Pensiero
Annulleranno il vostro voto. Con la scusa delle fake news

È accaduto in Brasile. Tuttavia, il fenomeno è in preparazione in ogni parte del mondo, Italia compresa.
La narrativa implementata materialmente, anche a costo di annullare un’elezione – cioè fare un piccolo colpo di Stato.
È successo a Brasilia, perché lì sta l’ultimo Highlander dell’ondata populista di fine anni ’10, Jair Messias Bolsonaro, tra i pochi superstiti all’arrivo dell’antimateria pandemica, la sostanza aliena che ha spazzato via dal globo tante voglie sovraniste assicurando un ritorno all’ordine per l’establishment mondialista.
Ecco quindi presidente del Tribunale Elettorale Superiore del Brasile, Edison Fachin, ha sostenuto dinanzi ai corrispondenti esteri in Brasile (cioè: lo ha comunicato alla stampa internazionale) che la massima autorità elettorale del Paese – la sua – dispone di strumenti che le consentono di privare della vittoria i vincitori delle elezioni: basta dimostrare che hanno distribuito notizie false.
Proprio così: annullamento della vittoria come punizione per aver mandato in giro fake news.
«Siamo estremamente preoccupati per la diffusione della disinformazione, soprattutto sui social network. La corte è attenta e abbiamo già adottato alcune misure preventive con l’idea che le informazioni distorte siano combattute con informazioni corrette».
Il capo della corte elettorale ha osservato che la legge elettorale caratterizza la diffusione di notizie false come un reato che può innescare la sanzione dei vincitori delle elezioni che la perpetrano spogliandoli delle cariche che hanno conquistato.
«Se è necessario arrivare al punto di sanzionare alcuni comportamenti, il tribunale non rifiuterà di esercitare la sua autorità punitiva».
Ovviamente, Fachin, che ridicolmente non ha fatto nomi, si riferisce ad un candidato specifico: Jair Messias Bolsonaro.
In pratica, si ripete quanto abbiamo già visto con Trump e le elezioni 2020: Bolsonaro ha sostenuto varie volte che il sistema di voto elettronico del Brasile è suscettibile di frode. Di per sé la cosa dovrebbe essere pacifica – ogni sistema informatico può essere violato – tuttavia ciò, nel mondo dove il senile Joe Biden prende 81 milioni di voti (10 milioni più di Obama!) ciò a quanto sembra non si può dire, è tabù.
Al punto che della cosa il Tribunale elettorale brasiliano ne sta parlando con Telegram.
«Stiamo discutendo le misure di integrità con il vicepresidente di Telegram. È stata una delle ultime piattaforme ad aderire, ma i risultati ottenuti fino ad oggi sono significativi», ha affermato il giudice, facendoci capire quanto infine possiamo fidarci del social di origine russo con i server negli Emirati.
Insomma, se il popolo voterà Bolsonaro invece che Lula, potranno tranquillamente dire che Bolsonaro ha diffuso fake news (magari impiantate dai loro stessi agents provocateurs) e quindi l’elezione sarà annullata, e con essa il voto di milioni e milioni di cittadini.
E a chi andrà quindi il potere?
Fate uno sforzo di immaginazione.
A questo punto abbiamo quindi la chiara comprensione di cosa sia servita in questi anni la montante isteria intorno a fake news e disinformazione, con comitati creati dai governi di tutto il mondo e ban a go-go sui social media (come accaduto a Renovatio 21, che ha portato Facebook in tribunale, e riottenuto account e pagina).
Il famoso «ministero della Verità» – chiamato Disinformation Board e facente parte dell’armatissimo Department for Homeland Security – istituito da Biden con a capo l’improbabile Nina Jankowitz, è stato spernacchiato fino a che il governo non lo ha messo «in pausa». Il mondo ha tirato un sospiro di sollievo, e i più ci hanno riso sopra.
Lo stesso dipartimento della Jankowitz aveva spiegato che nonostante certe idee saltate fuori (per esempio, quella di poter editare i post sui social i post ritenuti fake news) il fallito board mai ha avuto intenzione «di censurare o controllare il discorso».
Si trattava, questa, di una vera fake news: documenti che gole profonde hanno fatto pubblicare sul Washington Free Beacon hanno mostrato come il governo avesse in programma di «rendere operative partnership pubbliche-private tra il DHS e Twitter – cioè di lavorare direttamente con i social media. Con Twitter, il Disinformation Board ha avuto un meeting il 28 di aprile.
Oramai l’avete capito: fake news, teorie del complotto, disinformazione… sono solo espressioni per una cosa non grata alla narrativa dominante fatta dalla fusione di governi e megagruppi informatici.
