Stato
I cileni respingono la proposta di Costituzione gender-abortista-climatica

La scorsa domenica gli elettori in Cile hanno respinto una proposta di nuova Costituzione che avrebbe sancito in legge una serie di richieste di sinistra tra cui il «diritto» all’aborto.
La proposta di Costituzione era stata portata avanti dopo il collasso dei partiti tradizionali a seguito della grandi proteste nel Paese nel 2019.
Un clamoroso 62% dei cileni ha respinto la bozza della Costituzione – risultato quanto mai specifico visto che il voto di domenica era stato reso obbligatorio.
La nuova Costituzione avrebbe legalizzato l’aborto, imposto l’assistenza sanitaria universale gestita dal governo, promosso iniziative di genere, concesso diritti agli animali e all’ambiente, e avrebbe fornito ad cure fornite dal governo dalla nascita alla morte incluso il diritto all’alloggio, all’istruzione, ai benefici pensionistici, a Internet, alla consulenza legale gratuita, ai servizi igienico-sanitari e altro ancora.
La Costituzione proposta avrebbe sostituito la carta della nazione vecchia di 41 anni, che molti media di sinistra tacciano di essere stata imposta durante il governo del generale Augusto Pinochet.
Un numero uguale di delegati maschi e femmine, eletti democraticamente, aveva redatto la Carta costituzionale ora respinta con veemenza dal popolo cileno.
La Carta avrebbe imposto la «parità di genere» in «enti statali e società pubbliche», dichiarato che «la natura ha diritti» e limitato dove potrebbe essere estratto il litio, la principale ricchezza del Paese soprattutto nell’era delle batterie onnipresenti: il Cile, assieme a pochi altri Paesi, è estremamente ricco di litio, nonché di rame, anche quello regolato dalla Costituzione ora bocciata dal referendum popolare.
«Il testo includeva impegni per combattere il cambiamento climatico e proteggere il diritto dei cileni di scegliere la propria identità “in tutte le sue dimensioni e manifestazioni, comprese le caratteristiche sessuali, le identità di genere e le espressioni”», ha sintetizzato il New York Times.
Il canale pubblico americano NPR ha ammesso che la nuova Costituzione avrebbe «trasformato il Cile in una delle società più progressiste [liberal, ndr]».
Manifestazioni massive della fazione che approvava la nuova Costituzioni hanno avuto, nei giorni prima del voto, ampio spazio su media e social media.
Delle dimostrazioni e dei festeggiamenti del popolo del «rechazo» («rifiuto») vittorioso invece non si è praticamente visto nulla.
🇨🇱Demonstration in Chile against Gabriel Boric’s government and the proposed new constitution. pic.twitter.com/us9PBpE1FF
— Aprajita Choudhary 🦋 (@aprajitanefes) August 29, 2022
Sono partite, ovviamente, già le proteste violente da parte dei goscisti battuti dal voto popolare.
Police clashed with protestors in Santiago, Chile, after voters rejected the proposed new constitution that would have transformed Chile into one of the world’s most liberal societies. pic.twitter.com/jNBeFxAShF
— NPR (@NPR) September 6, 2022
Immagine screenshot da YouTube
Immigrazione
Come l’Unione Sovietica usò l’anarco-tirannia contro gli oppositori del regime

Un recente articolo apparso sul sito del Mises Institute torna a parlare del concetto di anarco-tirannia, di cui ci siamo occupati più volte su Renovatio 21 negli ultimi tempi, a seguito delle rivolte etniche, violente ed impunite, viste in Francia e non solo: casi conclamati sono visibili anche in Svezia e in Olanda, e ovunque durante i mondiali del Qatar o i vari capodanni.
Il termine «anarco-tirannia» fu coniato trenta anni fa dall’editorialista conservatore Sam Francis, che definì il fenomeno come «la combinazione del potere oppressivo del governo contro gli innocenti e coloro che rispettano la legge e, allo stesso tempo, una grottesca paralisi della capacità o della volontà di usare quel potere per svolgere compiti pubblici fondamentali quali la protezione o la sicurezza pubblica».
Secondo l’autore dell’articolo del Mises Ryan McMaken, «la versione americana dell’anarchia-tirannia che sopportiamo attualmente non è l’unica variante, né la peggiore». Egli infatti ricorda che «l’uso dell’anarco-tirannia come politica deliberata risale almeno all’Unione Sovietica di Stalin».
Secondo McMaken, la versione sovietica si è manifestata in due modi.
Il primo era l’abitudine del regime sovietico di imporre le pene più severe per i «crimini politici». «Questo non vuol dire che il regime sovietico non si preoccupasse della criminalità ordinaria» scrive l’articolo. «Il regime spese ingenti somme di denaro e risorse per combattere la criminalità di strada e radunare le legioni di criminali minorenni che erano comuni nelle strade negli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Inoltre, il regime nel suo complesso ha cercato di affermare la propria credibilità come strumento di sicurezza e ordine».
Tuttavia, era chiaro che il regime era più interessato a punire i cosiddetti criminali politici che i criminali reali. «Questa non è stata certamente un’innovazione del regime sovietico, poiché per millenni i regimi politici hanno considerato crimini politici come tradimento, sedizione e “diffamazione” più pericolosi del semplice furto e omicidio non politico».
«I sovietici non erano diversi, sebbene la definizione sovietica di crimine politico si estendesse ben oltre la consueta norma dispotica» scrive McMaken, specificando che qualsiasi cittadino sovietico poteva essere accusato di crimini politici, per un gran numero di infrazioni tra cui il furto di «proprietà socialista», il sottrarsi al lavoro in una fabbrica di proprietà statale, il non aver informato sulle attività antisovietiche di altri, o qualsiasi altra attività che potrebbero essere definiti come atti «borghesi» che minano le leggi socialiste. «La natura degli atti contava meno della motivazione presunta».
Un libro di Valery Chalidze sul crimine in URSS scrive che «il nuovo regime concentrò i suoi sforzi di pressione sugli oppositori politici e sugli estranei alla classe. In mezzo alla folla dei nemici veri o presunti del regime, i criminali non politici erano ancora considerati socialmente affini; hanno ricevuto pene detentive più brevi e le hanno scontate in condizioni meno severe». (Corsivo nostro)
Al contrario, i «criminali politici» venivano spesso condannati, come Solzhenitsyn, ad anni e anni di Gulag, dove avrebbero affrontato la seconda forma di anarco-tirannide sovietica, ancora più terrificante.
