosiano. Nascondono in un inginocchiatoio della nostra cripta uno zaino con due bottiglie contenenti benzina, collegate a un innesco chimico alimentato da una pila. Una bomba incendiaria. (Bruciare Ambrogio e il suo tempio, lo dirò più sotto, potrebbe avere un suo significato di nemesi precisa). L’ordigno è trovato dalla Digos, perché un quotidiano riceve un volantino di rivendicazione. Gli esecutori dovrebbero essere gli anarchici della sigla «Solidarietà Internazionale»; protesterebbero per una cerimonia della polizia penitenziaria.

 

Io in realtà so che, da secoli, vogliono colpire qualcosa di più grande, qualcosa di fondamentale per l’equilibrio di tutta la città – e della mia vita.

 

Vogliono colpire Ambrogio.

 

Vogliono colpire la sua devozione.

 

Perché so tutto questo, non mi son sorpreso quando qualche anno fa uscì sotto forma di libro un attacco ad Ambrogio.

 

Il libro, incensato dall’intero arco delle gazzette nazionali, da Il Sole 24 ore a Il Manifesto, portava la firma di una vecchia conoscenza, diciamo così, tale Franco Cardini.

 

Il titolo non è molto sibillino: Contro Ambrogio.

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Don Ricossa mi ricorda, con tanto di documentazione, «che Cardini è stato membro del comitato scientifico della rivista massonica Ars Regia; che Cardini ha ricevuto e accettato un’onorificenza dal Grand’Oriente d’Italia; che Cardini ha scritto la prefazione ad un libro sui Templari del figlio dell’allora Gran Maestro della Massoneria Raffi, con i proventi del libro che vanno all’opera massonica degli Asili notturni; che Cardini ha partecipato a un convegno della Gran Loggia d’Italia, obbedienza di piazza del Gesù; che Cardini si riconosce nella Leggenda medioevale dei tre anelli, ripresa dal massone Lessing, e nell’idea di cristiani, ebrei e musulmani “fratelli in Abramo”; che per Cardini ha ragione Gad Lerner nel dire che Gesù Cristo non è cristiano ma ebreo, essendo il Cristianesimo una invenzione di Saulo di Tarso; che per Cardini non è neppure storicamente certo che Gesù Cristo sia esistito; che per Cardini il film su Ipazia, martire pagana vittima dei cristiani, è storicamente ineccepibile, e che d’altronde il Cristianesimo si è imposto con la violenza ben più che l’Islam. Per cui non stupiamoci se le preferenze di Cardini vadano a preti come don Gallo: “posso attestare che pochi come lui nella storia del cristianesimo sono stati altrettanto fedeli al messaggio del Cristo e alla missione della Chiesa nel mondo”».

 

«Quando ero vice presidente del CNR — mi dice Roberto de Mattei — organizzai a Roma un seminario internazionale sulle Crociate, ma ritenni di non invitare il professor Cardini, perché il suo è un lavoro di decostruzione dell’idea di Crociata, incompatibile con i risultati della più recente e accreditata letteratura scientifica. Cardini mi telefonò furioso e lo giudicai una mancanza di stile».

 

Lo stesso lavoro demolitorio e desacralizzante il Cardini lo porta su Ambrogio.

 

L’episodio che dà l’avvio all’elezione di Ambrogio all’episcopato, e cioè il bambino che urla in Chiesa «Ambrogio Vescovo!» trascinando con sé tutta Milano, è per Cardini una «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un evento da spin doctor in cui la «spontaneità popolare è accuratamente pilotata».

 

Tuttavia è la sottomissione di Teodosio che infastidisce di più il professore, «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».

 

Il famoso episodio in cui il vescovo Ambrogio piega l’Imperatore inducendolo alla penitenza rappresenta per l’autore qualcosa di intollerabile, perché emblema perfetto di un «progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero».

