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Geopolitica

Gheddafi sta stornando. Sul serio

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Gheddafi sta tornando, e la Libia è pronta ad accoglierlo a braccia aperte.

 

Non si tratta di Muhammar, che è difficile che torni dal Regno dei Morti (con buona pace di coloro che credono sia vivo, nascosto magari in un lussuoso sobborgo di Mosca con altri dittatori dalla pubblica morte simulata). Si tratta del figlio Saif al-Islam Gheddafi.

 

Il New York Times il mese scorso ha pubblicato un lungo e dettagliatissimo reportage che va ben oltre l’ardita intervista con il rampollo Gheddafi per offrire un quadro della Libia davvero importante per chiunque, come gli italiani, viva a poca distanza dalla polveriera libica. Inutile cercare analisi, o anche solo l’eco, di quello che viene detto nel pezzone del NYT sui media italiani.

 

Si tratta di un grande reportage, contente forse più di uno scoop.

 

In Italia e nei suoi giornali troppi sono gli interessi pubblici e privati (o meglio, semi-privati) in una situazione instabile dove il sistema Paese italiano certo non ha brillato per le sue scelte, scommettendo talvolta sul cavallo sbagliato, e creando una voragine di influenza un tempo impensabile, dove si sono posizionati la Turchia, la Russia, l’Egitto, gli Emirati, e finanche il Qatar e Francia e Regno Unito. Del resto ogni tanto bisogna ricordare a noi stessi che il ministro degli Esteri è Luigi Di Maio.

 

Il pezzo del NYT è un esempio  di immenso giornalismo di inchiesta. Mesi e mesi di lavoro dell’inviato, su e giù per la Libia a parlare con capi tribali, ministri, miliziani e uomini della strada. Al giornalista Robert F. Worth, soprattutto, è consentito di incontrare Saif Gheddafi (che nessun giornalista occidentale vedeva da dieci anni) in una ricca villa che sembra appena arredata, dove il figlio del dittatore parla con franchezza del futuro suo e del Paese, due cose che sembrano destinate a divenire una sola.

 

Saif Gheddafi prima del 2011 agiva come volto internazionale del regime tripolino. Era accettato nelle cerchie mondialiste, specie londinesi – aveva acquisito un inglese impeccabile con gli studi alla London School of Economics. Aveva fatto dichiarazioni sorprendenti, come quando disse che in Libia non c’era democrazia, e non intendeva essere un complimento a suo padre. Non aveva ruoli precisi all’interno dello Stato libico, tuttavia il padre gli aveva dato incarichi delicatissimi come le riparazioni per la bomba che disintegrò il volo Pan Am 103 sopra Lockerbie. Si dice che egli possa aver avuto un ruolo nella decisione del padre di smantellare le armi di distruzione di massa (di fatto, la scelta più stupida possibile, che gli è costata con probabilità la morte e l’esplosione del suo Paese).

 

«Hanno violentato il paese, è in ginocchio. Non ci sono soldi, nessuna sicurezza. Non c’è vita qui. Vai alla stazione di servizio: non c’è diesel. Esportiamo petrolio e gas in Italia – stiamo illuminando mezza Italia – e qui abbiamo blackout. È più di un fallimento. È un fiasco».

Tuttavia, quando scoccò l’ora fatale della primavera araba in suolo libico, Saif partecipò alla repressione del regime, che fu certo violenta. Quando il ghedaffismo ebbe la peggio, Saif invece di essere giustiziato venne rapito da una milizia indipendente, che lo preservò dalle attenzioni di altre fazioni ribelli portandolo nella loro regione di origine, le montagne di Zintan. Fu prigioniero per lungo tempo, anche dopo le elezioni libiche del 2012.

 

Seguirono anni di caos e sangue. Milizie armate devastano città e villaggi, compare perfino un mini-califfato ISIS sulla costa.

 

«Lentamente, i libici hanno iniziato a pensare in modo diverso a Saif al-Islam, che profetizzò la frammentazione della Libia nei primi giorni della rivolta del 2011. Ci sono state segnalazioni che era stato liberato dai suoi rapitori, e anche che stava progettando di candidarsi alla presidenza. Ma nessuno sapeva dove fosse». Era a Zintan, assieme ai suoi nemici ora alleati. Da prigioniero a principe in attesa. «Riesci a immaginare? Gli uomini che erano le mie guardie ora sono miei amici». R

 

All’epoca qualcuno parlava del fatto che Saif fosse ancora vivo forse perché sapeva dove era nascosto, e magari poteva disporre, del famoso «tesoro di Gheddafi». Renovatio 21 rammenta figure che erano alla febbrile ricerca di questa quantità infinita di danari, da riconsegnare alla Libia, alla banche o chissà a chi. Il tesoro, infine, parrebbe non essere stato trovato.