Secondo Chalidze, nei Gulag veniva attuata la politica non ufficiale sovietica negli anni Trenta prevedeva l’utilizzo dei criminali comuni come mezzo per eliminare del tutto i criminali politici.
«Negli anni Venti e Trenta (…) il regime stava conducendo una campagna per cambiare la composizione di classe della società, e tra i milioni di stranieri di classe nei campi ce n’erano molti di cui i bolscevichi volevano sbarazzarsi ma preferivano liquidare con l’aiuto di criminali piuttosto che apertamente» scrive il libro Criminal Russia: Essays on Crime in the Soviet Union (1977).
«Così i prigionieri politici venivano sistematicamente terrorizzati dai criminali nei campi (…) con l’incoraggiamento diretto o la connivenza delle autorità. I criminali politici indifesi, non abituati alle condizioni del campo, venivano derubati dei loro vestiti e lasciati congelare; fu loro tolta la magra razione di cibo e alla fine morirono di sfinimento. Nel frattempo erano costantemente tormentati e umiliati. Chi può dire quante persone morirono nei campi sovietici come conseguenza diretta di questa persecuzione da parte di criminali?»
Nel suo saggio «“Worse Than Guards:” Ordinary Criminals and Political Prisoners in the Gulag (1918-1950)» («”Peggio delle guardie:” Criminali ordinari e prigionieri politici nel Gulag 1918-1950»), la studiosa Elizabeth Klements sostiene che «l’amministrazione carceraria dava potere ai criminali nei Gulag dando loro accesso ai posti di lavoro e ai beni salvavita nei campi di lavoro, ritirando gradualmente ai prigionieri politici l’accesso ai servizi sanitari».
«Per i prigionieri politici, questo furto e questa violenza erano costanti, insensati e crudeli. Peggio ancora, l’amministrazione del Gulag lo tollerava e le guardie raramente interferivano» continua la Klements. «Gustav Herling ha ricordato un incidente nel suo campo, dove un gruppo di blatnye [ladri, ndr] ha sopraffatto e violentato una giovane donna di notte nel mezzo del campo, e una volta che è riuscita a gridare aiuto, una voce assonnata chiamò dalla torre di guardia più vicina: “Andiamo, andiamo, ragazzi, che fate? Non avete vergogna?”. Questo era tutto. La banda l’ha semplicemente spostata in una posizione più discreta e ha continuato l’aggressione».
Il fenomeno è ben descritto da Solzhenitsyn in Arcipelago Gulag, quando scrive che le autorità dei campi di detenzione procedevano all’«incoraggiamento dei teppisti, dei blatnye. Ancora più sistematicamente di prima, ai ladri furono assegnate tutte le «altezze di comando» nel campo. Ancora più consistentemente di prima, i ladri furono istigati contro i [prigionieri politici], fu loro permesso di saccheggiarli senza ostacoli, di picchiarli, di soffocarli».
Tale abuso nei confronti dei prigionieri politici durò nella sua forma peggiore dagli anni Trenta fino a poco dopo la seconda guerra mondiale. La situazione cambiò significativamente solo dopo la guerra a causa di un nuovo afflusso di centinaia di migliaia di veterani di guerra sovietici. Questi veterani erano stati dichiarati criminali politici perché si erano arresi ai tedeschi, avevano prestato servizio nei campi di prigionia tedeschi ed erano quindi visti, nelle menti contorte degli agenti sovietici, come collaboratori dei tedeschi.
I veterani di guerra, tuttavia, non erano così indifesi contro i criminali come lo erano stati i precedenti detenuti politici. Così, temprati dalla guerra, i prigionieri militari combatterono contro i criminali regolari. Ciò, secondo la Klements, sconvolse lo status quo e costrinse gli amministratori del Gulag a cercare nuovi metodi.
«La differenza di trattamento tra i criminali regolari e i prigionieri politici aveva le sue radici nell’ideologia sovietica sulla rieducazione e sul conflitto di classe. Il punto di vista dell’ideologo sovietico era che i criminali comuni potessero essere riformati e convertiti in membri produttivi della società sovietica con relativa facilità» scrive McMaken. «I prigionieri politici, d’altro canto, “alieni” di classe quale erano, necessitavano di un trattamento molto più duro per ottenere una rieducazione sufficiente. Molti prigionieri politici erano forse irreformabili da questo punto di vista, suggerendo l’indifferenza della guardia verso il destino dei prigionieri politici».
«In una certa misura, tutto questo è prevedibile; i regimi infliggono da tempo maggiore crudeltà ai presunti nemici del regime che ai criminali comuni» conclude l’articolo del Mises. «L’esempio sovietico, tuttavia, fornisce un esempio particolarmente estremo e allarmante di come letteralmente milioni di comuni “delinquenti” possano essere coinvolti in un sistema legale progettato per proteggere lo stato invece di proteggere la popolazione».
Mutatis mutandis, ci chiediamo se questo se lo schema sovietico dell’anarco-tirannide per via carceraria si possa applicare all’Europa dell’ora presente.
Sappiamo che, in Italia come altrove, gli immigrati afro-islamici sono oramai maggioritari, e laddove non lo sono ancora numericamente lo sono culturalmente, presentandosi in modo più compatto nei confronti del carcerato autoctono: da qui il problema delle «radicalizzazioni» islamiste che avvengono nelle carceri francesi e di altri Paesi (per l’Italia non c’è ancora un’informazione precise che dica se questo fenomeno ha attecchito).
Come l’URSS vedeva nel criminale comune una figura assimilabile (un «compagno che sbaglia», verrebbe da dire…) perché non aveva l’idea e la capacità di sovvertire il sistema, ma solo di parassitarlo, anche lo Stato moderno europeo vede nel criminale immigrato un personaggio non solo assimilabile, ma necessario all’attuazione del Piano Kalergi, per il quale tante risorse sono attivamente, incontrovertibilmente, spese.
La questione è divenuta drammaticamente chiara durante il COVID: squadre di poliziotti, vigili, carabinieri e addetti vari a controllare i cittadini in lockdown e i green pass, con , ad esempio, i varchi sorvegliati da diecine di uomini mentre le violenze della teppa immigrata sui treni e altrove potevano continuare.
L’oceanica protesta contro il green pass fu spenta a suon di repressione (botte, poliziotti in borghese catturatori, droni, «moto ondulatorio») e di leggi specifiche. Possiamo dire di aver visto lo stesso riguardo l’orda giovanile afro-musulmana che ha conquistato Peschiera del Garda, le cui molestie su ragazze italiane sono state di recente archiviate?