 

In breve, quel che il Cardini non può sopportare è il primato della Chiesa sul mondo. Teodosio costretto alla penitenza dal vescovo Ambrogio per la strage di Tessalonica (Salonicco, in Grecia…) è per il vecchio studioso la base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio» ha delineato quella Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di Papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».

 

Comprendete? Papa Francesco — in effetti, il Papa più sottomesso all’Impero, l’Impero del Male — come antidoto ai danni provocati da Ambrogio.

 

La Chiesa non deve demandare al potere la penitenza se questo commette ingiuste stragi: capite l’attualità di questa richiesta?

 

Una Chiesa assoggettata al potere (come quella che stiamo vedendo oggi) è per il toscano la condizione giusta per la sposa di Cristo: «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene», tuttavia «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto»

 

Insomma, «forse senza di lui non avremmo avuto un conflitto tra mondo cattolico e modernità».

 

Tradotto: senza Ambrogio il cattolicesimo sarebbe naturaliter modernista.

 

Prendo questi virgolettati, che in me sortiscono l’effetto di amar ancora di più il mio Santo, da un articolone celebrativo che al libercolo in questione dedicò il Paolo Mieli sul primo quotidiano nazionale.

 

Una di quelle doppie paginate, sempre dense ed interessantissime a dire il vero, che una volta alla settimana consentono al pluri-ex-direttore del Corrierone di recensire qualche testo più o meno revisionista.

 

Il Mieli, a dire il vero, potrebbe aver qualche cavallo coinvolto nella corsa. Egli è figlio dell’ex agente del Psychological Warfare Branch dei servizi segreti britannici Ralph Merrill (all’anagrafe egiziana Renato Mieli) poi direttore dell’ANSA e de L’Unità finito però, poco dopo, ad esaltare l’ultraliberismo di Hayek e Von Mises (e per questo i fondi di Confindustria non gli sono mancati); soprattutto, possiamo dire che il Mieli Paolo è, come il padre, di origine ebraica.

 

Mai vorrei che vi fosse, in questo petardino editoriale contro Ambrogio, l’antico pregiudizio che vede il Santo come antisemita. Perché Ambrogio affrontò a testa alta l’Imperatore Teodosio anche un’altra volta.

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Nel 388, a Callinicum (ora Raqqa, l’ex-capitale dell’ISIS), una sinagoga fu data alle fiamme. Il governatore romano locale, sostenuto da Teodosio, decise che a pagare la ricostruzione dovesse essere il vescovo locale, ritenuto sobillatore degli incendiari.

 

Ambrogio scrisse all’Imperatore il suo dissenso:

 

«Il luogo che ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? (…) Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani (…) Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi?»

 

Ambrogio aveva centrato già allora tutta la questione dell’incompatibilità tra Stato e Chiesa quando per lettera chiese a Teodosio: «che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [cioè, del mantenimento dell’ordine pubblico, ndr] o il motivo della religione?».

 

È la medesima domande che si pose Andreotti quando capì che se non votava la legge sul libero aborto in Italia il suo governo sarebbe caduto. Sappiamo come si rispose. Lo sanno anche i 6 milioni di bambini ammazzati da quella legge, più aggiungiamo magari qualche milionata di vittime della conseguente pratica genocida della fecondazione assistita, che per ogni bambino sintetico nato ne ammazza almeno una ventina — quindi, altri milioni, molti di più, seguiranno.

 

Ambrogio, a differenza dei democristiani e dei loro patti con le potenze infernali, non faceva compromessi.

 

«Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga — scrisse in un’altra epistola all’Imperatore — sì, sono stato io che ho dato l’incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».

 

Rileggete: «perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».

 

Anche a secoli di distanza, come pensate che lo possano perdonare ebrei, falsi cristiani, servi degli dèi della morte?

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Tradidi quod et accepi

Voglio concludere.

