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Bergoglio «nemico della Chiesa»: mons. Viganò e il «vitium consensus» del papato

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Renovatio 21 pubblica l’intervento di monsignor Carlo Maria Viganò per la Catholic Identity Conference Pittsburgh del 1 ottobre 2023. Le opinioni degli scritti pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

A fructibus eorum cognoscetis eos. 

Numquid colligunt de spinis uvas aut de tribulis ficus?

Sic omnis arbor bona fructus bonos facit; mala autem arbor fructus malos facit.

Non potest arbor bona fructus malos facere, neque arbor mala fructus bonos facere.

Omnis arbor quæ non facit fructum bonum exciditur et in ignem mittitur.

Igitur ex fructibus eorum cognoscetis eos.

Mt 7, 16-20

 

Permettetemi di rivolgere un saluto e un ringraziamento agli organizzatori della Catholic Identity Conference e a tutti coloro che vi prendono parte. In un momento di grande confusione è importante fare chiarezza su quanto accade, anche confrontandosi su posizioni differenti. Ecco perché sono grato all’amico Michael Matt per avermi dato l’opportunità di condividere con voi alcune considerazioni. 

 

In questo mio intervento non cercherò di dare risposte, ma di porre una questione ormai non più procrastinabile, affinché noi Vescovi, il Clero e i fedeli possiamo guardare alla gravissima apostasia presente come un fatto del tutto nuovo e che non può trovare soluzione, a mio parere, ricorrendo alle categorie di giudizio e di azione ordinarie. 

 

L’evidenza del «problema Bergoglio»

Il moltiplicarsi di dichiarazioni e comportamenti del tutto estranei a ciò che ci si aspetta da un Papa ed anzi in contrasto con la Fede e la Morale di cui il Papato è custode, ha portato molti fedeli e un numero sempre più cospicuo di Vescovi a prendere atto di qualcosa che fino a qualche tempo fa appariva inaudito: il Soglio di Pietro è occupato da un personaggio che abusa del proprio potere per lo scopo opposto a quello per cui Nostro Signore lo ha istituito. 

 

Alcuni ritengono Jorge Mario Bergoglio palesemente eretico nelle questioni dottrinali, altri tirannico nelle questioni di governo, altri ancora considerano la sua elezione invalida a causa delle molteplici anomalie della rinunzia di Benedetto XVI e dell’elezione di chi ha preso il suo posto.

 

Queste opinioni – più o meno suffragate da prove o frutto di speculazioni non sempre condivisibili – confermano tuttavia una realtà ormai incontestabile. Ed è questa realtà, a mio parere, che costituisce un punto di partenza comune nel cercare di porre rimedio alla sconcertante, scandalosa presenza di un Papa che si pone con ostentata arroganza come inimicus Ecclesiæ, e che come tale agisce e parla.

 

Un nemico che, proprio perché occupa il Soglio di Pietro e abusa dell’autorità papale, è in grado di infliggere un colpo terribile e disastroso, quale nessun nemico esterno in tutta la storia della Chiesa ha mai potuto arrecare. I peggiori persecutori dei Cristiani; i più feroci adepti delle Logge massoniche; i più scatenati eresiarchi non erano riusciti, in così poco tempo e con tale efficacia, a devastare la Vigna del Signore, scandalizzarne i fedeli, disgustarne i Ministri, screditarne dinanzi al mondo l’autorità e l’autorevolezza, demolirne il Magistero, la Fede, la Morale, la Liturgia, la disciplina.

 

Inimicus Ecclesiæ, non solo rispetto alle membra del Corpo Mistico – che egli disprezza, ridicolizza (contro cui non cessa di lanciare velenosi epiteti), perseguita e colpisce; ma anche rispetto al Capo del Corpo Mistico, Gesù Cristo: l’autorità del Quale è da Bergoglio esercitata non più in funzione vicaria e quindi in necessaria e doverosa coerenza con il Depositum Fidei, ma in modo autoreferenziale e quindi tirannico.

 

L’autorità del Romano Pontefice è infatti derivata dalla suprema autorità di Cristo, alla quale essa partecipa entro i confini e nell’ambito delle finalità che il divino Fondatore ha stabilito una volta per tutte, e che nessun potere umano può modificare. 

 

L’evidenza dell’alienità di Bergoglio all’ufficio che ricopre è un fatto certamente doloroso e gravissimo; ma il prendere coscienza di questa realtà è la premessa indispensabile per porre un rimedio ad una situazione insostenibile e disastrosa.

 

Agere sequitur esse

In questi dieci anni di «pontificato» abbiamo visto Bergoglio fare tutto quello che non ci si sarebbe mai aspettati da un Papa, e viceversa tutto quello che farebbe un eresiarca o un apostata. Vi sono state occasioni in cui queste azioni sono apparse palesemente provocatorie, come se con le sue esternazioni o con certi atti di governo egli volesse deliberatamente suscitare lo sdegno del corpo ecclesiale e spingere sacerdoti e fedeli a reagire dandogli il pretesto per dichiararli scismatici. Ma questa strategia tipica del peggiore gesuitismo è ormai scoperta, perché l’intera operazione è stata condotta con troppa arroganza e in ambiti su cui nemmeno i Cattolici moderati sono disposti a transigere. 

 

Gli scandali sessuali del Clero, ed in particolare la risposta della Santa Sede alla piaga della corruzione morale di Cardinali e Vescovi, hanno mostrato una vergognosa disparità di trattamento tra coloro che appartengono al cosiddetto «cerchio magico» di Bergoglio e quanti invece egli considera avversari.  (…)

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Si rompe il muro del silenzio

Il silenzio dell’Episcopato dinanzi alle enormità bergogliane conferma che l’autoritarismo autoreferenziale del gesuita Bergoglio ha trovato servile obbedienza nella quasi totalità dei Vescovi, terrorizzati dall’idea di essere fatti oggetto delle ritorsioni del vendicativo e dispotico satrapo di Santa Marta. Alcuni Vescovi diocesani iniziano a non sopportare più la sua azione devastatrice, che mina l’autorità e l’autorevolezza della Chiesa intera. Il Vescovo Joseph Strickland, ad esempio, ha lodevolmente ribadito verità dottrinali immutabili che il Sinodo sulla Sinodalità dei prossimi mesi si appresta a demolire. E il cardinal Gerhard Ludwig Müller ha giustamente ricordato che il Signore non ha conferito potere al Papa per «bullizzare» i buoni Vescovi. 

 

Qualcosa quindi inizia a cambiare: gli schieramenti vanno delineandosi e vediamo da una parte la «chiesa sinodale» di Bergoglio – che chiama emblematicamente «nostra» – e dall’altra quel che resta della Chiesa Cattolica, verso la quale egli non manca di ribadire la propria assoluta estraneità. 

 

La sanatio in radice delle irregolarità al Conclave

Mons. Athanasius Schneider sostiene che le eventuali irregolarità verificatesi nel Conclave del 2013 sarebbero comunque sanate in radice dal fatto che l’eletto Jorge Mario Bergoglio è stato riconosciuto come Papa dai Cardinali elettori, dall’Episcopato e dalla maggioranza dei fedeli. In pratica, a prescindere dalle vicende che possono aver portato all’elezione di un Papa – con o senza interventi esterni – la Chiesa si dà un lasso di tempo oltre il quale non sarebbe possibile impugnare un’elezione, se il nome dell’eletto è accettato dal popolo cristiano. Ma questa tesi è messa in discussione da un precedente storico. 