Lo abbiamo visto chiaramente in Francia: l’anarco-tirannide favorisce il migrante, il non-europeo, perché esso è esattamente l’ingrediente di caos necessario a dissolvere l’ordine sociale.
Pensiero
Generale di quell’esercito che ha vaccinato la popolazione e armato l’Ucraina critica i gay: idolo istantaneo degli antisistema da Telegram

Impazziti per il generale. Tutti. Alla sinistra non è sembrato vero di poter trovare un bersaglio da linciare con tiro di pietre arcobaleno, oramai non se ne trovano più; il governo non si è fatto sfuggire l’occasione di fare un ulteriore inchino a Sodoma, rimuovendo il militare, non si sa quanto lecitamente; i giornali, di ambo i versanti della valle italica, tripudianti per una storia che finalmente crea interesse nel nulla mediatico estivo.
Lo spettacolo peggiore, tuttavia, lo offre la dissidenza antisistema – nel senso, quella che dice di opporsi al mainstream, all’obbligo di vaccinazione, di gender, di ucrainofilia, la vasta popolazione della dissidenza che si trova sui canali Telegram e le chat Whatsapp, quella che, dosata di dopamina ad ogni scrollata, si indigna e chiede il cambiamento in questo mondo di menzogna.
Ecco orde di no-greenpassisti, di telegrammatori antisistemici in solluchero per quello che passa e dice, in un libro autopubblicato, una cosa critica dei gay. Un partito chiede addirittura al militare di candidarsi alle elezioni per il seggio lasciato vacante da Silvio Berlusconi. Idolo istantaneo. «Santo subito».
Che dire, sarà il fascino della divisa. Il generale Vannacci, tre lauree e due master in materia di scienza strategica, non è un personaggio di secondo piano. Pochi giorni prima del Natale 2017, compare in un messaggio del presidente Mattarella, videocollegato dall’Iraq, dove il generale addestrava le truppe irachene: «la sconfitta di Daesh è un grande risultato, ottenuto anche con l’importante contributo dell’Italia», dice il canuto capo dello Stato. «Daesh» è il modo in cui quelli bravi chiamano l’ISIS. In pratica il generale ha condotto la battaglia contro lo Stato Islamico e ha vinto, dice il presidente della Repubblica.
Era tenente quando tra il 1992 e il 1994 partecipava alla Missione Ibis, in Somalia – una storia controversa con polemiche roventi, bufale, scoop, scandali, scuse che nessuno tuttavia ricorda. Tutto rientrato.
Incursore, diviene, da maggiore, capo del Battaglione, quindi capo delle Forze Speciali dell’Allied Rapid Reaction Corps della NATO. Elabora una dottrina interforze per le Operazioni speciali, leggiamo sull’ottimo profilo che qualche giorno fa ne ha dato La Verità.
Nel 2009 è a Kabul come assistente del capo di Stato maggiore che su mandato del Consiglio di Sicurezza ONU deve sorvegliare la capitale afghana. Qui lavora a stretto contatto con Stanley McChrystal, il generale che in un’intervista su Rolling Stone nel 2010 criticò Obama, venendo poi rimosso. Il giornalista, invece, morì non troppo tempo dopo in un incidente d’auto difficilmente spiegabile, che lasciò tanti dubbi ai soliti cospirazionisti. (La storia di McChrystal è raccontata nel film con Brad Pitt War Machine, dove tuttavia il destino di Hastings non è toccato nemmeno con un bastone.)
A Herat e Farah, tra le enigmatiche ed esiziali lande afghane, il generale italiano coordina la Task Force 45, dove comanda la lotta agli insorti.
Nel 2011, quando scoppia la cosiddetta «Primavera Araba», è inviato dallo Stato maggiore in Libia per proteggere i diplomatici italiani, di cui, ricevuto l’ordine, dispone l’evacuazione in maniera impeccabile con un C-130 dell’aeronautica militare italiana.
Quindi, torna in Afghanistan per la NATO come capo di Stato maggiore delle Forze Speciali: gli americani lo premieranno con una Bronze Star Medal per «atti di eroismo o di servizio meritevole in zone di combattimento».
Tornato in Italia, la carriera continua in modo irresistibile: eccolo a capo del 9° Reggimento d’assalto Col Moschin, poi si occupa di relazioni militari internazionale negli uffici dello Stato maggiore; promosso a generale di Brigata viene messo a capo della Folgore, dove rompe la tradizione e invece di rimanere in silenzio nel giorno dell’insediamento, come usa, tiene un discorso. Dopo la Folgore, l’Iraq e l’ISIS, pardon, «Daesh».
Nel 2020 è a Mosca dove gli è affidata la sicurezza della diplomazia italiana. Nel 2022, riporta sempre La Verità, nelle prime fasi del conflitto, l’Italia espelle diplomatici russi operanti sul territorio nazionale; la Russia reagisce in modo speculare: anche Vannacci, ora generale di divisione, è dichiarato «persona non gradita» dal Cremlino.
Leggendo questo curriculum, del quale abbiamo saltato sicuramente moltissimo, viene voglia solo di togliersi il cappello: questa è una carriera con i fiocchi, questo è un guerriero servitore dello Stato fatto e finito.
Se poi ci si mette anche il fatto che il nostro si è distinto per denunce vere e proprie a difesa dei suoi uomini, si potrebbe pure far scattare, davvero, la standing ovation. Leggiamo infatti che tornato dall’Iraq avrebbe presentato «due denunce, una alla Procura militare e l’altra alla Procura della Repubblica di Roma, nelle quali denuncia «gravi» e «ripetute omissioni» nella tutela della salute del contingente italiano, esposto, stando alla sua versione, ai rischi dell’uranio impoverito usato per le munizioni e mettendosi di traverso al ministero della Difesa, che aveva assunto una posizione decisamente opposta», scrive il quotidiano milanese.
Ci vuole un certo eroismo, sì: difendere i propri uomini (e, possibilmente, la loro progenie…) davanti all’Istituzione non è da tutti.
Tuttavia, qui ci parte un campanellino… Ci sembra che, negli anni, si sia sviluppata una certa vulgata, anche piuttosto pubblicizzata dalle Commissioni Parlamentari di Inchiesta, sul ruolo che sulla salute dei soldati avrebbero avuto i vaccini.
Non è che ce lo sogniamo, la questione è perfino nel nome: «Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato in missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti di deposito di munizioni, in relazione all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno e da somministrazione di vaccini, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni Relazione sulla sicurezza sul lavoro e sulla tutela previdenziale nelle forze armate».