 

Molto ci sarebbe da dire, come per esempio il mio disgusto per i ciellini (e il loro vescovoni trombati e infelici) che cianciano di «libertà religiosa» quando il Santo della loro capitale ne è stato il più acerrimo nemico, e su di essa — in ispecie contro i pagani — ha combattuto una guerra infuocata, e l’ha vinta.

 

Qualcuno mi accuserà: perché parli, sei uno storico? Un teologo? Un sapiente?

 

No, non lo sono. Sono un uomo ignorante, e l’unica storia che conosco davvero, riguardo Ambrogio, è quella che mi ha portato a lui. Sono solo una persona che riesce ancora a struggersi davanti alla devozione; qualcuno di così ottuso da stupirsi del fatto che esiste ancora; qualcuno di così scemo da credere che la devozione sia non solo necessaria, ma perfino «efficace».

 

Sono un peccatore: sono uno che ad Ambrogio chiede aiuto. Non ci ho scritto libri, non ho studiato a fondo la sua vita e le sue opere.

 

Una cosa però l’ho fatta.

 

Ho portato ad Ambrogio una ragazza, S., tedesca, come Ambrogio.

 

S. aveva un problema, non riusciva più ad entrare in chiesa senza avere un attacco di pianto. Il motivo, ho ipotizzato, era legato a delle vicende personali. La sua famiglia ha attraversato momenti bui, in parte irrisolti, in parte risolti, che hanno lasciato un segno sul suo spirito. In chiesa, mi ha poi spiegato, non riusciva ad entrare perché «non mi sentivo pura a sufficienza», anche se S. è una delle persone più pure che conosco a Milano.

 

Ho fatto fatica. Le prime volte, trascinarla era un vero esercizio di violenza psicologica. «Io vado dentro, devi proprio fare queste scene?». Seguivano occhi sgranati, afasie, imbarazzi paralizzanti, lacrime.

 

Ho iniziato così pian piano a portarla alla messa della domenica sera. Nella pratica, è vero che qualche volta è svenuta, subito soccorsa da fedeli circostanti. Ma ora è tutto alle spalle. Mi esprime, anche troppo spesso, la sua gratitudine per la mia ostinazione. È amica dei sacerdoti come degli altri fedeli, è assidua.

 

Si chiede spesso perché io abbia spinto tanto: il perché lo sa Ambrogio, io sono solo la nanometrica parte del suo circuito invisibile.

 

Qualche giorno fa, S. ha ricevuto finalmente la Cresima, che le mancava. Voleva che facessi da padrino, ma lontano come sono oggi dalla Chiesa conciliare, non per un secondo ho pensato che potessi essere io a sigillare la fine di questa minuscola storia ambrosiana.

 

Nonostante lo stato di aberrazione in cui versa la Chiesa, posso dire che questo è il mio microscopico contributo alla Tradizione: ho tramandato la devozione che ho ricevuto, ho mandato ad Ambrogio qualcuno, come vi ero stato mandato io.

 

Ho conservato, e tramandato, la devozione al cuore di Milano e della vera Cristianità.

 

Io difendo Ambrogio perché Ambrogio difende me.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Anthony van Dyck (1599–1641), Sant’Ambrogio impedisce a Teodosio di entrare nel Duomo di Milano (1619-1920), National Gallery, Londra.

Immagine pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

 

 

 

 

Pensiero

Ci risiamo: il papa loda Don Milani. Torna l’ombra della pedofilia sulla Chiesa e sul futuro del mondo

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Ci risiamo, ed è l’ennesimo spettacolo doloroso e mostruoso cui tocca assistere: il nuovo papa loda Don Milani. Le implicazioni di questa scelta sono spaventose.   L’11 ottobre, parlando ai pellegrini delle diocesi toscane, Prevost ha citato in modo molto benevolo il controverso prete-maestro della Barbiana: «Don Lorenzo Milani, profeta della Chiesa toscana, che Papa Francesco ha definito “testimone e interprete della trasformazione sociale ed economica”, aveva come motto “I care“, cioè “mi importa”, mi interessa, mi sta a cuore».   Questa cosa del Don Milani «profeta» (colui che anticipa i tempi: a suo modo, non errato) non è nuova:  Leone il 12 giugno all’incontro con il clero della diocesi di Roma aveva definito di Don Lorenzo Milani come di «un profeta di pace e giustizia».   La chiesa conciliare, quindi, non lascia Don Milani. No: raddoppia.