 

All’epoca di Urbano VI – siamo nel 1378 – la maggioranza dei Cardinali, dei Prelati, dei Sovrani cattolici e del popolo riconobbe come Papa Clemente VII, in realtà antipapa. Tredici Cardinali su un totale di sedici mise in discussione la validità dell’elezione di papa Urbano, in ragione della minaccia di violenze del popolo romano al Sacro Collegio, e anche i pochi sostenitori di Urbano ben presto si pentirono di averlo eletto, convocando un Conclave a Fondi da cui uscì eletto l’antipapa Clemente VII.

 

Anche San Vincenzo Ferrer era convinto che il vero papa fosse Clemente, mentre Santa Caterina da Siena era schierata con Urbano. Se il consenso universale fosse stato un argomento indefettibilmente valido, si sarebbe dovuto considerare Papa Clemente e non Urbano. L’Antipapa Clemente, sconfitto dall’esercito di Urbano VI nella battaglia di Marino del 1379, trasferì la Sede ad Avignone, dando luogo allo Scisma d’Occidente che durò trentanove anni.

 

Vediamo quindi che il consenso universale è un argomento che non regge alla prova della Storia.

 

La via tutior di mons. Schneider

Mons. Athanasius Schneider ci ricorda che la via tutior consiste nel non obbedire a un Papa eretico, senza doverlo necessariamente considerare decaduto ipso facto dal suo ufficio in quanto separato dalla Chiesa e quindi non più capace di esservi a capo, come invece ritiene San Roberto Bellarmino. Ma anche questa soluzione – che se non altro riconosce che Bergoglio è eretico – non mi sembra risolutiva, dal momento che l’obbedienza che i fedeli possono negargli è solo marginale rispetto a tutti gli atti di governo e di magistero che costui ha compiuto e continua a compiere senza che i suoi sudditi possano fare alcunché.

 

Certo, ci si può organizzare per la celebrazione clandestina della Messa cattolica, ma cosa possono fare un sacerdote o un laico quando una cupola eversiva di Vescovi manovrati da Bergoglio si appresta a introdurre con il Sinodo sulla Sinodalità cambiamenti dottrinali inaccettabili? E cosa potranno fare quando nelle loro parrocchie una diaconessa benedirà le «nozze» di due sodomiti? 

 

Certamente la disobbedienza a ordini illegittimi di un Superiore eretico o apostata è doverosa sub gravi, poiché l’obbedienza a Dio viene prima dell’obbedienza agli uomini, e perché la virtù dell’Obbedienza è gerarchicamente subordinata alla virtù teologale della Fede. Ma il danno che ne deriva per il corpo ecclesiale non è impedito con un’azione di semplice resistenza: occorre risolvere la questione alla radice. 

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Il vizio di consenso nell’assunzione del Papato

Preso dunque atto che Bergoglio è eretico – e basterebbero Amoris Lætitia o la dichiarazione dell’immoralità intrinseca della pena capitale per averne la prova – dobbiamo chiederci se l’elezione del 2013 sia stata in qualche modo inficiata da un vizio di consenso; se cioè l’eletto abbia voluto diventare Papa della Chiesa Cattolica o piuttosto capo di quella che egli chiama la «nostra chiesa sinodale», che nulla ha a che vedere con la Chiesa di Cristo proprio perché si pone come altra rispetto ad essa.

 

Questo vizio di consenso si rileva a mio parere anche dal comportamento di Bergoglio, ostentatamente anticattolico ed eterogeneo rispetto all’essenza stessa del Papato. Non vi è azione di costui che non suoni palesemente di rottura rispetto alla prassi e al Magistero della Chiesa, e a ciò si aggiungono le prese di posizione tutt’altro che inclusive verso i fedeli che non intendono accettare arbitrarie innovazioni o peggio eresie conclamate. 

 

La questione fondamentale verte sulla comprensione del piano eversivo della deep church, che con i metodi denunciati a suo tempo da San Pio X nei riguardi dei Modernisti si è organizzata per compiere un colpo di stato in seno alla Chiesa e portare sul Soglio di Pietro il profeta dell’Anticristo.

 

La mens rea nell’infiltrarsi nella Gerarchia e ascenderne i gradi è evidente, così come è evidente che i piani della fazione ultra-progressista non potevano arrestarsi dinanzi a Benedetto XVI, da essi considerato troppo conservatore e soprattutto odiatissimo per aver osato promulgare il Motu Proprio Summorum Pontificum.

 

E così ecco spinto Benedetto XVI a dimettersi, e subito pronto quello sconosciuto Arcivescovo di Buenos Aires che l’11 Ottobre 2013, in una conferenza alla Villanova University (qui), l’allora Card. McCarrick, suo amico di lunga data, rivelò essere stato fortemente voluto da un «very influential Italian gentleman», emissario del deep state presso la deep church.

 

Chi lavora nella Curia Romana sa bene chi è chiamato «il gentiluomo» per antonomasia e quali siano i suoi legami con il potere di qua e di là del Tevere, e ne conosce pure gli imbarazzanti penchant che spiegano la contiguità con la lobby omosessuale vaticana.

 

È altresì significativo che McCarrick si dica convinto che Bergoglio «cambierà il Papato nell’arco di quattro anni», confermando l’intenzione dolosa di manomettere l’istituzione divina e irriformabile della Chiesa.

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Vedere Bergoglio partecipare a un evento della Clinton Foundation, dopo altri non meno scandalosi endorsement dell’élite globalista, conferma il suo ruolo di liquidatore fallimentare della Chiesa, in vista della costituzione di quella Religione dell’Umanità che dovrà servire da ancella della sinarchia del Nuovo Ordine Mondiale. Ecumenismo, ecologismo, vaccinismo, immigrazionismo, ideologia LGBTQ+, gender e altre istanze della religione globalista sono fatti propri da Bergoglio non solo tramite un’azione di ostentato e orgoglioso sostegno ai fautori dell’Agenda 2030, ma anche con un’opera di sistematica demolizione di tutto ciò che nel Magistero vi si oppone e di spietata persecuzione di chi esprime anche prudenti perplessità.

 

Quindi: Bergoglio è eretico e palesemente ostile alla Chiesa di Cristo. Per svolgere il compito assegnatogli dalla deep church ha dissimulato le proprie posizioni più estreme, in modo da trovare un numero sufficiente di voti al Conclave.

 

Per garantirsi obbedienza totale, chi ha ordito il piano si è assicurato che fosse ampiamente ricattabile, come sempre avviene. E una volta eletto, Bergoglio ha potuto mostrarsi per quello che è e dare inizio alla demolizione della Chiesa e del Papato. 

 

Ma può un Papa distruggere il Papato che egli incarna e rappresenta?

 

Può un Papa devastare la Chiesa che il Signore gli ha affidato per difenderla?