La storia, di cui non ha il monopolio l’Italia (pensiamo agli USA, e alla questione dei vaccini sperimentali antiantrace, e oltre) fa venire in mente la ripugnante idea che, come sempre, i nostri soldati vengano utilizzati come carne da cannone – e carne da siringa.
Tuttavia, al di là di queste valutazioni, possibile che la questione dei vaccini militari nel contesto dell’uranio non sia arrivata al generale?
Non sappiamo. Tuttavia nel libro autopubblicato, vi è un passaggio che fa pensare al fatto che il generale forse non vede di buon occhio chi critica i sieri inoculati alla popolazione.
Nel primo capitolo, intitolato, «Il Buonsenso» (con la maiuscola) leggiamo che «il riferirsi a sé stessi [sic] è una delle caratteristiche dei tempi moderni che ha mosso i suoi primi timidi passi, probabilmente, da quando Cartesio ha pronunciato il fatidico anatema “Cogito ergo sum“».
I limiti di questa tendenza cartesiana individuata dal generale vengono subito spiegati: «diventa difficile da sostenere quando ci riferiamo solo e unicamente a noi stessi senza tener conto di alcun altro, di quelli che ci hanno preceduto, della società, della maggioranza e mettiamo in dubbio anche quello che dovrebbe essere ormai palesemente considerato come acquisito». (Il corsivo qui è nostro)
Quindi l’invettiva:
«Ecco, allora, che la terra ritorna a essere piatta, che la NASA ha inscenato un teatrino spaziale per farci credere che l’uomo abbia passeggiato sul suolo lunare, che i vaccini diventano vettori per microchip al fine di controllare in senso orwelliano la nostra esistenza, che il virus del COVID non esiste, che i galli, ogni tanto, fanno le uova e che non conta se sono un uomo barbuto, muscoloso e dalla pelle olivastra, ma se mi percepisco come una donna bionda, esile e bisognosa di protezione tutti mi devono raffigurare in tale maniera ed, in primis, i miei documenti d’identità!». (anche qui il corsivo è nostro)
In sintesi: molti lettori di questo sito, pur non considerando che i vaccini contengano chip (con la penuria che c’è, causa Taiwan, poi) vengono accomunati a coloro che non credono allo sbarco sulla luna (cioè, a pochi metri dal terrapiattismo, vien da pensare), e a categorie come quella dei nerboruti levantini che si sentono ragazze nordiche e perfino, questa davvero ci mancava, a coloro che credono che i galli fanno le uova». (Ci sono? Chi sono? Hanno un’associazione? Hanno un sito? Una newslettera a cui iscriversi?).
Vorremmo dire: se non si è capito che è un mondo di sorveglianza più che orwelliana quello che si sta dipanando sotto i nostri occhi, probabilmente c’è da fare una diagnosi consistente di prosciutto oftalmico. Così come non comprendere che proprio i vaccini hanno introdotto un sistema di controllo – tramite chip, sì: quelli dei telefonini – ci lascia basiti. In questo libro auto-edito nel 2023, la parola green pass in effetti non ricorre nemmeno una volta.
Ora: qualcuno ha detto che le frasi su gay, immigrazione e di involuzione della società civile contenute nel libro, più che inopportune, sono di grande superficialità. Si può essere d’accordo: a leggere i passaggi incriminati, pare di vedere le reazioni di qualcuno che ha appena scoperto tali fenomeni, e non abbia davvero idea di quanto essi siano radicati non solo nella società, ma nello stesso Stato che il militare serve.
Il privilegio istituzionale omosessuale è stato letto da alcuni come materia di fatto già codificata con lo stralcio dell’obbligo di fedeltà nella legge Cirinnà: in pratica, a differenza degli eterosessuali che sono sottoposti, anche se «sposati» in Comune, all’obbligo di non tradire, nelle unioni gay le corna sono libere. E questa non è un’opinione politica: è legge della Repubblica Italiana. E questo è solo uno degli esempi possibili.
Il discorso sulla pallavolista di origine nigeriana Egonu (che, aggiungiamo noi, offre in combo anche il coming out fatto sul Corriere nel 2018: è stata con un’altra atleta, per poi però dirigersi su un altro atleta, senza apostrofo, maschio) è anche quello un po’ stucchevole: «anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri». Chi scrive una cosa del genere non ha mai sentito parlare di Piano Kalergi, né probabilmente si è reso conto che lo sforzo di africanizzare l’Europa è visibilmente portato avanti dagli Stati stessi.
Vi è quindi un passaggio sugli «occupatori abusivi ed i ladri di case», i quali sono «più tutelati dei loro legittimi proprietari». Una posizione pure condivisibile (anche se avvocati del settore ci dicono essere, nella maggior parte dei casi, meno irrisolvibile di quanto si creda), ma che ci fa scattare il pensiero definitivo: ma con tutti i problemi apocalittici davanti a noi, e nel piccolo di milioni di casi, con l’angoscia di non arrivare a fine mese delle partite IVA e dei dipendenti non garantiti (cioè, non statali), dobbiamo davvero metterci a pensare a chi ha due o tre case?
Siamo, decisamente, dalle parti dei discorsi della media borghesia conservatrice (quella benestante, benpensante, quella del «Buonsenso», con la maiuscola), in zona Feltri, Libero, etc. – che di fatto hanno abboccato subito.
A questo punto ci viene da ricordare che in Italia, come in altri Paesi, il programma di vaccinazione di massa è stato realizzato dai militari, con il comando dell’indimenticabile generale Figliuolo. Si tratta proprio dello stesso esercito in cui serve il Vannacci. I militari, che esistono grazie alla Costituzione italiana (il Giappone, in teoria, non ne ha: e per costituzione) hanno quindi lasciato tranquilli che essa venisse violata in quantità di articoli. Anzi, ci ricordiamo pure di quando, in un momento magico, il direttore di un giornale dell’oligarcato industrial-finanziario, compenetrato totalmente con l’establishment e la sinistra, chiese una sorta di golpe militare vaccinale.
E ci viene in mente pure che l’Ucraina, in questo momento, è armata con estrema generosità dall’Italia, che si è privata perfino di sistemi antiaerei (i SAMP-T) senza i quali ora siamo vulnerabili e che non si è capito bene con quale velocità saranno rimpiazzati.
Non so come la pensano i vertici militari, tuttavia in molti ritengono che armare l’Ucraina, con lo spettacolo osceno dei video finiti in rete carri e dei cannoni fermi nelle stazioni ferroviarie, abbia un microscopico effetto collaterale: apra alla possibilità di una guerra termonucleare.
