Scuola
Dietro al processo di «internazionalizzazione» dell’università italiana: parla il prof. Luca Marini
Renovatio 21 ripubblica l’intervista al professor Luca Marini apparsa a firma di Francesco Servadio sulla testata Buongiornosuedtirol riguardo il processo di «internazionalizzazione dei nostri atenei, dove un numero sempre maggiore di lezioni sono tenute in lingua inglese. Il l prof. Luca Marini, già noto ai lettori di Renovatio 21, è docente di diritto internazionale alla Sapienza di Roma ed ex vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica.
(…)
Professore, è innegabile che la conoscenza delle lingue rappresenta una forma di arricchimento culturale. Tuttavia, quando tutti studieranno prevalentemente in inglese, che fine faranno i licei classici, la lingua di Dante, gli idiomi regionali, la cultura, l’identità e finanche la cucina italiana?
Questo non deve chiederlo a me, ma ai miei colleghi desiderosi di insegnare esclusivamente in lingua inglese o di afferire a corsi di laurea creati espressamente per fornire un’offerta didattica in lingua inglese: corsi che, magari, trovano la loro ragion d’essere più che altro nei finanziamenti all’uopo previsti, che siano il PNRR o altri ancora. In ogni caso Lei ha ragione: sarebbe interessante, e significativo anche dal punto di vista statistico, chiedersi quanti di questi colleghi abbiano fatto studi classici.
Ma tutti questi corsi di laurea in lingua inglese hanno poi una reale utilità?
Dipende dalla prospettiva in cui ci si colloca. È innegabile che i corsi in questione finiscono di fatto per essere utilizzati anche allo scopo di pianificare concorsi e carriere di una parte dei docenti, secondo una spirale viziosa abitualmente spacciata per virtuosa perché pudicamente coperta dal velo della «internazionalizzazione».
Ma dal punto di vista formativo, e quindi degli studenti, ho qualche dubbio: ci sono Atenei che hanno fino a 35 corsi di laurea interamente in inglese e decine con almeno un curriculum in inglese; molti di questi corsi hanno titoli vaghi e fumosi o sono mere duplicazioni dei corsi in italiano; sono quasi sempre di livello inferiore ai corsi in italiano anche perché si rivolgono a un pubblico eterogeneo, che ha competenze di base non paragonabili a quelle fornite, ad esempio, dal liceo classico italiano, che all’estero non esiste e che – temo – in Italia prima o poi sparirà; e il risultato formativo finale è di conseguenza molto basso, diciamo in linea con quello mediamente esistente all’estero e che tradizionalmente dava la misura, a nostro vantaggio, del divario tra la formazione degli studenti italiani e quelli stranieri.
Ora questo divario si colmerà, ma livellando verso il basso, in Italia, formazione e cultura.
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Il Bel Paese ha dato i natali a giganti della cultura, della scienza, della tecnica, dell’arte e dello sport. Tuttavia, si è imposta la tendenza a considerare l’area anglofona l’unico modello di riferimento. Non Le sembra curioso?
Le Sue parole mi fanno tornare in mente anzitutto l’epigrafe che campeggia sul Palazzo della Civiltà Italiana, che noi romani chiamiamo «Colosseo Quadrato», e che recita: «un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori».
Si tratta di una citazione tratta da un celebre discorso di Mussolini rivolto alla Società delle Nazioni nell’ottobre del 1935 ed è significativo che, solo a fare queste associazioni di idee, si rischi di passare per nostalgici, anche se ciò dà la misura della perdita di identità culturale a cui sembriamo destinati. In tal senso Le faccio un esempio banale, ma altrettanto significativo: se Lei prova a scrivere al computer «trasmigratori», il correttore automatico si ostina a proporre in alternativa la parola «migranti».
A quando risale, secondo Lei, questa rivoluzione culturale?