 

Il giornalista nota che a Saif mancano il pollice e l’indice destro, che sostiene essere stati amputati in un attacco aereo nel 2011. Dice inoltre di non essere più prigioniero, e di star preparando il suo ritorno sulla scena politica.

 

«Saif ha sfruttato la sua assenza dalla vita pubblica, osservando le correnti della politica mediorientale e riorganizzando silenziosamente la forza politica di suo padre, il Movimento Verde. È timido sul fatto che si candiderà alla presidenza, ma crede che il suo movimento possa ripristinare l’unità perduta del Paese». Qui il New York Times fa un implicito riferimento al populismo di Trump.

 

Può essere che si senta tradito dagli italiani, che in fine dei conti erano grandi alleati del padre?  Significa che se salisse al potere, Saif farà una politica anti-italiana, a partire dalla questione energetica?

Un messaggio contro i politici che, tra corruzione e incompetenza, hanno portato il Paese alla miseria e alla violenza, cioè l’esatto contrario di quello che era la Libia di Gheddafi senior.

 

«Hanno violentato il paese, è in ginocchio. Non ci sono soldi, nessuna sicurezza. Non c’è vita qui. Vai alla stazione di servizio: non c’è diesel. Esportiamo petrolio e gas in Italia – stiamo illuminando mezza Italia – e qui abbiamo blackout. È più di un fallimento. È un fiasco».

 

Già qui, ci sarebbe mezzo scoop per gli Italiani. A cosa si riferisce il rampollo? Può essere che si senta tradito dagli italiani, che in fine dei conti erano grandi alleati del padre (che arrivò a piazzare l’immagine di Berlusconi che stringe la mano al Rais come grafica di tutti passaporti libici)? Significa che se salisse al potere, Saif farà una politica anti-italiana, a partire dalla questione energetica?

 

«Nonostante lo status di fantasma di Saif , le sue aspirazioni presidenziali vengono prese molto sul serio

Non sono questioni di poco conto per il nostro Paese. Chi si occupa di combustibile, di economia, di tenuta del Paese, leggendo questa dichiarazione dovrebbe sobbalzare dalla sedia.

 

Anche perché l’analisi pare condivisa sia dal giornale di Nuova York che dal popolo libico: «Dieci anni dopo l’euforia della loro rivoluzione, la maggior parte dei libici probabilmente sarebbe d’accordo con la valutazione di Saif».

 

Non si tratta di un miraggio. Gheddafi junior ha delle concrete possibilità di arrivare al potere.

 

«Nonostante lo status di fantasma di Saif , le sue aspirazioni presidenziali vengono prese molto sul serio. Durante i colloqui che hanno formato l’attuale governo libico, i sostenitori di Saif sono stati autorizzati a partecipare e finora hanno manovrato abilmente per respingere le regole elettorali che gli avrebbero impedito di candidarsi».

 

Racconta il giornalista americano:

 

«Per molti libici, il ritorno di Saif al-Islam sarebbe un modo per chiudere la porta a un decennio perduto»

«Ero in Libia solo da pochi giorni quando sono entrato in un’area di servizio autostradale e mi sono ritrovato a guardare un discorso del colonnello Muammar el-Gheddafi degli anni ’80, trasmesso dal canale televisivo del Movimento dei Verdi con sede al Cairo. Una notte all’iftar del Ramadancena a Tripoli, ho chiesto a quattro libici poco più che ventenni chi avrebbero scelto come presidente. Tre di nome Saif al-Islam. Un avvocato libico mi ha detto che i suoi sforzi informali per valutare l’opinione pubblica suggeriscono che otto o nove libici su 10 voterebbero per Saif».

 

Un voto di protesta che, come abbiamo visto in vari Paesi del mondo, potrebbe diventare una frana irresistibile.

 

È «peculiare che il figlio di Muammar el-Gheddafi – lo stesso uomo che ha promesso “fiumi di sangue” in un discorso del 2011 – è ora visto da molti come il candidato presidenziale con le mani più pulite».

 

«I limitati dati dei sondaggi in Libia suggeriscono che un gran numero di libici – fino al 57 percento in una regione – esprimono “fiducia” in lui. Un omaggio più tradizionale alla vitalità politica di Saif è arrivato due anni fa, quando si dice che un rivale abbia pagato 30 milioni di dollari per farlo uccidere. (Non era il primo attentato alla sua vita.)».

 

«Per molti libici, il ritorno di Saif al-Islam sarebbe un modo per chiudere la porta a un decennio perduto».

 

«Tutta la Libia sarà distrutta. Ci vorranno 40 anni per raggiungere un accordo su come governare il Paese, perché oggi tutti vorranno essere presidente, o emiro, e tutti vorranno governare il Paese»

Attorno a Saif, quindi, si sta agglutinando un gruppo di potere, oltre che al consenso popolare. Di più: un mito, una narrazione.