Sappiamo che non tutti i decisori dell’esercito sono d’accordo: lo strano caso dei trasporti di carrarmati fermati e multati in autostrada in Campania (!) ci avevano fatto pensare a qualche malumore interno alle forze armate.
Tuttavia, ad eccezione del generale Mini, che è in pensione e la dice tutta, non ci pare di aver visto altri casi in cui un soldato, cioè un uomo che tecnicamente vive per difendere la patria e i compatrioti, abbia alzato la mano per dire: «è una follia, ci stiamo esponendo al rischio di una Terza Guerra Mondiale combattuta con le atomiche».
È possibile eseguire un ordine senza protestare, se si sospetta che esso possa ingenerare il genocidio dello stesso popolo che si deve difendere?
È possibile servire un comando che può portare alla devastazione definitiva della terra che si è giurati di proteggere? Qui si entra nella parte più abissale della riflessione che vogliamo fare, che accomuna i sieri mRNA e le atomiche, e va molto al di là del caso del generale.
Sì, una tale follia è possibile a causa della struttura stessa dello Stato moderno. Nella sua concezione sorta più o meno duecento anni fa, tuttora inflittaci, lo Stato va obbedito a prescindere, in quanto deposito di ideali (ideali, non persone), concetti e contenuti talvolta confusamente raffazzonati.
«Forse ingenuamente ed illudendomi un po’ – scrive nel suo libro il generale Vannacci – ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, di Romolo, di Giulio Cesare, di Dante, di Fibonacci, di Giovanni dalle Bande Nere e di Lorenzo de Medici, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo e di Galileo, di Paolo Ruffini, di Mazzini e di Garibaldi».
La vertigine della lista, diciamo un po’ eterogenea, è notevole, e riattiva nel cinefilo che è in tutti noi all’apologia del Made in Italy contenuta nel polpettone dei Fratelli Taviani Good Morning Babilonia (1987): «queste mani hanno restaurato le cattedrali di Pisa e Lucca, Firenze» diceva, in una scena di kitsch assoluto, un immigrato nostrano nella Hollywood dei primordi, dinanzi agli insulti italofobi di un tizio a caso. «Di chi sei figlio tu? Noi siamo i figli dei figli dei figli di Michelangelo e Leonardo». (Quindi apprendiamo che i due grandi artisti non erano gay, con grande sollievo di taluni)
Bene, ma nell’elenco mistico-patriottico del generale ci sono anche, e soprattutto, Mazzini e Garibaldi. Sì, loro: il terrorista massone morto latitante come un Bin Laden qualsiasi (come si può morire da ricercati, e poi ricevere l’onore della toponomastica ancora persistente, è un mistero che ci spiegheranno un giorno, forse, a Londra, o forse a Livorno) e il ladro di cavalli, massone anche lui, che nonostante l’orecchio mozzato (era la punizione sudamericana per l’abigeato) e la passione per la giovane Anita (quanti anni aveva?), ha fatto carriera, come anche i figli suoi – chiedete, magari, ai correntisti della Banca Romana, lo scandalo Etruria dell’Ottocento, partito praticamente nell’immediatezza dell’Italia Unita.
La Nazione creata dai grembiulisti Mazzini e Garibaldi non era costituita da persone – gli italiani, a detta dello stesso Cavour, erano ancora da farsi – ma da concetti astrusi, nonché dai loro ideali massonici e dai loro traffici.
La Nazione, quindi, non era fatta, come dovrebbe suggerire l’etimo, dei nati. Anzi, alla nuova Nazione, al nuovo Stato, dei nati non sarebbe fregato niente: carne da cannone per guerre inutili prima, poi, inoltrandoci nel XX secolo, ecco il genocidio dei non-nati istituito per legge dallo Stato stesso.
In pratica, lo Stato moderno non difende la vita: esso è una struttura inorganica, una macchina, che agisce secondo il software che le si immette. Talvolta il programma è ancora quello dei massoni di due secoli fa, talaltra si sono innestate linee di comando nuove, e ancora più distruttive.
Ecco che, tra il XX e il XXI secolo, lo Stato moderno è divenuto definitivamente una macchina di morte: aborti, provette, eutanasie, contraccezioni, psicodroghe, predazione degli organi e vaccini ce lo dicevano apertamente da decenni. Ora si è aggiunta, grazie alla follia ucraina, anche la minaccia dell’annientamento dell’atomo.
In tutti questi casi, è sensibile più che mai il fatto che è la Necrocultura a guidare lo Stato e il super-Stato che lo contiene e lo informa, sia esso la UE o la NATO o chissà quale consesso occulto informi le decisioni che ricadono sulle nostre misere esistenze.
Lo Stato moderno è lo Stato della morte.
La domanda è: possibile davvero servirlo, anche quando il suo pungiglione diviene evidente?
Qual è la vera patria da proteggere? È un’insalata di nomi storici di artisti e scienziati e tizi vari, è l’accumulo dei monumenti, è la lingua (che in forme varie era parlata anche a Malta e in Isvizzera, dove Mazzini mai ha pensato annettere nulla, mentre Nizza è stata donata tranquillamente ai francesi, mentre Istria e Dalmazia, pochi anni fa, sono state semplicemente dimenticate), è l’ideale nazionale fatto della pastasciutta, dei musei, della squadra di calcio, del buon vino, della moda (fatta da stilisti gay, spesso), dei residui archeologici, degli gnocchi, delle auto sportive, della TV, del ragù… di cosa?
Peraltro quanto elencato dall’ ingenuo impulso nazionalista, dobbiamo aprire gli occhi, non solo non è eterno: è ora sotto la diretta minaccia della distruzione termonucleare, della cancellazione dal piano dell’esistenza pura e semplice: il fatto, quindi, che per chi si dica nazionalista non sia una priorità – anzi lavori in senso opposto – è un pensiero che dà sgomento.
E quindi, ancora, cos’è la patria? Cos’è che dobbiamo davvero proteggere?
La patria, o ancora meglio la madrepatria, è fatta, già nella parola, di qualcosa di assai immediato e di ben poco ideale: il padre, la madre. La generazione di esseri umani, i nati, costituisce la Nazione.
Materialmente: queste non sono idee, astrazioni sono fatti – sono vite umane.
Qualcuno ha detto che il patriottismo è la difesa della legge naturale. Forse, ma crediamo che sia ancora un’astrazione che non rappresenti la realtà ultima di ciò che dovrebbe proteggere lo Stato.