 

E ancora: se la partecipazione al Conclave di un Cardinale ha come scopo un’azione dolosa, un atto eversivo ai danni della Chiesa, se lo scopo è compiere un crimine, anche se si rispettano apparentemente le procedure e le norme dell’elezione, vi è incontestabilmente una mens rea. E questa intenzione criminale emerge dall’astuzia con cui è stato consumato un inganno degli Elettori in buona fede, con la collaborazione di quelli complici.

 

Mi chiedo allora: non siamo in presenza di un vizio di consenso che inficia la validità dell’elezione?

 

Senza dire che la stessa compresenza di un Papa rinunciatario e di un Papa regnante è già di per sé un elemento che induce a credere che costoro avessero un falso concetto dell’essenza del Papato, considerato come un ruolo condivisibile con altri. Non dimentichiamo che la distinzione tra munus e ministerium è arbitraria e che non può esserci un Papa che si dedica al «ministero orante» e uno che governa.

 

Cristo è uno, una la Chiesa, uno solo il Successore di Pietro: un corpo con due teste è un monstrum che ripugna alla natura ancor prima che alla costituzione divina della Chiesa. 

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Possibili obiezioni

Qualcuno potrà obiettare: Ma anche se Bergoglio ha agito con il dolo, ha comunque accettato ciò che i Cardinali gli offrivano: l’elezione a Vescovo di Roma e quindi a Pontefice Romano. Quindi ha assunto l’ufficio e va considerato Papa.

 

Io credo invece che l’accettazione del Papato sia viziata perché egli considera il Papato altra cosa rispetto a ciò che è, come il coniuge che si sposa in chiesa escludendo i fini specifici del Matrimonio e rendendo quindi nullo il Matrimonio per vizio di consenso, appunto.

 

Non solo: quale congiurato che agisce dolosamente per ascendere a una carica sarebbe così sprovveduto da spiegare a chi deve eleggerlo di avere intenzione di diventare Papa per dare esecuzione agli ordini dei nemici di Dio e della Chiesa? Buongiorno. Sono Jorge Mario Bergoglio e ho intenzione di distruggere la Chiesa facendomi eleggere Papa. Mi date il vostro voto?

 

La mens rea sta proprio nel ricorso all’inganno, alla dissimulazione, alla menzogna, alla delegittimazione degli avversari fastidiosi e all’eliminazione di quelli pericolosi. E che volesse compiere il piano criminale dell’élite globalista l’abbiamo sotto gli occhi: tutti i desiderata delle mail di John Podesta, braccio destro di Hillary Clinton, hanno trovato o stanno trovando esecuzione, dall’adozione della parità di genere come premessa al sacerdozio femminile all’inclusione LGBTQ+, dall’accettazione della teoria gender alla partecipazione all’Agenda 2030 in materia di cambiamento climatico, dalla colpevolizzazione del «proselitismo» all’esaltazione dell’immigrazionismo come metodo di sostituzione etnica.

 

E parallelamente, vi è la rimozione e la condanna dell’altra Chiesa, quella «preconciliare», fatta di rigidi intolleranti, a partire da Nostro Signore, come ha blasfemamente scritto Antonio Spadaro. E con la cancel culture applicata a Fede e Morale, anche l’eliminazione della Messa che a quella Chiesa appartiene intrinsecamente, e che Bergoglio considera in conflitto con la «nuova ecclesiologia» al punto da proibirla come incompatibile con la «chiesa sinodale». 

 

Ecco dunque lanciato il sasso nello stagno. Vorrei che prendessimo in seria, serissima considerazione l’eventualità che Bergoglio abbia voluto ottenere l’elezione con il dolo, e che si prefiggesse di abusare dell’autorità di Romano Pontefice per fare l’esatto contrario di ciò che Gesù Cristo ha dato mandato a San Pietro e ai suoi Successori di fare: confermare i fedeli nella Fede cattolica, pascere e governare il Gregge del Signore, predicare il Vangelo a tutte le genti.

 

Tutta l’azione di governo e di magistero di Bergoglio – sin dalla sua prima apparizione alla Loggia vaticana presentandosi con quell’inquietante «Buonasera» – si è dipanata in senso diametralmente opposto al mandato petrino: ha adulterato e continua ad adulterare il Depositum Fidei, ha creato confusione e indotto in errore i fedeli, ha disperso il Gregge, ha dichiarato di ritenere l’evangelizzazione dei popoli «una solenne sciocchezza» e abusa sistematicamente del potere delle Sante Chiavi per sciogliere quel che non può essere sciolto e legare ciò che non può essere legato. 

 

Questa situazione è umanamente insanabile, perché le forze in gioco sono immani e perché la corruzione dell’Autorità non può essere sanata da chi ad essa è sottoposto. Dobbiamo prendere atto che la metastasi di questo “pontificato” origina dal cancro conciliare, da quel Vaticano II che ha creato le basi ideologiche, dottrinali e disciplinari che dovevano condurre inevitabilmente a questo punto.

 

Ma quanti dei miei Confratelli, che pure riconoscono la gravità della crisi attuale, hanno la capacità di riconoscere questo legame di causalità tra la rivoluzione conciliare e le sue estreme conseguenze con Bergoglio? 

 

Conclusione

Se questa passio Ecclesiæ prelude alla fine dei tempi, è nostro dovere prepararci spiritualmente a momenti di grande tribolazione e di vera e propria persecuzione. Ma sarà proprio ripercorrendo la via dolorosa della Croce che il corpo ecclesiale potrà purificarsi dalle sozzure che lo deturpano e meritare gli aiuti soprannaturali che la Provvidenza riserva alla Chiesa nei tempi della prova: dove abbonda il peccato, sovrabbonda la Grazia.

 

Permettetemi infine di ricordarvi che l’Associazione Exsurge Domine da me fondata ha come scopo dare un aiuto spirituale e materiale ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose perseguitati dalla chiesa bergogliana a causa della loro fedeltà alla Tradizione.

 

Se volete contribuire con una donazione alla realizzazione dei nostri progetti, potete farlo dal sito dell’Associazione.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

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«Una Chiesa che non crede più in Gesù Cristo» non è più la Sua Chiesa: il card. Müller contro modernisti e World Economic Forum

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Il cardinale Gerhard Ludwig Müller, ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF, ora Dicastero), ha tenuto diversi discorsi durante un viaggio pastorale negli Stati Uniti, in cui ha ricordato con forza al suo pubblico che i leader della Chiesa cattolica devono rimanere fedeli agli insegnamenti stabiliti da Gesù Cristo stesso e non cercare di adattarli allo spirito dei tempi.   «Una Chiesa che non crede più in Gesù Cristo non è più la Chiesa di Gesù Cristo», ha dichiarato il cardinale. Il discorso e due omelie sono state pubblicate dal sito pro-life nordamericano LifeSite.   Il cardinale tedesco ha criticato il «relativismo nella dottrina» e ha detto al suo pubblico che i vescovi della Chiesa cattolica «che tradiscono la loro missione divina per evitare di essere accusati di proselitismo o di essere rigoristi per difendere la morale cristiana hanno dimenticato il senso e la ragione della loro esistenza».