 

Non solo. Anche la geopolitica si sta muovendo attorno a lui.

 

«Una vittoria per Saif sarebbe certamente un trionfo simbolico per gli autocrati arabi, che condividono il suo odio per la primavera araba. Sarebbe accolto anche al Cremlino, che ha rafforzato uomini forti in tutto il Medio Oriente e rimane un importante attore militare in Libia, con i propri soldati e circa 2.000 mercenari ancora sul campo. “I russi pensano che Saif potrebbe vincere”, mi ha detto un diplomatico europeo con una lunga esperienza in Libia. Saif sembra avere altri sostenitori stranieri».

 

Questo nonostante egli sia ricercato per crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale per i fatti del 2011. Non che i processi lo spaventino: È stato processato in un procedimento separato a Tripoli nel 2015, facendo apparizioni tramite collegamento video da una gabbia a Zintan, ed è stato condannato a morte per fucilazione. Secondo la legge libica, ci sarà un ricorso.

 

I libici ricordano ancora un suo discorso televisivo del 20 febbraio 2011, a tre giorni dalla prima protesta della Primavera Araba libica, partita da Bengasi. Invece che fare concessioni e intavolare discorsi para-occidentali su democrazia e diritti umani, accusò la protesta, dicendo che era ordita dagli oppositori libici all’estero ed era portata avanti da tossicodipendenti e criminali. Poi fece una profezia che i libici ricordano tutti benissimo: a causa delle sue radici tribali, la Libia è diversa dall’Egitto e dalla Tunisia, quindi potrebbe facilmente frantumarsi in mini-stati ed emirati. Nel discorso preconizzava la guerra civile, i confini infranti, la migrazione di massa.

 

«Tutta la Libia sarà distrutta. Ci vorranno 40 anni per raggiungere un accordo su come governare il Paese, perché oggi tutti vorranno essere presidente, o emiro, e tutti vorranno governare il Paese».

 

«Quello che è successo in Libia non è stata una rivoluzione. Puoi chiamarla guerra civile o giorni di malvagità. Non è una rivoluzione»

Il discorso all’epoca peggiorò le cose. I  rivoltosi lo interpretarono come la caduta definitiva della maschera della famiglia Gheddafi. La Jamahiriya era irriformabile.

 

Oggi invece è difficile non vedere quanto le cose che disse si sono avverate. Così la pensano molti libici, dopo questo «decennio perduto» tra guerre civili e milizie islamiche sempre più prepotenti.

 

«Quello che è successo in Libia non è stata una rivoluzione. Puoi chiamarla guerra civile o giorni di malvagità. Non è una rivoluzione». Anche qui, il realismo non fa difetto al ragazzo.

 

Saif accusa Barack Obama di essere l’uomo che ha davvero distrutto la Libia, e il NYT amette che «potrebbe essere vero». Lo stesso Obama, nel 2016, dichiarò che l’attacco alla Libia, che di fatto equivaleva a permettere il suo crollo, fu il suo più grande errore. In Libia gli americano hanno fatto peggio che in Afghanistan, Hanno fatto collassare lo Stato, ma senza assumersi alcuna responsabilità: anzi, quando il gioco si è fatto davvero duro, con l’assassinio dell’ambasciatore J. Christopher Stevens a Bengasi (che, di racconta, fu trovato impalato) mollarono definitivamente i libici al caos che gli USA stessi avevano contribuito ad ingenerare.

 

Gheddafi jr ne ha anche per Recep Tayyip Erdogan: «Prima era con noi e contro l’intervento occidentale»., C’è nell’articolo anche un accenno a Nicolas Sarkozy, definito «attore straniero opportunista». Il giornale non lo dice, ma Sarkozy fu sospettato di aver spinto per la guerra in Libia anche a causa di imbarazzanti voci di finanziamenti di Gheddafi riguardo la campagna elettorale presidenziale del 2007: Saif nel 2018 dichiarò ad Euronews che «l’ex presidente Sarkozy è responsabile del caos, della diffusione del terrorismo e del traffico di esseri umani in Libia». Mentre Erdogan ora è da considerarsi il protettore militare del governo di Tripoli, dove ha scalzato il ruolo di Roma in vari settori, arrivando a far sgomberare un ospedale italiano per far posto ai suoi miliziani, che sono, si dice, tagliagole veterani del macello siriano.

 

In un Paese con lo Stato collassato, comando tribù e milizie – che chiamano meno spregiativamente kataib, brigate. E cioè clan familiari, alcuni dei quali in grado di compiere atrocità senza fine

L’intero appeal pollitico di Saif si riflette nella sua analisi veritiera della Libia come Stato in perenne collasso. «Non è nel loro interesse avere un governo forte»,  dice dei governi che si alternano. «Ecco perché hanno paura delle elezioni. Sono contrari all’idea di un presidente. Sono contro l’idea di uno Stato, un governo che ha la legittimità derivata dal popolo».