La vera madrepatria – riascoltate la parola, ancora una volta – non può che essere la vita. Il senso ultimo dello Stato non dovrebbe essere altro se non la protezione e la moltiplicazione della vita umana.
L’unica vera patria è la Vita. L’unico vero patriottismo è quello verso il Dio vivente.
Tale pensiero, speriamo di avervelo fatto capire, è totalmente opposto alla realtà dello Stato moderno, e quindi sconosciuto ai suoi servitori.
Ora possiamo capire come sia possibile che i militari eseguano la vaccinazione genica sperimentale di massa della popolazione che dovrebbero difendere.
Ora possiamo capire come sia possibile che i militari espongano il popolo che dovrebbero proteggere – e perfino la terra, i monumenti, i palazzi, le opere d’arte, i paesaggi – al rischio concreto di annichilazione nucleare.
E quindi, sceglietevi gli eroi antisistema che volete, lasciatevi risucchiare dalla sindrome da cartellone del momento, fate pure scroll su Telegram in cerca di eccitazione, di indignazione dopaminica. Ne avete diritto: la superficialità non è proibita dalla legge, anzi.
Ma rammentatelo sempre: il sistema ed i suoi uomini, in ultima analisi, non lavorano per la vostra vita, né quella dei vostri figli. Mai.
Solo uno Stato nato dalla fine dello Stato moderno, uno Stato rifondato nella sua profondità, basato sulla continuazione dell’essere umano, potrà farlo.
Non sappiamo se lo vedremo mai. Ma è ciò a cui dobbiamo tendere con tutte le forze che ci rimangono.
Roberto Dal Bosco
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; modificata con taglio e ricolorazione.
Economia
Da cittadini a consumatori. Da consumatori a schiavi

C’è un signore quasi 80enne a cui voglio bene che mi chiama spesso per risolvergli alcuni problemini informatici. Non che sia un esperto, ma ambedue sappiamo che il fatto che appartengo alla generazione successiva alla sua aiuta.
Praticamente tutte le volte ho risolto; inutile nascondere che un’ampia porzione di chiamate riguardavano il pezzo di hardware più delicato e irrazionale: la stampante. Un oggetto a suo modo carico di significati: abolito oramai nelle case di chi ha meno di quaranta anni ma irrinunziabile per i più anziani, è l’unica parte del computer che fa qualcosa di fisico, produce documenti di carta, materia, roba.
La sua storia economica stupisce ancora: la stampante è un piccolo robot in grado di eseguire movimenti micrologici in velocità pazzesca, tuttavia costa poco, talvolta pochissimo – molti ricordano quando invece il prezzo era esorbitante, al punto che si portavano i file in copisteria. Poi, con la realizzazione che il danaro vero stava nella rivendita delle cartucce, la printer vide il suo prezzo precipitare.
La vecchia stampante a getto d’inchiostro dava problemi al mio amico. Alla seconda cartuccia cambiata, gli ho detto che probabilmente il problema era nella stampante, e visto che non veniva rilevato dalla macchina, forse era il caso di cambiarla – ripararla? No. Con quello che costano…
Incaricato della missione, gli trovo nel giro di 24 ore una stampante laser stupenda. Piccolina, semplice fino al minimalismo. un design che viene voglia di piazzarla in mostra sulla mensola della sala da pranzo come un vaso cinese, emana perfino un lucore perlaceo azzeccatissimo, come i primi Mac, forse meglio ancora.
Eccomi quindi pronto ad eseguire l’installazione. Attacca il computer, attacca la corrente, collega la USB (a dire la verità, la presa è un po’ nascosta…). Fai una stampa di prova. Ze-ze-ze-ze-ehmmmm. Fanne un’altra. Zin-zin-uuunnn. Il suono della stampa cibernetica dà gioia. Fai una prova della funzione fotocopia. Clic. Uhm-Uhmm-ze-ze-ze-zeeeem. Tutto perfetto. Buonanotte.
Il giorno dopo tuttavia, mi richiama. Si vergogna un po’ a dirlo, visto lo sforzo che ho fatto, e la paura di sembrare invadente. La stampante non va.
Trovato il tempo di visitarlo, mi rendo conto che non è un problema di software (disinstallare la precedente, mettere la presente come stampante principale: pensavo fosse semplicemente quello). Seguo le istruzioni, mi infilo nell’applicazione della casa madre. Non trovo soluzione.
Un segno inquietante lampeggia sulla stampante, come fosse in Stato di errore. L’errore, però, non si trova – in realtà non c’è.
La stampante in realtà funziona: trovato il modo di fare stampe di prova in automatico, mi esce una paginata che dice che la stampante è bloccata, deve essere configurata. Configurata? Lo è. L’ho fatto ieri. Leggo meglio: bisogna collegarla al WiFi, altrimenti non va.
A questo punto mi convinco che si tratti di un piccolo, innocente errore del produttore – una rinomatissima multinazionale. Si tratterà solo di disattivare qualcosa, dire alla stampa che non mi interessa il WiFi, che a casa del signore 80enne non c’è ed è pure giusto così. Voglio solo che la stampante continui a stampare come ha fatto nei primi giorni, quando abbiamo prodotto almeno una dozzina di stampe, tra prove e documenti medici vari. Non è che ci vuole molto: ci sarà uno switch da qualche parte, un comando che posso dare dal software per dire che salto l’installazione della rete nel dispositivo, il WiFi nella macchinetta non ce lo voglio, in verità neanche lo ho.
Le istruzioni, sia quelle di carta ancora incellofanate nella scatola sia quelle online del sito del produttore, non aiutano nemmeno alla lontana. Cerco un tutorial su YouTube. Qui mi viene rivelato l’orrore: altri hanno avuto il mio stesso problema. E il motivo è semplice: la nostra stampante funziona solo con il WiFi. Cioè: se non esegui quel passaggio – connettere in rete per sempre la periferica – non puoi utilizzarla in altro modo, neanche se ti ha appena dimostrato che con il cavo va.
Un tizio su YouTube dice che è proprio così, e quello che è peggio è che il software per fare la registrazione – perché oltre che la macchinetta in rete vogliono, ovvio, che tu ti faccia un account sulla loro piattaforma – non funziona bene, né sul PC né sul telefono. Sotto vi sono decine di commenti, tutti concordano. Anche a me è capitato. È incredibile. È spazzatura. Avidi. Non comprerò mai più qualcosa con quel marchio. Un diluvio.