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Questi commenti fanno seguito al Sinodo sulla sinodalità, recentemente conclusosi a Roma, nel quale altre commissioni continuano a discutere questioni quali l’ordinazione femminile e gli insegnamenti morali della Chiesa.   Il cardinale Müller chiarisce che si tratta di una rinascita dei modernisti paragonabile a quella dell’epoca di papa Pio X: «I vescovi e i teologi che hanno dimenticato che solo in Cristo ci è data la pienezza della grazia e della verità, o che – come i modernisti dell’inizio del XX secolo – pensano di poter sviluppare gli insegnamenti di Cristo secondo il proprio piacimento, dovrebbero ricordare le parole di san Paolo: “se ancora cercassi piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo (…)e di fatto non l’ho mica ricevuto da un uomo, nè io ne fui ammaestrato, ma l’ho avuto per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,10-12)»   «Lo Spirito Santo non aggiorna la Tradizione presumibilmente morta per il presente attraverso profetesse auto-nominate, come pensavano i montanisti nel III secolo». Il cardinale Müller menziona altre idee eretiche, ad esempio quelle di Gioacchino da Fiore, che parlava del futuro «Regno dello Spirito». Una versione contemporanea di queste ideologie è, secondo il cardinale, il Grande Reset del World Economic Forum. «Oggi», ha continuato il cardinale, «questo materialismo storico è chiamato il Nuovo Ordine Mondiale del “World Economic Forum” di Davos, con Klaus come suo dio e Yuval Harari come suo profeta di questo mondo senza il Dio vivente e ispirato dal cosiddetto transumanesimo, che non è altro che un puro nichilismo».   Durante la «crisi delle società tradizionalmente cristiane» e la questione se la Chiesa si adatti ancora «al nostro tempo», il prelato ha ricordato alla congregazione che la crisi della Chiesa è “creata dall’uomo ed è sorta perché ci siamo adattati comodamente allo spirito di una vita senza Dio».   «Ecco perché nei nostri cuori tante cose non sono state redente e desiderano una gratificazione sostitutiva», ha continuato il porporato tedesco.   L’antidoto alla crisi del nostro tempo è la fede. «Ma chi crede non ha bisogno di ideologie», ha aggiunto Müller. «Chi spera non ricorrerà alla droga».   Oltre alla sua visita a Philadelphia, il cardinale Müller si è recato anche a South Bend, Indiana, dove ha tenuto un discorso accademico sulla teologia all’Holy Cross College e ha onorato San Tommaso d’Aquino in un’omelia alla Basilica del Sacro Cuore dell’Università di Notre Dame. Invitato a celebrare l’800° anniversario di questo dottore della Chiesa, il cardinale tedesco ha onorato la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino come un «enorme capolavoro» e lo ha descritto come un uomo umile che non si è presentato come un «filosofo autonomo che, alla fine del suo pensiero, postula o afferma Dio come un’idea necessaria della ragione». Invece, Tommaso d’Aquino «si vede come un “insegnante della verità cattolica” ( Summa theologiae I. prol.), che presenta l’auto-rivelazione di Dio come verità e vita di ogni essere umano, e che è definitivamente diventata realtà storica in Gesù Cristo».   Il cardinale Müller ha proposto Tommaso d’Aquino come soluzione per superare le idee di una presunta dialettica tra «Dio e il mondo» o di «un’opposizione inconciliabile tra natura e grazia, o tra conoscenza razionale e fede», e infine tra «rivelazione e ragione».   «L’apparente opposizione tra cristianesimo e modernità, nella filosofia e nelle scienze empiriche, ha una delle sue origini nel rifiuto della sintesi tommasiana tra fede e ragione», ha affermato il cardinale tedesco.   «In sostanza, la colossale opera di San Tommaso è una confutazione e un superamento dello gnosticismo e dell’idealismo antichi e moderni, che con il suo dualismo metafisico lacera l’essere in una contraddizione dialettica irrisolvibile e priva le persone di ogni speranza di comunione con Dio nella verità e nell’amore e ci consegna tutti a un nichilismo esistenzialista o cosmologico».   «La chiave ermeneutica della comprensione cattolica del cristianesimo è l’analogia di natura e grazia, ragione e fede, volontà e amore. La fede si basa sull’autorità di Dio che si rivela nella testimonianza vivente degli apostoli e della Chiesa. Tuttavia, la sacra dottrina usa anche la ragione umana, non, certo, per provare la fede, poiché ciò distruggerebbe la meritorietà della fede, ma piuttosto per chiarire alcune altre cose che sono trattate in questa dottrina. Poiché infatti la grazia perfeziona la natura e non la distrugge, la ragione naturale deve servire la fede, proprio come l’inclinazione naturale della volontà serve allo stesso modo la carità. Ecco perché in 2 Corinzi 10:5 l’Apostolo dice: “… facendo prigioniero ogni intelligenza fino all’ubbidienza di Cristo” (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I q. 8 a. 8. ad 2)».   L’elogio del cardinale Müller all’opera di San Tommaso d’Aquino, così come la sua insistenza sulla lealtà generale dei pastori della Chiesa cattolica agli insegnamenti di Nostro Signore e al Magistero perenne della Chiesa sono un incoraggiamento per i cattolici del nostro tempo.   «La Chiesa sa che siamo perduti senza il Vangelo di Cristo. Nel suo grembo, Maria ha concepito Dio stesso, che è nato da lei: Gesù Cristo, l’unico Salvatore del mondo intero. Lui solo può salvare il mondo; e francamente, anch’io non vorrei essere salvato da nessuno se non da Lui, vero Dio e vero uomo» ha detto il cardinale a chiusura della sua omelia di Philadelphia.

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«Chiediamo alla Madre di Dio di intercedere per noi, affinché diventiamo più degni di ricevere l’autore della vita, il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che vive e regna con Dio Padre, nell’unità dello Spirito Santo, un solo Dio per tutti i secoli dei secoli».   Senza Cristo, dice il porporato, non vi è nessuna Chiesa.   «La Chiesa, infatti, non è un’organizzazione puramente umana che dovrebbe dimostrare la sua utilità o rilevanza sistemica di fronte al mondo. La sua essenza e missione sono fondate sulla sua sacramentalità, che deriva dall’unità Dio-uomo di Cristo. Ecclesia catholica est Christus praesens visibilis: la Chiesa cattolica è la presenza visibile di Cristo».   «Una Chiesa che non crede più in Gesù Cristo non è più la Chiesa di Gesù Cristo. I vescovi che tradiscono la loro missione divina per evitare di essere accusati di proselitismo o di essere rigoristi per difendere la morale cristiana hanno dimenticato il senso e la ragione della loro esistenza. Quel relativismo nella dottrina non rende il cristianesimo adatto al presente, un fatto che è stato portato alla nostra attenzione in modo impressionante da Papa Benedetto XVI»

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L’incendio nella cattedrale di Chartres

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Si tranquillizzi il lettore, l’incendio che qui viene raccontato non risale né a ieri né a oggi, ma al… 1836. La storia di questa catastrofe, mentre quella di Notre-Dame de Paris è stata appena in qualche modo cancellata, presenta delle somiglianze nel percorso , il terribile danno e il modo in cui è stato superato.