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Per noi non è solo il segno chiaro della contiguità assoluta, e infame, con il papato di Bergoglio. Ci prende l’idea di forze oscure – davvero oscure – che bramano per espugnare definitivamente il Soglio e devastare l’umanità tutta.   Perché, per chi si è perso le puntante precedenti – o chi, da buon boomer, si informa su TV e giornali senza chiedersi nessuno sforzo personale per la comprensione della realtà – Don Milani, la grande icona della sinistra (non solo quella, vero Salvini?) e dei cattolici benpensanti, negli ultimi anni è stato accusato di essere una figura molto ambigua, che in una sua lettera, pubblicata dagli stessi seguaci, parlava della sodomizzazione dei suoi allievi ragazzi.   Citiamo dalla lettera di Don Milani a Giorgio Pecorini, contenuta nel libro di quest’ultimo Don Milani! Chi era Costui?, edito Baldini&Castoldi nel 1996, alle  pagine3 86-391.   «… Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani più che la Chiesa e il Papa? E che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!). E chi non farà scuola così non farà mai vera scuola e è inutile che disquisisca tra scuola confessionale e non confessionale e inutile che si preoccupi di riempire la sua scuola di immaginette sacre e di discorsi edificanti perché la gente non crede a chi non ama e è inutile che tenti di allontanare dalla scuola i professori atei … E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?». Il corsivo è nostro.   Ora, questo brano è impossibile che in Vaticano non lo hanno letto. Non dopo che, all’altezza del fallito push per la beatificazione del 2019, era rispuntato fuori in tutta il suo orrore. E non solo nei circoletti tradizionalisti, o in intelligentissimi pubblicazioni come Il Covile. La faccenda era rispuntata nel mainstream, quello dei giornaloni e dei grandi editori.   Mi hanno scritto in diversi che dell’episodio non ricordano più niente. Quindi, sintetizzo.   Il 5 giugno il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli organizza al MIUR «un evento dedicato a Don Milani, a cinquant’anni dalla sua scomparsa (…) “Avere una scuola aperta ed inclusiva era l’obiettivo di Don Milani ed è l’impegno del mio ministero».   C’è, notevole, una vera convergenza con il Sacro Palazzo: «a scuola, come ci ha ricordato il papa nel messaggio inviato per l’evento dedicato oggi a Don Milani, nell’ambito della Fiera dell’editoria, deve essere capace di dare una risposta alle esigenze delle ragazze e dei ragazzi più giovani» scrive la nota del MIUR.   Non ci sono solo le parole. Il 20 giugno 2017 Bergoglio effettua un «pellegrinaggio» (sic – proprio come per i viaggi presso santuari e luoghi sacri) a Barbiana, per onorare don Milani.   In quei giorni, strana coincidenza davvero,  esce per Rizzoli un libro di un celebrato scrittore nazionale, tale Walter Siti. Sedicente omosessuale, nei circoli giusti il Siti conta: normalista, professore universitario,  studioso di Montale, curatore delle opere di Pasolini (lui), collaboratori dei giornali di De Benedetti Repubblica e Domani, pochi anni prima aveva vinto il premio Strega. Una voce difficile da ignorare nel contesto dei grandi media di regime.   Il romanzo, che oggi per qualche ragione si vende su Amazon in cartaceo a 100 euro, si intitola Bruciare tuttoRacconta la storia di Don Leo, un immaginario prete pedofilo, e dei suoi struggimenti. È un’opera di fiction, ma si apre con una dedica che apre un bello squarcio sulla realtà: «All’ombra ferita e forte di don Lorenzo Milani».