A quel punto, confesso, sono talmente scioccato da essere incredulo. Non mi resta che provare l’elemento più raro e difficile dei problemi informatici: l’assistenza umana. Chiamo un numero, una voce di androide mi dice che potrebbero rispondermi da fuori della UE, e se non mi va bene devo dirlo a chi mi risponderà («Buongiorno, non voglio parlare con Lei, è un extracomunitario» – chiaro che si tratta dell’ennesima legge europea allucinante che bisogna rispettare, come il GDPR, fatto da qualcuno che non si rendeva conto di quanto stava complicando la vita alle persone normali, o forse implementato proprio per questo). Poi un «menu» vocale, dove nessuna delle tre opzioni è la mia, che è anche piuttosto semplice: problema alla stampante, fatemi parlare con qualcuno.
Alla fine, tuttavia, mi rispondono, e perfino dall’Italia. Il tono del signore passa dal gentile, allo stupito, infine all’imbarazzato. Mi conferma che sì, la stampante va solo se mettiamo il WiFi.
«Ma come, ha stampato fino a poco fa usando solo il cavo USB… in casa il WiFi non c’è» gli dico sperando che la logica si abbatta su di lui e sulla sua multinazionale in modo che mi diano ragione.
«No. È pensata solo per andare in WiFi. La stampante consente di fare solo un numero di stampe via cavo al momento dell’installazione. Poi basta».
Sono basito. Resto qualche secondo in silenzio, fino al momento in cui realizzo che potrei star creando disagio.
Il tizio è cortese, mi dice che potrebbe forse mandarmi una stampante a cavo usata, forse pagando qualcosa. Saluto. Riattacco. La stampante, bella ed elegante, finisce re-inscatolata immantinente. Raus. Reso.
Il lettore che è arrivato fin qui, si chiederà come mai abbia raccontato una storia così minimale, comune. Per una volta non si parla di guerra atomica, demoni irati, geopolitiche abissali, programmi di sterminio. Parliamo di stampanti che non vanno, sì: perché questa storia ha in sé un significato spaventoso.
La realtà del problema era di non difficile comprensione: la stampante poteva tranquillamente essere usata con il cavo, come aveva dimostrato di poter fare, ma la funzione veniva bloccata dal software del produttore, che così ti obbligava a collegare in rete la tua stampante – in modo che la multinazionale avesse informazioni costanti sullo stato del prodotto che hai comprato.
Perché? Perché la prima cosa che trovavi aprendo la scatola era una brochure, il cui contenuto era ripetuto in un adesivo che copriva il muso della stampante, su un servizio di consegna automatica delle cartucce: stai per finire il toner, e automaticamente ti arriva a casa, perché il produttore controlla, grazie al fatto che hai connesso il WiFi, quanto ti manca e fa scattare una spedizione al momento del bisogno. Mica una brutta idea: di fatto, prima della disavventura, avevo pensato addirittura che potevo abbonare il signore mio amico.
Al momento della configurazione poi potrebbe venire chiesta l’email, viene creato un profilo nel database della grande azienda, forse viene chiesta, ineludibilmente, la carta di credito. Del resto, l’offerta è quella di iniziare con il programma di sostituzione automatica delle cartucce con una cifra irrisoria, che però va corrisposta – di modo che poi hanno, oltre che il tuo recapito fisico ed elettronico, anche il numero con cui farti fare strisciate cicliche.
La stampante, comprata come un oggetto, una commodity, è divenuta solo un’esca per captare dati e abbonamenti, una propaggina fatta di atomi della subscription economy.
Il fatto è che non è che hai alternativa: o fai come dicono loro, o la stampante che hai appena comprato non va, non vale più nulla per te, è inservibile. Non credo che tanti, davanti ad un bivio del genere, possano aver fatto la mia scelta – rimpacchetto tutto e arrivederci. Tutti vengono tranquillamente obbligati a seguire la direttiva che porta esattamente dove vuole il grande ente.
Alzi la mano chi non si è trovato, almeno una volta, davanti a una richiesta proveniente dal sistema operativo, dai social, da qualche altro software dove di fatto non vi era altra scelta che schiacciare «Continua», «Accetta» o una cosa così. Nel gergo del web li chiamano dark pattern. L’utente è portato a compiere azioni perché non vi è altra opzione possibile, non un «Declina» o un «Cancella», talvolta nemmeno il tasto X per chiudere, la finestra. Devi fare quello che ti dicono: punto.
Forse a qualcuno comincia a suonare qualche campanello, e comincia a capire dove voglio arrivare.
Se mi obblighi a fare qualcosa che non voglio, perché non mi dai scelta, di fatto mi stai privando della libertà, oltre che di diritti codificati nella Carta costituzionale e nei vari codici che regolano il commercio e le relazioni umane.
Una volta eravamo cittadini, cioè latori di diritti, espressi in regole che fondano lo Stato stesso. Il cittadino dotato di diritti gode di determinati poteri: pensate all’habeas corpus. Il cittadino, quindi, riconosceva l’importanza collettiva delle istituzioni, di cui aveva rispetto (pensate al fatto che tutti, un tempo, si vestivano bene per andare a votare).
Il cittadino, dimentico degli orrori del mondo senza regole – quello delle guerre, dei collassi nazionali, delle crisi sacrificali della società – ben presto ha cominciato a percepire come garantiti quei diritti, al punto da permettersi perfino di ignorarne l’esistenza.
Con l’avvento della prosperità del dopoguerra è divenuto sempre più evidente che il cittadino, in cui era accresciuto un nuovo potere – il potere di acquisto – si stava trasformando in qualcos’altro: un consumatore. Anche lo Stato in qualche modo lo riconosce: elementi necessari alla vita come l’acqua, il gas e l’elettricità non sono erogati al cittadino, ma all’utenza, cioè al consumatore.
Il consumatore in realtà ha con i grandi marchi dell’industria che lo rifornisce un rapporto migliore di quello che ha con lo Stato. Morto ogni sentimento nazionale e considerato perfino pericoloso il nazionalismo, lo Stato è percepito come qualcosa che non ti puoi scegliere, e che quindi che può cozzare contro la tua felicità personale, perché, secondo la logica liberal-utilitarista, è buono e giusto solo ciò che si può scegliere (comprese le cose ultime: genere sessuale, bambini, morte, etc.)
Quindi, i grandi brand godono del favore del cittadino-consumatore più ancora dello Stato-nazione o quel che ne rimane. Alcuni sociologi hanno ipotizzato che i grandi marchi hanno preso il posto delle realtà sociali che, assieme ai loro simboli, sono retrocesse nella vita delle persone: la religione, la politica o anche l’esercito.