 

Una sera del giugno 1836

L’incendio è stato notato dagli operai che lavoravano sul tetto intorno alle 15:30 di sabato 4 giugno. Appena scattato l’allarme sono stati organizzati i soccorsi, prima con secchi, poi con l’ausilio di pompe. Ma sotto l’azione del vento, l’incendio col tempo si estese a tutto il tetto, il «bosco» di castagno. Intorno alle 19:00 era chiaro che si era persa.

 

Le ricadute delle fiamme e dei detriti in fiamme hanno costretto i tetti circostanti a essere coperti con coperte umide e le case ad essere allagate. Tutti sono impegnati a portare l’acqua nei tini o nelle botti. Fu allora che l’incendio invase il campanile nord, facendo colare il piombo. Pezzi di legno e ferro cadono nel coro della cattedrale.

 

Intorno alle 22:00 l’incendio si è esteso alla struttura della torre sud che è crollata intorno alle 2:00. Per tutta la notte, i vigili del fuoco delle comunità circostanti si sono alternati con nuove pompe e si sono formate catene umane che combatteranno con l’incendio fino alle 10:00 del 5 giugno, quando l’incendio si fermerà e il luogo sarà ridotto in macerie.

 

Il prefetto fa una prima osservazione: l’ossatura della navata è distrutta, così come l’interno del campanile nord e l’ossatura del campanile sud; il piombo nelle coperte e in diverse campane si sciolse. Le navate laterali sembrano riparabili e il campanile e l’interno della chiesa sono conservati.

 

Le indagini stabiliranno che gli idraulici che lavoravano vicino al telaio avevano posizionato il loro «dodger» – una specie di fornello usato negli impianti idraulici – vicino a una porta aperta, e che una forte corrente d’aria proiettava scintille verso il telaio.

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Finanziamento delle riparazioni

Il 7 giugno, il ministro della Giustizia e degli Affari religiosi, Paul-Jean Sauzet, ha presentato una «fattura» per ottenere un credito di 400.000 franchi per la riparazione della cattedrale. Poiché lo Stato, a partire dalla Rivoluzione, è il proprietario delle cattedrali, sarà lui a pagare. Inizialmente, le riparazioni e un tetto temporaneo in assi sono stimati a 200.000 franchi.

 

Ma decise di sostituire il legno e il piombo con un telaio in ferro, il cui costo è stimato in 600.000 franchi, che portano il totale a 800.000 franchi, ripartiti negli anni 1836-1837. Il disegno di legge fu adottato da entrambe le Camere e sancito dal re Luigi Filippo il 5 luglio 1836. Così, un mese dopo l’incendio, la ricostruzione poté iniziare.

 

Ma nel corso dei lavori i danni si rivelarono più estesi di quanto lasciasse intendere la prima stima: il costo fu rivisto al rialzo. Nel maggio 1837 fu preparato un secondo disegno di legge per raddoppiare la prima somma stanziata, il costo totale si avvicinò a 1.600.000 franchi. La legge fu approvata l’8 luglio 1837.

 

Nel 1841 furono restaurati i campanili, completata l’ossatura della navata e del coro. I lavori principali saranno quindi durati cinque anni.

 

La diocesi aprì una colletta il 24 giugno 1836, e il capitolo farà una donazione, le somme raccolte consentiranno di portare a termine alcuni lavori: così, le campane furono sostituite nel 1840, e gli organi saranno riparati nel 1846.

 

La ricostruzione è stata quindi eseguita nell’arco di cinque anni, ma non è stata fatta «identicamente», il timore di subire un nuovo incendio ha portato all’installazione di un’intelaiatura metallica resistente al fuoco. Era una tendenza dell’epoca, che vedeva brillare in questo campo un certo Gustave Eiffel.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di François Alexandre Pernot (1793–1865), Incendio alla Cattedrale di Chartres, 4 June 1836 (1837), Musée des Beaux-Arts de Chartres 

Immagine di Le Passant via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

 

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La celebre Dichiarazione di Mons. Lefebvre del 21 novembre 1974 compie 50 anni. Si moltiplicano gli articoli di stampa per onorare questo anniversario, celebrando l’accuratezza e la profondità di un testo davvero storico. Non ci sarebbe però, in questo tentativo di evidenziarlo, una forma di enfasi anacronistica o addirittura di «ripresa politica»? Questo testo ha davvero l’importanza che vogliamo dargli? Lo stesso monsignor Lefebvre si rendeva conto del significato della sua Dichiarazione? La domanda merita di essere posta, poiché le circostanze in cui è stata scritta sembrano umili e discrete.   Un «moto di indignazione», non una «Dichiarazione di guerra».   Dopo l’improvvisa visita apostolica avvenuta dall’11 al 13 novembre 1974, Mons. Lefebvre recò a Roma, presso le tre Congregazioni romane coinvolte in questa visita. Il 2 dicembre, appena tornato dal suo viaggio, mons. Lefebvre si rivolse ai seminaristi riuniti attorno a lui:   «Cari amici, mi è stato chiesto di chiarirvi un po’ qual è la posizione della Fraternità e del Seminario dopo la visita dei due visitatori apostolici avvenuta, e ho pensato che forse sarebbe stato il caso di leggervi una piccola Dichiarazione, che ho scritto per affermare con chiarezza i principi che ci guidano, e per non avere tentennamenti».   Infatti, il 21 novembre, ritornando a casa di Albano dopo alcuni colloqui con le Congregazioni, comprendendo che non c’era molto altro da aspettarsi per il momento e «in un moto di indignazione», come disse, aveva scritto di getto a sintesi della sua posizione.   Non fraintendete, tuttavia. Questo «moto» non è un impulso. «Evidentemente – prosegue – sono cose gravi, ma la situazione è grave. Pertanto, quando gli eventi sono gravi, dobbiamo anche prendere le decisioni corrispondenti e un atteggiamento fermo, chiaro».

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Monsignor Lefebvre non sapeva come si sarebbero evolute le cose. Ma ritenendo inutile perdersi in vane congetture sul futuro, precisò: «Io non sono più informato di voi su ciò che potrà accadere, su ciò che potrebbe non accadere. […] Lasciamo che gli eventi si svolgano come permette la Provvidenza, e preghiamo (…)».   «Ma ho voluto comunque assumere una posizione di principio che non ha bisogno di essere condizionata dagli eventi. Questa posizione di principio, mi sembra, è sempre stata quella del Seminario e della Fraternità. I termini forse sono più fermi, più chiari, più definitivi, perché la gravità della crisi è sempre in aumento…»   Poi con voce calma, pacata e forte allo stesso tempo, legge pacificamente il suo testo e conclude: «questa Dichiarazione può sembrarvi molto forte, ma credo che sia necessaria».   Ciò che motiva dunque questa posizione netta, che trascende con la sua chiarezza le circostanze particolari, è la consapevolezza della gravità della situazione: «un disastro che colpisce le anime. Perché è questo che dobbiamo vedere: le anime che si perdono! Quante anime andranno all’inferno a causa di questa riforma! E tutti questi conventi deserti, queste suore disperse, questi seminari vuoti! (…) Di fronte a quest’ondata di neoprotestantesimo e neomodernismo bisogna dire no!».   Soffermandosi poi sulla santità del sacrificio della Messa, tesoro della Chiesa e fonte di tutte le virtù sacerdotali e cristiane, conclude: «sono cose così preziose che mi sembra che non si possa parlare con sufficiente energia per cercare di preservarle e conservarle per la Chiesa e per le anime».   «Avrei preferito morire piuttosto che dover affrontare il papa a Roma!», confidò a padre Aulagnier l’11 novembre, mentre attendeva i visitatori inviati da Paolo VI.   La sua posizione non ha quindi nulla a che vedere con una fredda dichiarazione di guerra a Roma, né con una reazione troppo forte o poco controllata. Si tratta di un grave «non possumus», pienamente consapevole delle proprie responsabilità, pronunciato per fornire ai propri seminaristi, nella confusione crescente, una linea di condotta chiara e ferma. È una santa indignazione piena di fede; una professione umile e forte, ispirata unicamente dal suo profondo amore alla Chiesa e alle anime.  