All’immediato dopoguerra ed è il frutto della damnatio memoriae degli ultimi 100 anni della nostra storia. Inoltre, dall’ingresso nella CEE all’adesione alla NATO fino all’entusiastica partecipazione alle dinamiche globalizzanti sponsorizzate dal World Economic Forum, abbiamo fatto di tutto per cancellare la nostra identità e la nostra cultura. In questa prospettiva, l’adozione della lingua inglese nei corsi universitari è solo la ciliegina sulla torta.
A questo proposito una domanda è d’obbligo. In conferenza stampa, a Sanremo, uno dei conduttori ha dichiarato – tra il serio e il faceto – che John Travolta ha fatto ciò che ha fatto perché l’Italia è una colonia degli USA. Lei cosa ne pensa?
Non ho seguito la vicenda perché non ho la televisione e comunque non vedrei Sanremo. Ma che, a partire dall’8 settembre 1943, l’Italia sia una colonia degli Stati Uniti d’America non mi sembra una grande rivelazione: Lei ricorda Gladio? Semmai spiace ricordare che, da Craxi in poi [il riferimento è al caso Sigonella, ndr], nessun politico italiano abbia saputo puntare i piedi per contrastare questo stato di cose.
Torniamo al problema linguistico. Le lingue ufficiali dell’ONU sono sei: arabo, cinese, inglese, francese, russo e spagnolo. Ci si potrebbe chiedere perché gli atenei italiani prediligano la lingua inglese, quando le più parlate al mondo sono il cinese e lo spagnolo.
Ammetto che, sinologi a parte, non sarebbe facile trovare docenti universitari in grado di esprimersi in cinese. Ma d’altra parte non si capisce perché la tanto sbandierata «internazionalizzazione» debba passare solo attraverso la lingua inglese e prescinda da altre dimensioni linguistico-culturali come quella francese, che era la lingua delle relazioni internazionali fino a poco tempo fa, o quella spagnola, altra lingua latina molto più vicina alla nostra identità. E comunque non si capisce perché un docente universitario italiano debba essere obbligato a insegnare in una lingua diversa dalla sua.
Perché ci sono casi in cui docenti italiani sono obbligati a insegnare in inglese?
Gli obblighi possono anche essere indiretti. Se un corso di laurea decidesse di impartire tutti – o quasi – gli insegnamenti in inglese e un docente si rifiutasse, quest’ultimo perderebbe il suo insegnamento, che finirebbe in mano ad altri, e sarebbe comunque costretto a trovarsene un altro per soddisfare il carico didattico che è tenuto a garantire. Ed è appena il caso di aggiungere che questi effetti possono essere non del tutto imprevisti né imprevedibili.
Cosa intende per effetti non imprevisti e non imprevedibili?
Voglio dire che, se un docente non è allineato, insegna con libertà di parola, stimola il pensiero critico degli studenti, adotta testi poco ortodossi, insomma si comporta conformemente all’art. 33 della Costituzione [«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento», ndr] tanto da diventare un «rompiscatole», un ottimo modo per silenziarlo è spingerlo più o meno gentilmente a insegnare in inglese.
Per ovvie ragioni, potrebbe non esprimersi con la stessa proprietà di linguaggio, potrebbe non parlare più a braccio, ma leggere testi, utilizzare slides, insomma fare lezioni barbose come fa buona parte dei docenti universitari, stando almeno a quello che mi raccontano gli studenti. Se l’intento è punitivo, ovviamente importa poco che la qualità complessiva dell’insegnamento ne risulti impoverita: anzi, è un ottimo modo per penalizzare ulteriormente il docente preso di mira.
E gli studenti cosa pensano? Forse non sa che a Bolzano sta per essere attivato un corso di laurea in «Medicine and Surgery» con lezioni esclusivamente in lingua inglese e tasse annue da 18 mila euro.
Bisognerebbe chiederlo agli studenti, che invece mi sembra abbiano poca voce in capitolo. Tornando all’esempio che ho fatto prima, è chiaro che, se l’ipotetico insegnamento dell’ipotetico docente rompiscatole fosse trasformato in un insegnamento impartito in sola lingua inglese, gli studenti italiani, di una università italiana, in Italia, subirebbero una perdita secca e finirebbero per essere discriminati. Si tratterebbe dell’ennesimo esempio di discriminazione alla rovescia indotta dai processi di globalizzazione.