Perché, a Brasilia come a Washington, chi definisce cosa è una fake news?
La Jankowitz (chiamata anche Scary Poppins) nell’ottobre 2020, poco prima delle elezioni, aveva definito la storia del laptop di Hunter Biden come una fake news, un’operazione di disinformazione venuta dalla Russia. Ora che anche New York Times e Washington Post ammettono che la storia del computer infernale del figlio del presidente è vera, chi è che ha diffuso fake news?
Curiosa coincidenza: il meeting tra il Disinformation Board e Twitter si è svolto alla presenza di Yoel Roth, un dirigente di Twitter che con il team di Twitter «Fiducia e Sicurezza» aveva preso la decisione di censurare la storia del laptop di Hunter Biden. Il livello di censura fu tale che tolsero al New York Post (giornale più antico d’america, fondato da Alexander Hamilton, quarto per diffusione») il profilo Twitter.
Era solo un assaggio di quello che sarebbe accaduto – ricordando che allora al potere, in teoria, c’era Trump…
Ora, con questo push da parte della Casa Bianca bideniana è trattato, quindi, di una campagna di sollecitazione segreta da parte del governo americano, coperta da bugie immani, con offerte reali da parte del governo di offrire al social dati per la creazione di un regime di controllo delle informazioni che la Casa Bianca ritiene «cattive».
A tutti gli effetti, questa è pura distopia à la 1984.
Neanche qui, niente di nuovo. Chi segue la questione, ricorderà le incredibili dichiarazioni dell’ex portavoce di Biden, la rossa Jen Psaki, durante la campagna di vaccinazione mRNA 2021. Il governo USA stava etichettando quello che riteneva «disinformazione» per fornirlo a Facebook affinché quest’ultimo potesse censurare contenuti contrari alla volontà del potere.
Non era l’unica follia orwelliana sparata tranquillamente dalla Psaki. La portavoce della Casa Bianca disse quindi qualcosa di ancora più scioccante: se una persona viene bandita da una piattaforma di social media, dovrebbe essere bandita su tutte le piattaforme di social media.
Unreal: Jenn Psaki doubles down on the Democrat Biden administration pushing social media companies to ban accounts that promote misinformation, says that if you get banned from one site you should be banned from other sites. pic.twitter.com/dGzNrTUBsH
— Jason Rantz on KTTH Radio (@jasonrantz) July 16, 2021
C’è da non crederci, ma in realtà tutto questo ha perfettamente senso: non colpiscono l’utente dei social. Colpiscono un elettore.
È la fusione dello Stato securitario con Big Tech, che avanza da anni – cioè: sin dall’inizio, perché nessuno deve dimenticare le origini militari della Silicon Valley, e i finanziamenti di Pentagono e CIA che ancora aleggiano tra startup e mega-multinazionali informatiche.
È la creazione della base per il regime si sorveglianza che si prepara, e che è già diretto verso metà (e più) della popolazione, cioè contro tutti coloro che non hanno votato per il pupazzo senile del Deep State, sempre più assimilati, sin dai primissimi giorni della sua presidenza, a «terroristi domestici».
Non è solo la fine della libertà di espressione: è la caccia contro il singolo, colpevole di appartenere ad una dissidenza, concetto non più possibile nelle cosiddette democrazie occidentali.
Il dissidente va non solo zittito, ma controllato, se serve arrestato ed esposto al pubblico ludibrio, come i personaggi della protesta al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
Non c’è politico che vuole difendere il diritto ad un’opinione diversa; non c’è giornale che farà battaglie sulla libertà di espressione: perché oramai si tratta solo di consorterie già stabilite, che vogliono mantenere lo stipendio nel momento in cui, questo l’anno capito, un terremoto può far loro mancare la terra sotto i piedi.
Ciò che stiamo scrivendo è valido non solo per gli USA e per il Brasile, ma per tantissimi Stati occidentali. Pensate alla Germania che valutava di chiudere Telegram. Pensate ai progetti dell’OMS per ascoltare le conversazioni online e «contrastare le fake news». Pensate agli investimenti di Soros per combattere le fake news. Pensate a Google che demonetizza i siti che sull’Ucraina non si adattano alla narrativa ufficiale, mentre in rete le balle di Kiev impazzano.
L’obbiettivo di questa immane operazione dello Stato profondo mondiale e delle multinazionali trilionarie – allineati perfettamente, come da Vangelo del Grande Reset – non sono le fake news. Siete voi.
Perché vogliono togliervi la parola e il pensiero, ma più ancora, il potere residuale che avete 0 magari anche, per quello che può valere, il vostro diritto di voto. In Brasile sarà così.
È a suo modo, un processo di pulizia etnica, formato XXI secolo.