Un «casus belli» comunque…

I seminaristi non si erano sbagliati e accolsero con vibranti applausi la lettura di questo testo storico. Sebbene non fosse destinato al pubblico, viene comunque conosciuto e frammenti di esso vengono divulgati all’insaputa dell’autore, in condizioni diverse e talvolta deplorevoli. Monsignor Lefebvre decise allora di pubblicarne una versione autentica e completa, appena ritoccata, nel numero di gennaio 1975 di Itinéraires.   Ma nessuna preoccupazione lo turba: «quali che siano le sanzioni prese contro di noi, in queste condizioni non è più una questione di obbedienza, ma di conservare la fede. Se se ne vanno dieci, venti, quaranta, io resto!»   Alla fine di gennaio monsignor Lefebvre venne convocato a Roma dove, il 13 febbraio, incontrò tre cardinali. Uno di loro mostrò Itinéraires: «la vostra Dichiarazione, pubblicata su Itinéraires! Allora siete contro il Papa e contro il Concilio! Questo è inaccettabile!»   Dopo averlo lasciato a un monologo di venticinque minuti, monsignor Lefebvre chiarì con calma l’atteggiamento e il pensiero del seminario e della Fraternità. No, non è vero, non era contro il Papa. Si astenne sempre dal dire qualcosa di dispregiativo e rifiutò di permettere a chiunque di dire parole dispregiative nei confronti del Santo Padre in seminario.   D’altra parte, sottolineò che le conseguenze del Concilio che si erano manifestate nelle riforme erano molto gravi, e che non potevano accettarle: dovevano rimanere legati alla Tradizione. Ma i cardinali si fanno fecero duri: «se mantenete la vostra Dichiarazione, allora non potremo riconoscere la Fraternità, non potremo riconoscere il vostro seminario…». Detto questo, monsignor Lefebvre concluse: «io non vedo come posso cambiare la mia opinione».   Dopo un secondo incontro il 3 marzo, in cui gli fu stato detto: «il vostro manifesto è inaccettabile», mons. Lefebvre commentò per i suoi seminaristi: «Vediamo il degrado sempre più evidente della morale, della fede, della liturgia: non possiamo restare indifferenti a questa distruzione, non è possibile!»   «Ecco perché dobbiamo mantenere assolutamente la nostra fermezza, e non dubitare nemmeno per un momento della legittimità della nostra posizione. Non siamo noi che giudichiamo, non sono io che mi faccio giudicare. Io non sono che l’eco di un magistero limpido, professato da 2000 anni. È il magistero della Chiesa, è la Tradizione della Chiesa che condanna (…)».   «Diranno: “Vi separate da Roma!”. Al contrario, ad essa siamo legati più di ogni altro! Siamo legati a questa Roma che ha sempre professato la verità, professato il magistero della Chiesa. Questa Roma è nostra e noi la facciamo nostra. Ecco perché non dobbiamo preoccuparci».

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…E un motivo di condanna

La sentenza cadde il 6 maggio 1975. In tre parole: soppressione della Fraternità, chiusura del seminario e nessun sostegno a mons. Lefebvre finché avrebbe mantenuto le idee espresse nel suo manifesto.   «È attorno alla tua dichiarazione pubblica, nella rivista Itinéraires, che il nostro scambio è iniziato e principalmente continua. Non potrebbe essere altrimenti. (…) Tuttavia, tale Dichiarazione ci è sembrata inaccettabile sotto ogni punto di vista. È impossibile conciliare la maggior parte delle affermazioni contenute in questo documento con l’autentica fedeltà alla Chiesa, a coloro che ne sono responsabili e al Concilio dove si sono espressi il pensiero e la volontà della Chiesa».   Jean Madiran commentò laconicamente: «inaccettabile sotto ogni aspetto. In una sentenza ufficiale non è possibile supporre che si tratti di un lapsus o di un’imprecisione redazionale». L’unico argomento della sentenza del cardinale è il seguente: mons. Lefebvre è accusato di invitare tutti «a subordinare le direttive che provengono dal papa al proprio giudizio».   Non solo, continua Madiran, «è una falsificazione»; ma «quando, in nome del papa, le congregazioni romane favoriscono o impongono l’autodemolizione della Chiesa e l’apostasia immanente, non è per suo giudizio, è per il Credo, è per la virtù teologale della fede, è a motivo della Tradizione cattolica che ogni battezzato è chiamato a rifiutare e a resistere».   Nel mese di giugno, presentando un appello contro la soppressione della Fraternità e del Seminario, mons. Lefebvre indirizzava a Paolo VI il seguente rapporto, in cui si afferma chiaramente il ruolo assolutamente centrale svolto dalla sua Dichiarazione: «constatando che i visitatori sono venuti con il desiderio di allinearci sui cambiamenti avvenuti nella Chiesa dopo il Concilio, ho deciso di chiarire il mio pensiero davanti al seminario».   «Non potevo aderire a questa Roma rappresentata dai visitatori apostolici, che si permettevano di trovare normale e fatale l’ordinazione delle persone sposate, che non ammettevano una verità immutabile, che esprimevano dubbi sul modo tradizionale di concepire la Risurrezione di Nostro Signore (…)».   «Il 13 febbraio, 3 marzo, è stata discussa solo la mia Dichiarazione del 21 novembre. Con veemenza, il cardinale Garrone mi ha rimproverato per questa Dichiarazione, arrivando a darmi del “pazzo”, dicendomi che “facevo la parte di Atanasio”, e questo per venticinque minuti. Si è aggiunto il cardinale Tabera, dicendomi che “quello che fate è peggio di quello che fanno tutti i progressisti”, che “io avevo rotto la comunione con la Chiesa (…)».   «Ho cercato invano di formulare argomentazioni, spiegazioni, che indicassero il significato esatto della mia Dichiarazione. Affermavo che rispettavo e rispetterò sempre il Papa e i vescovi, ma che non mi sembrava scontato che criticare alcuni testi del Concilio e le riforme che ne sono seguite equivalesse a una rottura con la Chiesa; che mi sforzavo di individuare le cause profonde della crisi che attraversava la Chiesa, e che tutta la mia azione dimostrava il mio desiderio di costruire la Chiesa e non di distruggerla. Ma nessun argomento è stato preso in considerazione (…)».   «Così, dopo questo processo farsa, mi è stata fatta questa cosiddetta visita favorevole con qualche leggera riserva e due interviste incentrate solo sulla mia Dichiarazione per condannarla completamente, senza riserve, senza sfumature, senza esame concreto e senza che mi fosse consegnato nemmeno un testo scritto, e ho ricevuto una dopo l’altra una lettera da Sua Eccellenza monsignor Mamie sopprime la Fraternità e il Seminario con l’approvazione della Commissione Cardinalizia, poi una lettera della Commissione che conferma la lettera di Mons. Mamie, senza che venga formulata un’accusa formale e precisa sulle proposte avanzate».   «Ho dovuto quindi mandare via immediatamente centoquattro seminaristi, tredici insegnanti e personale del seminario, due mesi prima della fine dell’anno scolastico! Basta scrivere queste cose per indovinare cosa potrebbero pensare le persone che hanno ancora un po’ di buon senso e di onestà».   Un «segno di contraddizione» Presente al centro delle condanne che colpirono mons. Lefebvre nel 1975, la sua Dichiarazione fu allora oggetto di discussioni tra i docenti del seminario di Econe. Alcuni avrebbero voluto correggerlo e scrivere una «dichiarazione moderata»: «Monsignore, ritirate il vostro primo testo e firmate questo!» Ma mons. Lefebvre non poteva cedere. Ai cardinali disse: «Potrei scriverlo diversamente, ma non potrei scrivere altro».   Poi quattro o cinque professori si ritirarono: il testo del 21 novembre divenne segno di contraddizione. Mons. Lefebvre lo ricorderà due anni dopo: «i professori avrebbero voluto che accettassi il Concilio! Avrei dovuto dimostrare la mia totale accettazione del Concilio e oppormi solo alle infelici interpretazioni del Concilio».   «Non potevo accettare una formula come questa. Perché, in coscienza e in verità, non credo che possiamo accettarlo. Dire che non c’è niente nel Concilio, che il Concilio è perfetto, che è un concilio come gli altri, che dobbiamo accettarlo come gli altri, e che ci sono solo interpretazioni e abusi del Concilio…»   Questo atto d’accusa al Vaticano II gli sembrava inevitabile: «perché nella famosa Dichiarazione faccio allusioni al Concilio? Questo Consiglio è pericoloso. Ci sono tendenze liberali, tendenze moderniste, che sono molto pericolose perché hanno poi ispirato le riforme che sono seguite e che hanno messo a terra la Chiesa. Giudichiamo l’albero dai suoi frutti, dobbiamo solo vedere».   I fatti stessi gli diedero ragione. Ai seminaristi, nel settembre 1975, spiegava: «il Santo Padre, i cardinali, in definitiva condannano il nostro seminario a causa della sua Tradizione! Per il fatto che manteniamo le tradizioni, ci troviamo, per loro, in opposizione al Concilio e quindi in disobbedienza alla Chiesa! (…)»   «Logicamente è quindi il Concilio che rompe con la Tradizione! Impossibile immaginarlo diversamente…! Poiché manteniamo gli orientamenti tradizionali, siamo condannabili in nome del Concilio: è quindi dal Concilio che è uscito qualcosa di nuovo, qualcosa che si oppone alla Tradizione…»