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Boom. I giornali cominciano ad occuparsene: «Ho creduto che don Milani somigliasse al mio prete pedofilo» titola un articolo sul sito apparso su La Repubblica. Qualche giorno prima, un commento («La pedofilia come salvezza. L’inaccettabile romanzo di Siti») era partito dalla filosofa del PD Michela Marzano, nota per la sua attenzione al tema dell’anoressia e il suo abortismo militante.   Il 21 aprile la bizantinista TV Silvia Ronchey, figlia del ministro PRI Alberto Ronchey e cognata della collaboratrice dell’Osservatore Romano Lucetta Scaraffia in Galli della Loggia, aveva scritto un’ulteriore difesa («Le vere parole di Don Milani») su La Repubblica, che forse è una toppa peggio del buco: prima definisce il Milani come «è un ebreo non praticante che fa “indigestione di Cristo” (…) la sua conversione non è certo dall’ebraismo al cristianesimo, bensì da un battesimo di convenienza, ricevuto per sfuggire alle leggi razziali, a un abito scomodo, indossato per vocazione di riscatto»; poi lo scrive egli era «calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta».   «Non celata omosessualità»: quindi, almeno dell’omofilia del prete-icona tutti sapevano, allora come oggi? Almeno fra le élite, era cosa nota? È un argomento che non va trattato con il popolo? Chiediamo.   Non che l’interessato non sapesse di cosa si parlasse. in una lettera sul suo direttore spirituale don Raffaele Bensi, nume tutelare della chiesa «resistenziale» della Firenze del dopoguerra, scrisse:  «può darsi che lei abbia in vista una felice sintesi delle due cose, di cui io invece non intravedo la compatibilità p. es. passare a un tempo da finocchio e da maestro, da eretico e da padre della Chiesa, da murato vivo nel chiostro e da pubblicatore del più polemico dei libri».   A Firenze, va detto, chiacchierano di Bensi. Si dice avesse bruciato tutta la corrispondenza privata, dove, sostiene Neera Fallaci, forse si parlava anche di Paolo VI.   Le pulsioni sono disseminati in altre regioni dell’epistolario milaniano. In un’altra lettera ad un amico vi sarebbe scritto «Vita spirituale? Ma sai in che consiste oggi per me? Nel tenere le mani a posto».   Forse, abbiamo pensato, davvero tutti sapevano. Tuttavia qui c’è un primo grande mistero: come è possibile che prima del Concilio Vaticano II, quando la selezione dei sacerdoti scartava immediatamente quanti erano anche solo lontanamente sospettati di avere pulsioni omofile, il Milani sia riuscito a farsi consacrare?   Andiamo poco oltre, e troviamo un’ulteriore storia terrificante, quella del Forteto. Va chiarito che non vi sono prove del coinvolgimento dei guru fortetani con il Milani. La comunità nacque dopo la morte di Don Lorenzo, tuttavia il fatto che il donmilanismo potesse essere stato un’ispirazione è un’idea piuttosto accettata.   Il Forteto è, secondo il vaticanista Sandro Magister, «quella catastrofe che si è consumata in quel di Firenze, tra i circoli cattolici che fanno riferimento a don Lorenzo Milani e alla sua scuola di Barbiana. Una catastrofe che opinionisti e media hanno a lungo negato o passato sotto silenzio, per ragioni che si intuiscono dalla semplice ricostruzione dei fatti».   Al Forteto, scrive la Relazione della Commissione regionale d’inchiesta «l’omosessualità era non solo permessa ma addirittura incentivata, un percorso obbligato verso quella che Fiesoli [il leader della comunità, ndr] definiva “liberazione dalla materialità” (…) l’amore riconosciuto e accettato, l’amore vero, alto e nobile era solo quello con lo stesso sesso (…) Il bene e l’amore vero erano quelli di tipo omosessuale, perché lì non c’è materia».   Faccenda è complicata e spaventosa. Ci hanno messo dentro di tutto. Renovatio 21 ha pubblicato un’intervista al magistrato Giuliano Mignini, che si occupò oltre che del caso Kercher anche di quello del Mostro di Firenze, in cui accenna a questioni di cui  ha parlato di recente anche alla «Commissione Parlamentare d’inchiesta sui fatti accaduti presso la comunità Il Forteto»,