Di fatto, la felicità del popolo dei consumatori è evidente soprattutto in estate durante i mega-concerti di rock e dintorni: fenomeni di ritrovi di massa per chi consuma lo stesso prodotto, che in questo caso è un cantante famoso. Il fenomeno dei biker, è qualcosa di diverso? No: tendenzialmente è l’espressione orgogliosa di consumatori organizzati – gli eventi dei Ducatisti fanno arrivare talmente tante persone che le moto, come cavallette, possono intasare l’uscita dell’autostrada.
Chi non ha un amico patito di Apple, con qualche cimelio in casa, e magari l’adesivo con la mela esibito tamarristicamente sul culo dell’auto? Chi non conosce un esempio di sostenitore zelota della Nintendo? Ci sono perfino, e non sono pochi, i fan della Coca-cola: non solo la bevono, collezionano le lattine, hanno in casa i poster.
I consumatori hanno prosperato, più felici – in teoria – che mai, per decenni. Sceglievano l’istituzione cui obbedire, la grande realtà che era possibile perfino amare. Perché il brand, cioè la grande industria che ti fornisce l’oggetto di consumo, a sua volta rispettava i suoi consumatori, financo li riamava, sotto forma di prodotti soddisfacenti. Lo insegnavano nei corsi di marketing: il vertice della piramide è quando la sola visione del marchio stimola sensazioni positive nel consumatore, proprio come in un rapporto amoroso.
Ora è divenuto chiaro che anche l’era del consumatore è finita. I grandi soggetti economici non cercando più un rapporto con l’utente: ne cercano il controllo. La tecnologia cibernetica lo rende possibile. I dati che lui stesso fornisce, oltre che il suo recapito, rende possibile di comandarlo e tracciarlo – non devo più trovare il cliente, non devo fare in modo che venga da me, so già dove si trova, di cosa ha bisogno, conosco le modalità in cui posso insistere per prendermi il suo danaro.
Come per quanto la relazione tra Stato e cittadino: non è più un rapporto, è una sottomissione. Non c’è più la collaborazione, c’è il controllo. Non c’è lo scambio, c’è la sorveglianza.
Da una visione personale del marketing – che faceva uso di psicologia sociale, sociologia e altre scienze umane – siamo passati alla meccanica impersonale del digitale, dove è possibile controllare, cioè sottomettere, il consumatore. E non c’è alternativa alcuna: ora si fa solo così, e le aziende che non spingono il consumatore negli imbuti della digitalizzazione cesseranno di esistere a breve – così ci ripetono.
Caro cliente, ci interessi solo se ci darai in continuazione i dati tuoi e della stampante che hai comprato, altrimenti la rendiamo inservibile. Ma mica è solo il caso della stampante.
Abbiamo detto dei dark pattern dei vari software, che aprono finestre di dialogo in cui puoi schiacciare solo quello che vogliono loro senza altra scelta. Uno di questi casi ha prodotto, nel mio piccolo, un effetto così grottesco che stava per entrare a latere di una causa in tribunale.
Ma pensate a come l’informatica, o meglio, l’Internet of Things – la connessione di ogni oggetto in rete, come da sogno espresso nei libri di Casaleggio – stia per cambiare radicalmente tutto: avrete sentito parlare delle auto che saranno in grado, nel caso saltiate una rate del leasing, di bloccarsi e magari di autosequestrarsi. Lo stesso, in verità, potrà dirsi possibile per ogni elettrodomestico, dal telefonino al bollitore del the, dalla TV alla lavatrice-smart: tutti dispositivi pronti per il credito sociale europeo, quello per cui perderai punto per mancata vaccinazione, per aver scritto qualcosa contro la politica del governo o aver espresso dubbi sulla beltà dell’immigrazione di massa e dell’Ucraina.
Ecco che anche il consumatore è finito: senza più i diritti del cittadino, e senza più nemmeno le gioie e le libertà del consumo, egli è divenuto un essere umano sprotetto e privo di scelta – cioè uno schiavo.
Abbiamo capito che tale trasformazione ulteriore della persona umana va bene alla massa: la pandemia è stata una grande ricerca di mercato per capire fino a dove potevano spingersi nell’implementare la nuova schiavitù, e si è capito che potevano arrivare perfino a livello subcellulare: la vaccinazione universale mRNA altro non è se non un grande dark pattern di estremo successo, quella cosa per cui dovevi farlo anche se non ti obbligavano, solo ti toglievano il lavoro e la vita sociale, il sostentamento e il senso di appartenenza alla società.
Milioni, forse miliardi, sono finiti nell’imbuto della siringa globale: sono entrati cittadini-consumatori, sono usciti schiavi.
Quindi, non ci sorprendiamo se anche le grandi aziende ora ci trattano come schiavi. È il paradigma mondiale che è cambiato: non siete più persone libere che hanno diritti inalienabili, siete utenti di una piattaforma cui possono essere concessi, in base a meccaniche premiali basate sul vostro comportamento, degli «accessi», che il potere più alto (che magari nemmeno è più umano: magari è un algoritmo) vi può assegnare e revocare come vuole.
L’arrivo del danaro programmabile CBDC, che qui prenderà la forma dell’euro digitale, lo sancirà una volta per tutte: potrete vivere fino a quando lo decideranno sopra. Poi, semplicemente, vi spegneranno.
Siamo soggetti, quindi – nel senso di sudditi, o anche meno di quello, perché il potere può esercitare su di noi capricci sempre più intollerabili.
Siamo solo degli schiavi, e oramai ve lo dice perfino la vostra stampante.
Roberto Dal Bosco
P.S. Se volete sapere com’è finita la storia del signore: resa la printer-schiavitù, gli ho trovato, non senza difficoltà, una stampante che va solo a cavo. È enorme, scura, tozza, bruttissima. Ci ho messo un’ora ad installare il driver, che era fornito via disco (ricordate cosa è?) oppure si scaricava dal sito in un pratico file da 400 mega, praticamente Moby Dick. Però funziona tutto. La scomodità, si è capito, è la prima moneta che si deve pagare se si vuole mantenere la libertà.
P.P. S. Full disclosure: lo scrivente è ducatista, nintendista, possessore di vari prodotti Apple, bevitore, con moderazione e anche no, di Coca-cola. Ammetto tutto. Ma niente raduni, collezionismi eccessivi, adesivi deturpanti nel didietro della macchina, peraltro già gravemente segnato dalla grandine.
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