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Sulla cima di una montagna

Tuttavia, se la Dichiarazione appare chiaramente come una vera e propria posizione anticonciliare, non può essere ridotta a questa contraddizione. Sorge più in alto, su un’alta vetta da dove trascende ogni dialettica, in un clima di freschezza autenticamente cattolica.   «”Allora sei contro il papa, sei contro la Chiesa”, ci diranno. Non siamo affatto contro il Papa! Siamo i migliori difensori del Papa! (…) Siamo attaccati come la pupilla dei nostri occhi a ciò che il papa ha di più caro: difendere il deposito della fede, trasmettere il deposito della fede, le rivelazioni degli Apostoli, che furono date agli Apostoli da Nostro Signore».   «Quindi non siamo affatto contro il papa, anzi!». E in una lettera al Santo Padre, il 24 settembre 1975, «ribadiva quanto aveva affermato nella prima parte della sua Dichiarazione»: il suo «attaccamento senza riserve alla Santa Sede e al Vicario di Cristo», dicendosi devoto «con tutto il cuore al successore di Pietro, “maestro della verità”».   Ma la stessa Dichiarazione che lo preserva dalla separazione dal Papa, lo preserva anche dalla sottomissione servile a quest’ultimo. È ancora questo testo che citerà a Mons. Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato, in un incontro del 19 marzo 1976: «nessuna autorità, anche la più alta nella gerarchia, può obbligarci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica chiaramente espressa e professata dal magistero della Chiesa da diciannove secoli».   E commenterà: «”nessuna autorità, anche la più alta”: quindi il Papa, anche il Papa?» Monsignor Lefebvre non vede come si possa discutere una frase del genere, gli sembra ovvia… «Ma, insiste Mons. Benelli, è il Papa il giudice della verità, è il Papa il criterio della verità, è il Papa che decide della verità».   – «Penso che il Papa debba trasmettere la verità, ma non è lui che fa la verità. Lui non è la verità, deve trasmettere la verità». – «In ogni caso non siete voi a fare la verità!» – «Non sono io. Ma un bambino che conosce il catechismo conosce la verità, e il Papa non può opporsi alla verità che è nel catechismo e che i papi insegnano da venti secoli».   Magnifica risposta di saggezza e semplicità!   Monsignor Benelli supplica «Lei deve, monsignore, fare atto di sottomissione. Dobbiamo fare un atto di sottomissione! Direte che avevate torto; in secondo luogo, che accettate il ​​Concilio, accettate le riforme post-conciliari, accettate gli orientamenti post-conciliari dati da Roma».   «Accettate la Messa di Paolo VI nella vostra casa e in tutte le case che dipendono da voi; e vi impegnate a far sì che anche tutti coloro che vi hanno seguito finora vi seguano nel cambiamento che dovete operare e nella disciplina che dovete imporre loro per ritornare alla disciplina della Chiesa! (…) Vi assicuro: se firmate questo atto, per il vostro seminario non c’è più nessun problema, non c’è più nessun problema, nemmeno materiale!»   Ma monsignor Lefebvre, incrollabilmente fedele alla linea chiara della sua posizione di principio, resta inaccessibile a queste intimidazioni. Vuole soltanto sottomettersi alla verità della Tradizione della Chiesa, anche se per farlo deve affrontare l’opposizione più dolorosa.   Nessuna pressione lo separerà dalla Roma eterna; nessuna contraddizione indebolirà il vigore del suo attaccamento a Pietro; nessuna paura lo distrarrà dalla sua fondamentale opposizione a tutti gli orientamenti liberali che demoliscono la Chiesa, anche se provengono da un concilio o dal Papa stesso.