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Forse tutto ciò dipende dal fatto che la lingua italiana è poco utilizzata all’estero?
Lei dice? Pensi che già negli anni Trenta, il Touring Club Italiano incluse nella Guida d’Italia i volumi dedicati alla Corsica, al Nizzardo, a Malta, alla Dalmazia, alla Tunisia, all’Argentina, all’Uruguay e al Paraguay, tutti Paesi e territori dove la lingua italiana, per varie ragioni, era estremamente diffusa. A ciò corrispose, come noto, una sorta di «protezionismo» linguistico che portò a limitare in Italia l’uso delle parole straniere, tanto che lo stesso TCI venne rinominato «Consociazione Turistica Italiana»: ma ciò non è forse quanto fanno ancora oggi i Francesi, che giustamente traducono nella loro lingua le espressioni inglesi?
Eppure il francese non compare neppure tra le prime dieci lingue parlate al mondo. Evidentemente, tanto per ricollegarsi a quanto accaduto a Sanremo, in Italia c’è una certa predisposizione alla sudditanza, prima di tutto linguistica, rispetto al resto del mondo in generale e rispetto a una certa area geo-politica in particolare.
Non trova che, così facendo, l’italiano finirà per contare poco anche in Italia?
Certamente: ed è proprio quello che penserà lo studente straniero che arriva in Italia e si vede offrire corsi di laurea in inglese, invece che essere spronato a imparare l’italiano. Del resto stiamo parlano di un risultato ampiamente pianificato: chi vuole massificare principi e valori, tradizioni e stili di vita, lingue e culture, mode e costumi, tipicità ed eccellenze e altro ancora sa bene che il modo più efficace, e rapido, passa attraverso l’obliterazione delle identità nazionali. Questo è esattamente il programma delle élites finanziarie transnazionali che governano i processi di globalizzazione e di cui organizzazioni come l’Unione europea e l’ONU sono semplici emanazioni.
E, da docente universitario, come valuta il fatto che le riviste scientifiche apparentemente più accreditate sono sempre in lingua inglese? Forse che a certi livelli è fondamentale parlare la stessa lingua?
Sul metodo di accreditamento delle riviste scientifiche, e più in generale sulle ragioni che conducono a creare, finanziare e accreditare le riviste, ci sarebbe molto da dire. In ogni caso direi che a certi livelli è fondamentale, perché richiesto, pensare secondo uno schema unico: l’uniformità linguistica viene dopo ed è solo facciata.
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Immagine di dalbera via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Scuola
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Militaria
I bambini «devono essere preparati alla guerra»: parla il ministro dell’Istruzione tedesco
I bambini tedeschi dovrebbero essere costretti a prepararsi alla guerra per aumentare la «resilienza», ha dichiarato sabato il ministro dell’Istruzione Bettina Stark-Watzinger.
In questo nuovo, incontrovertibile segno della rimilitarizzazione in corso nel grande Paese europeo, il ministro germanico, membro del Partito Liberale Democratico (FDP) che fa parte del governo ampel («semaforo») del cancelliere Olao Scholz, ha dichiarato che ai bambini dovrebbe essere insegnato cosa fare in caso di conflitto e ha suggerito di introdurre esercitazioni di «difesa civile» nelle scuole in modo che i giovani siano preparati per gli anni a venire.
«La società nel suo insieme deve prepararsi bene alle crisi, dalla pandemia ai disastri naturali fino alla guerra. La protezione civile è estremamente importante e appartiene anche alle scuole. L’obiettivo deve essere quello di rafforzare la nostra resilienza», ha dichiarato la Stark-Watzinger in un’intervista alla testata tedesca Funke.