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In realtà, non vorremmo tornare a riparlare di tutto questo – ne abbiamo trattato più di dieci anni fa, arrivando a partecipare una conferenza in Regione Toscana con vari soggetti, tra cui Giovanni Donzelli, allora consigliere regionale e oggi parlamentare membro del cerchio magico della Meloni, mentre ad organizzare c’era l’indomito Pucci Cipriani, che per decenni ha combattuto il Don Milani e il donmilanismo.   Qui ci importa di notare altro. Dinanzi a questa mole assoluta di melma, Leone, come con il blocco di ghiaccio benedetto e la sua benedizione cringe, tira dritto, come se niente fosse: viva Don Milani, dice il papa americano, chiaramente imbeccato da qualche puparo della gerarchia. L’agenda della neochiesa va avanti. Ma verso dove?   Già. Noi avevamo una nostra allucinante ipotesi. In quell’articolo di oramai otto anni fa scrivevamo: «La finestra di Overton, già spalancata per l’omoeresia, ora pare aprirsi, per mano del Papa, per la pederastia ecclesiastica (…) Il cosiddetto “ritardo cattolico” martiniano è finito. La società secolare può metterci anni a normalizzare la pedofilia; la Chiesa ci può invece impiegare pochissimo. Con il golpe modernista è tutto chiaro: la dissoluzione aumenta esponenzialmente, e la foga satanica contro l’Ecclesia è ben maggiore di quella usata contro la società civile».   Cosa stai dicendo? Il Vaticano, che tanto sta pagando per la questione delle vittime degli orrendi abusi commessi da sacerdoti e vescovi… starebbe lavorando per normalizzare la pedofilia?   Le forze che controllano l’agenda del papato possono volere un tale abisso? Eccerto.   E cosa pensate, che il Male non si concentri sul katechon? Che l’avversario non voglia distruggere la diga costruita da Cristo? Credete che Satana non voglia che il pontefice smetta di creare ponti con il Paradiso?   Pensate davvero che chi vuole il dominio del maligno sulla Terra non cerchi di corrompere la Chiesa dall’interno?   Capiteci: la finestra di Overton spalancata sulla pedofilia è solo uno dei tasselli del disegno, che in realtà è già bello che scritto: una società mostruosa, dove i tabù – compreso soprattutto l’incesto – sono rimossi definitivamente dai suoi schiavi perverso-polimorfi, dove la morte (per eutanasia, per aborto, per omicidio tout court pienamente legalizzato) è un valore auspicabile, e con essa, vero obiettivo, il sacrificio umano.   Ecco che approntano il Regno Sociale di Satana, e lavorano incessantemente non solo per plasmarne la «morale» demoniaca, ma per progettarlo biologicamente: Renovatio 21 ha cercato di ripeterlo negli anni, i bambini della provetta potrebbero essere proprio coloro «il cui nome non è scritto nel libro della vita fin dalla fondazione del mondo» (Ap 13, 8)  di cui parla San Giovanni nell’Apocalisse. Cioè, il futuro popolo, il futuro esercito, dell’anticristo.