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Una professione di fede

Nel 1982, mons. Lefebvre legge ai suoi seminaristi un breve testo scritto alla fine del 1974, che suona come un’eco della sua dichiarazione del 21 novembre, e ne ricorda lo spirito, intriso di fede:   «Invece di comprendere le ragioni che ci obbligano a mantenere la dottrina tradizionale, la liturgia tradizionale, e ad autorizzarci a continuare, anche solo in via sperimentale, ciò che stiamo facendo per dare alla Chiesa dei veri sacerdoti come li ha sempre avuti, l’attuale Curia Romana utilizza tutti i mezzi di pressione morale per farci accettare l’orientamento liberale della Chiesa».   «Cioè, una nuova espressione della fede, della catechesi, più vicina al modernismo che alla Tradizione e al Magistero; la nuova liturgia, con la nuova concezione del sacerdote, più vicina al protestantesimo che alla dottrina ortodossa».   «Questo orientamento liberale, che ha trionfato al Concilio Vaticano II, è proprio quello dei liberali e dei cattolici liberali che sono stati più volte condannati dai romani pontefici. Pio IX li designa come i peggiori nemici della Chiesa, come traditori; Leone XIII condanna definitivamente le loro teorie, che sono false, basate sui principi della Rivoluzione francese; San Pio X condanna l’applicazione di questo liberalismo nel modernismo e nel Sillon».   «Siamo quindi posti, senza che lo abbiamo voluto né desiderato, di fronte a una scelta da fare: ovvero, con il pretesto dell’obbedienza, entrare in questo orientamento liberale, distruttivo della fede e di ogni valore cristiano, orientamento forzato da parte di coloro che detengono potere nella Curia Romana».   «Oppure mantenere le fonti e i bastioni della fede, seguendo tutti i papi del XVIII e XIX secolo, e del XX secolo fino a Giovanni XXIII, fino a prima del Concilio, e vivere in un clima generalizzato di sfiducia, di critica da Roma e dai vescovi».   «Ovviamente la nostra scelta è fatta. Essa è più che mai per l’ortodossia della fede e per la Tradizione custode della fede. Vogliamo credere e vivere in comunione con la Chiesa cattolica di sempre, di tutti i santi, di tutti i papi che hanno propagato e trasmesso la vera fede cattolica».   «Siamo in comunione con la Chiesa di oggi in quanto essa continua la Chiesa di ieri. Ma non lo riconosciamo in questo atteggiamento e in queste convinzioni liberali, protestanti e moderniste».   «Non possiamo quindi accettare tutto ciò che, nella recente riforma, si ispira a questi principi, come i nuovi catechismi, la nuova catechesi, le meditazioni che sostituiscono i ritiri spirituali, la riforma liturgica ispirata ad un falso ecumenismo, la riforma del diritto pubblico della Chiesa ispirata ad una falsa libertà religiosa».   «Il tradimento della Chiesa da parte dei suoi chierici e dei suoi cattolici liberali porta frutti amari di cui il mondo intero è testimone, di cui alcuni si rallegrano e altri soffrono crudelmente».

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La «carta» della Fraternità

Nel 1985, mons. Lefebvre, che aveva appena festeggiato il suo ottantesimo compleanno, ripercorreva i vent’anni trascorsi. Rispondendo a certe insinuazioni, confida semplicemente: «non credo, in verità, di aver cambiato in alcun modo il mio atteggiamento verso tutto ciò che è accaduto nella Chiesa».   Rileggendo ai suoi seminaristi, tra gli altri testi, quello del 21 novembre 1974, dice: «continuiamo a dirlo! Questa è la verità».   Ma è proprio il 9 giugno 1988, alla vigilia delle consacrazioni episcopali che farà tre settimane dopo, che questa Dichiarazione risplende soprattutto con la sua luce e la sua forza silenziosa.   «Forse saremo condannati, questo non è sicuro… Forse taceranno, forse ci condanneranno… Ci ritroveremo come eravamo nel 1976, al tempo della sospensione».   «Potrebbero esserci alcuni che ci lasceranno. Per paura di Roma! È assurdo! Sempre questa paura di essere in difficoltà con Roma, come se Roma fosse ancora la Roma normale!»   «Ma, alla fine, da chi siamo condannati? E perché siamo condannati? Questo è quello che dovete vedere! Siamo condannati da persone che non hanno più la fede cattolica… Assisi è la negazione della fede cattolica, in pubblico! È stato fatto di nuovo a Santa Maria in Trastevere! Questo non è possibile, è inimmaginabile! Non è più Roma! Questa non è la vera Roma!»   Poi, con commovente serenità in un’ora così grave, il prelato prosegue:   «Dobbiamo sempre tornare alla Dichiarazione del 21 novembre 1974. È veramente la nostra carta».   «La rileggevo per leggervela di nuovo… credo che avrei potuto firmarla in tutti questi anni, e la firmerei ancora adesso: è la stessa cosa. Siamo esattamente nello stesso stato d’animo! Non siamo cambiati di una virgola! Questo è ciò che difendiamo e ciò che vogliamo assolutamente difendere! Contro questa Roma modernista».   «Quando tutto sarà cambiato, quando quelli se ne saranno andati e ci saranno persone che sono per la Tradizione della Chiesa, allora non ci saranno più problemi, ovviamente!»   Nell’ottobre 1988 vi tornerà un’ultima volta: «dovevamo scegliere! Non c’è niente da fare. Dovevamo scegliere tra la vecchia fede e queste cose nuove. Per questo considero ancora attuale la Dichiarazione che ho fatto il 21 novembre, dopo la visita dei prelati venuti l’11 novembre 1974, dicendo: Scegliamo la Roma di sempre! Non vogliamo la nuova Roma modernista».

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Conclusione

Monsignor Lefebvre è stato fedele a questa carta fino alla fine. Avendo assicurato, attraverso le consacrazioni episcopali, la sopravvivenza della Tradizione della Chiesa, poté cantare il suo Nunc dimittis e restituire la sua anima a Dio nella pace. Aveva combattuto la buona battaglia fino alla fine.   Nella cripta della chiesa del seminario di Econe, sulla tomba dove riposano le sue spoglie mortali, leggiamo incise queste parole: «Tradidi quod et accepi. Ciò che ho ricevuto, te lo ho trasmesso».   Cosa ha ricevuto? Una fede profonda nella persona eterna di Gesù Cristo, un attaccamento incrollabile ai tesori della Chiesa che sono il sacrificio della Messa e del sacerdozio, una speranza incrollabile nel trionfo della Regalità di Cristo e, a coronamento di tutto, una carità che ha consumato la sua anima al servizio della Chiesa, eco vibrante della carità di Dio stesso.   Sono queste ardenti disposizioni che furono espresse in modo così eloquente nella sua dichiarazione del 21 novembre 1974, e che ne spiegano la profondità e la saggezza.   Sotto il coperchio di pietra, con gli occhi chiusi, riposa in pace il valoroso prelato. Ma la sua Dichiarazione resta: brilla come un faro, continuando a illuminare i passi dei suoi figli.   «La Tradizione appartiene alla Chiesa; è in essa e per essa che la custodiamo in tutta la sua integrità, “in attesa che la vera luce della Tradizione dissipi le tenebre che oscurano il cielo della Roma eterna”» (Messaggio del Superiore generale e dei suoi Assistenti in occasione del cinquantesimo anniversario della dichiarazione del 21 novembre 1974).   Somma di articoli previamente apparsi su FSSPX.News

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  Immagine da FSSPX.News.
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