 

In un Paese con lo Stato collassato, comando tribù e milizie – che chiamano meno spregiativamente kataib, brigate. E cioè clan familiari, alcuni dei quali in grado di compiere atrocità senza fine.

 

Per esempio a Tarhuna, una cittadina agricola a circa un’ora di macchina a sud-est della capitale, comandava la milizia dei fratelli Kani. Alla fine, la loro kataib è stata cacciata. Dal  giugno dello scorso anno, quando i Kani se ne sono andati,  i residenti hanno iniziato a trovare resti umani vicino a un uliveto ai margini della città.

 

Le squadre di scavo hanno scoperto i corpi di 120 persone, ma vi sono anche altre fosse comuni. Più di 350 famiglie hanno denunciato la scomparsa di parenti. Le vittime includevano donne e bambini, ad alcuni dei quali hanno sparatoi fino a 16 volte.

«Per molti libici, Saif era diventato una specie di fantasia nazionale collettiva, un sogno di salvataggio»

 

«Quando le loro storie sono emerse, si è aperta una finestra su un bizzarro regno del terrore che è durato per quasi otto anni. Nessuno ha fatto nulla per fermare i Kani, perché si sono resi così utili a tutti nella classe politica libica, alleandosi prima con i capi politici di Tripoli e poi con Haftar. Il loro regno ha trasformato Tarhuna in uno stato di polizia con echi di Gheddafi: sei fratelli hanno messo il loro marchio su tutto e hanno terrorizzato la loro gente, tutto in nome della rivoluzione».

 

E in questa situazione che Saif è diventato un miraggio benevolo per tutta la popolazione della Libia.

 

«Per molti libici, Saif era diventato una specie di fantasia nazionale collettiva, un sogno di salvataggio – scrive Worth – il suo mistero sarebbe un balsamo per loro. Vorrebbero credere che fosse cambiato e che avesse imparato. Dopo tanti anni di delusioni, erano alla disperata ricerca di un salvatore. “Penso che la gente speri in una storia di redenzione”, mi è stato detto da un avvocato libico».

 

Riassumendo: Gheddafi sta tornando – e la cosa potrebbe sconvolgere gli equilibri mediterranei e non solo. L’Italia non se ne sta nemmeno accorgendo. Del resto, che ci volete fare: la diplomazia è in mano a Giggino Di Maio, e non si tratta di una «fantasia nazionale collettiva», ma dell’amara realtà.

 

Una realtà che, una volta di più, potrebbe costarci carissimo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Geopolitica

Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati

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Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.

 

In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».

 

Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.

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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.

 

Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.

 

L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.

 

«Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».

 

Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».

 

Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.

 

«Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.

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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato

 

Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.

 

L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.

 

Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.

 

Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.

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Geopolitica

Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.   Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.   Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».   La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.   Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.   Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.   The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».   Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.   La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.   Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.   Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

L’Iran minaccia ancora una volta di spazzare via Israele

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Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.

 

Raisi è arrivato in Pakistan lunedì per una visita di tre giorni. Martedì ha parlato delle recenti tensioni tra Teheran e Gerusalemme Ovest in un evento nel Punjab.

 

«Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», ha detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.

 

Israele non ha mai riconosciuto ufficialmente un attacco aereo del 1° aprile sul consolato iraniano a Damasco, in Siria, che ha ucciso sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Teheran ha tuttavia reagito il 13 aprile, lanciando decine di droni e missili contro diversi obiettivi in ​​Israele.

 

L’Iran si è scrollato di dosso una serie di esplosioni segnalate vicino alla città di Isfahan lo scorso venerdì, che si diceva fossero una risposta da parte di Israele. Lo Stato degli ebrei non ha riconosciuto l’attacco denunciato, pur criticando un ministro del governo che ne ha parlato a sproposito. Teheran ha scelto di ignorarlo piuttosto che attuare la rapida e severa rappresaglia promessa.

 

La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il «regime sionista», espressione con cui spesso chiama Israele.

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Martedì, parlando a Lahore, il Raisi ha promesso di continuare a «sostenere onorevolmente la resistenza palestinese», denunciando gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo come «i più grandi violatori dei diritti umani», sottolineando il loro sostegno al «genocidio» israeliano a Gaza.

 

Nel suo viaggio diplomatico il Raisi ha promesso di incrementare il commercio iraniano con il Pakistan portandolo a 10 miliardi di dollari all’anno. Le relazioni tra i due vicini sono difficili da gennaio, quando Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei e droni mirati a “campi terroristici” nei rispettivi territori.

 

Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.

 

Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.

 

Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.

 

Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».

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