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Roma si sta muovendo anche lì, verso lo sdoganamento papista degli umanoidi: e non solo con conferenze ammicanti, ma con la proposta (incredibile davvero) di beatificare il politico democristiano che tanto lavorò per normare, cioè permettere, la fecondazione in vitro in Italia. Dell’agghiacciante processo di beatificazione di Carlo Casini – che gli ebeti pro-vita italici celebrano ancora oggi – avremo modo di scrivere più avanti.   Non siamo davanti ad una questione politica. Si tratta di una battaglia metafisica, la guerra spirituale per la salute del mondo, per salvare il pianeta dall’inferno.   Volenti o nolenti, lo sappiate o no, a questo siete chiamati dall’ora presente.   E, io dico, non c’è onore più grande.   Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

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I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.

 

L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.

 

Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.

 

Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.

 

Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.

 

Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.

 

Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.

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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.

 

Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.

 

Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.

 

Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.

 

Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.

 

I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.

 

Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».

 

Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.

 

Patrizia Fermani

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Putin: il futuro risiede nella «visione sovrana del mondo»

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Le nazioni devono basarsi sulle proprie tradizioni storiche e spirituali, oltre che su una «visione sovrana del mondo», mentre plasmano il loro avvenire, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin in un messaggio scritto ai partecipanti del II Simposio Internazionale «Inventare il Futuro» a Mosca. L’evento, in programma il 7 e 8 ottobre, accoglierà oltre 7.000 partecipanti provenienti da quasi 80 Paesi.   Discussioni aperte e innovative sul futuro dell’umanità supportano i governi nel rispondere adeguatamente alle nuove sfide, ha osservato il presidente russo. «Le conclusioni e i risultati di un dialogo così profondo e sostanziale sono di grande valore», ha aggiunto Putin. «Sono fiducioso che dobbiamo creare il nostro futuro sulla base di una visione del mondo sovrana».   Promosso su iniziativa del presidente russo, il simposio comprende circa 50 eventi, organizzati in tre aree tematiche: società, tecnologia e cooperazione globale. Il forum ospiterà oltre 200 relatori provenienti da Russia, Cina, Stati Uniti, Italia e da Paesi di Africa, America Latina, Medio Oriente e Sud-est asiatico, che discuteranno di temi che spaziano dalle sfide demografiche all’intelligenza artificiale (IA) e all’esplorazione spaziale.

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Nel primo giorno del simposio si è svolta una tavola rotonda incentrata sul futuro delle tecnologie di intelligenza artificiale e sul loro potenziale di diventare non solo uno strumento professionale di nicchia, ma una base per un’infrastruttura globale e un nuovo «linguaggio della realtà» per governi e imprese private.   Un altro dibattito tenutosi martedì si è concentrato sulle prospettive di collaborazione tra Russia e Africa nei prossimi decenni, fino al 2063. Mosca mira a rafforzare i legami con il continente, promuovendo attivamente la condivisione di tecnologie con le nazioni africane, contribuendo a garantire la sicurezza regionale e sostenendo la sovranità degli attori locali, oltre a favorire un approccio più equo nelle relazioni internazionali.   Al forum del Club Valdai, a Sochi, giorni prima Putin aveva parlato dei «valori tradizionali» anche in merito alla «disgustosa atrocità» dell’assassinio di Charlie Kirk.   «Sapete, questa disgustosa atrocità, e ancora di più, dal vivo», ha detto Putin a un forum organizzato dal Valdai Discussion Club a Sochi, in Russia. «In effetti, l’abbiamo vista tutti, ma non so, è davvero disgustoso. Era orribile». «Prima di tutto, naturalmente, porgo le mie condoglianze alla famiglia del signor Kirk e a tutti i suoi cari», ha continuato il leader russo. «Siamo solidali e solidali, soprattutto perché ha difeso quei valori tradizionali».   Putin aveva aggiunto che la sparatoria mortale è il segno di una «profonda frattura nella società», secondo Reuters. «Negli Stati Uniti, non credo ci sia bisogno di aggravare la situazione all’esterno, perché la leadership politica del Paese sta cercando di ristabilire l’ordine a livello nazionale», ha affermato Putin.

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