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Il ministro scholziano ha quindi domandato che venga favorita una «relazione rilassata» tra gli scolari e le forze armate tedesche (Bundeswehr), suggerendo che gli ufficiali militari dovrebbero visitare le scuole per spiegare cosa «fa la Bundeswehr per la nostra sicurezza».
La settimana scorsa il presidente dell’Associazione degli insegnanti tedeschi, Stefan Dull, ha dichiarato alla Bild che la proposta del ministro «ha senso».
«Mi aspetto che il ministro federale cerchi ora un dialogo con i ministri dell’istruzione dei Länder federali», ha affermato, aggiungendo che «una dichiarazione di intenti non è sufficiente: ora le lezioni di politica devono insegnare sulla guerra in Ucraina e sullo scenario paneuropeo, anche una situazione di minaccia globale».
L’iniziativa di Stark-Watzinger riflette la politica del governo tedesco volta a rendere il Paese «pronto alla guerra» di fronte a un potenziale conflitto Russia-NATO, che potrebbe verificarsi entro pochi anni, secondo alti funzionari della difesa tedeschi.
A febbraio, il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha affermato in un’intervista a Bloomberg che la Russia potrebbe attaccare la NATO «tra cinque o otto anni». Anche il capo della difesa tedesco, generale Carsten Breuer, aveva sottolineato l’importanza «fondamentale» di preparare l’esercito del Paese entro i prossimi cinque anni. «Chiamiamo questo Kriegstuchtigkeit – essere pronti, capaci e disposti a combattere. Siamo sulla strada giusta», ha dichiarato.
Il progetto dello Stato tedesco non è dissimile da quanto visto in Ucraina, con bambini di tutte le età coinvolti a scuola in attività di preparazione militare. Le immagini, circolate qualche mese fa, suscitarono una piccola fiammata di inquietudine, per poi spegnersi subito – come ogni dissonanza cognitiva proveniente da Kiev.
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Con la mossa di coinvolgere i bambini nella guerra in partenza la rimilitarizzazione della Germania – uno dei fattori per evitare il quale, in teoria, era stata creata la NATO – è oramai non solo un fatto certo, ma un qualcosa di impudico e parossistico.
Come riportato da Renovatio 21, l’euro deputata socialista tedesca Katarina Barley è arrivata a suggerire che l’UE potrebbe doversi dotare di armi atomiche.
I giornali tedeschi riportano sempre più spesso di scenari di guerra Russia-NATO che trapelano di vertici militari, con documenti che parlano di Terza Guerra Mondiale. Impressionante anche l’audio, pubblicato in Russia e non smentito dai tedeschi, dove generali germanici discutono della distruzione del ponte di Crimea.
Come riportato da Renovatio 21, la Germania sta tentando in modo evidente una materiale rimilitarizzazione (fenomeno per evitare il quale, si diceva, era stata creata la NATO) con espansione in Paesi chiave come la Lituania e investimenti in munizioni (22 miliardi entro il 2031), nonostante i problemi di reclutamento e i malumori delle truppe.
Nel frattempo, la popolazione non sembra affatto pronta per il conflitto con la Russia, che sarebbe il secondo in meno di un secolo, e quello precedente si è concluso per Berlino molto male. Un sondaggio a fine 2023 aveva indicato che solo il 17% dei tedeschi è pronto a difendere il proprio Paese; un sondaggio condotto da Civey per conto della popolare rivista Focus pochi giorni fa aveva mostrato l’imbarazzante dato per cui circa il 30% dei tedeschi non ha alcuna fiducia nella capacità dell’esercito di resistere ad un potenziale avversario, mentre un altro 45% ha «scarsa fiducia» nell’esercito, mentre il 15% è indeciso. Solo il 2% ha affermato che la propria fiducia è «molto alta», mentre l’8% ha affermato che è «piuttosto alta».
Registriamo, ad ogni modo, l’ulteriore evoluzione scolastica, forse in arrivo anche in Italia: nelle aule si è passati per direttissima dal gender alla guerra antirussa.
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Scuola
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