Voi ne siete le vittime.
Ogni volta che dicono «fake news», stanno tirando un colpo per disintegrarvi, per rimuovervi dall’equazione del mondo moderno.
Perché siete un pericolo, siete qualcosa che va controllato e possibilmente neutralizzato, eliminato: alla fine, dovrà restare solo la massa vaccina, quella che, docile docile, si accontenta di brucare un po’ di erbetta e soprattutto accetta di essere portata al macello quasi senza muggire.
La pandemia, i social media: tutto questo è stato solo un grande test per dividere la società separando la popolazione in base ad obbedienza, creduloneria, inclinazione ad essere sottomessa.
Di una cosa siate felici: se state leggendo questo sito, con estrema probabilità siete finiti nella categoria giusta: coloro che sono liberi, perché sono rimasti umani.
Voi siete tra coloro che non si curano delle fake news, perché credono con il cuore nella Verità e nel suo trionfo finale.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.
L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.
Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.
Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.
Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.
Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.
Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.
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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.
Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.
Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.
Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.
Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.
I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.
Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».
Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.
Patrizia Fermani
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Pensiero
Putin: il futuro risiede nella «visione sovrana del mondo»

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Pensiero
La questione di Heidegger

Negli scorsi mesi è scoppiata sul quotidiano La Verità una bizzarra diatriba riguardo ad un pensatore finito purtroppo per essere centrale nel nostro panorama filosofico accademico, Martin Heidegger (1889-1976), già noto per la collaborazione con il nazismo e per l’adulterio consumato con la celebre ebrea Hannah Arendt, all’epoca sua studentessa, e da alcuni, per qualche ragione, considerato come un filosofo «cattolico».
Un articolista con fotina antica a nome Boni Castellane (supponiamo si chiami Bonifazio, ma lo si trova scritto così, con il diminutivo, immaginiamo) ha cominciato, con un pezzo importante, a magnificare le qualità dell’Heidegger lo scorso 17 agosto:«Omologati e schiavi della Tecnologia – Heidegger ci aveva visti in anticipo».
Giorni dopo, aveva risposto un duo di autori, tra cui Massimo Gandolfini, noto, oltre che la fotina con il sigaro, per aver guidato (per ragioni a noi sconosciute) eventi cattolici di odore vescovile, che come da programma non sono andati da nessuna parte, se non verso la narcosi della dissidenza rimasta e il compromesso cattolico. Sono seguite altri botta e risposta sul ruolo del «sacro» secondo l’Heideggerro e la sua incompatibilità con il cristianesimo.
Il Gandolfini e il suo sodale scrivono, non senza ragione, che «il dio a cui si riferisce Heidegger non è il nostro». Una verità non nota agli intellettuali cattolici che, in costante complesso di inferiorità nei confronti del mondo, hanno iniziato ad importare il pensatore tedesco dalle Università italiane – dove ha tracimato, dopo un progetto di inoculo sintetico non differente da quello avutosi con Nietzsche – per finire addirittura nei seminari.
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Il progetto, spiegava anni fa Gianni Collu al direttore di Renovatio 21, era del tutto identico a quello visto con Nietzsche, recuperato dall’ambito della cultura nazista, purgato nell’edizione Adelphi di Giorgio Colli e Mazzino Montinari – la cura dell’opera omnia nicciana arriva prima in italiano che in tedesco! – e servito alla massa del ceto medio riflessivo italiota, e mondiale, per distoglierlo dal marxismo e introdurre elementi di irrazionalismo e individualismo nichilista nella vita del popolo – di lì all’esoterismo di massa, il passo diventa brevissimo.
Con Heidegger si è tentato un lavoro simile, ma Collu aveva profetizzato allo scrivente che stavolta non avrebbe avuto successo, perché era troppo il peso del suo legame con l’hitlerismo, e troppa pure la cifra improponibile del suo pensiero. Di lì a poco, vi fu lo scandalo dei cosiddetti «Quaderni neri», scritti ritenuti inaccettabili che improvvisamente sarebbero riemersi – in verità, molti sapevano, ma il programma di heidegerizzare la cultura (compresa quella cattolica) imponeva di chiudere un occhio, si vede. Fu ad ogni modo divertente vedere lo stupore di autori e autrici che avevano dedicato una buona porzione della carriera allo Heidegger – specie se di origini ebraiche.
L’incompatibilità di Heidegger – portatore di una filosofia oscura e disperata – con il cattolicesimo è, comunque, totale. Di Heidegger non vanno solo segnalati i pericoli, va combattuto interamente il suo pensiero, che altro non è se non un ulteriore sforzo per eliminare la metafisica, e quindi ogni prospettiva non materiale – cioè spirituale – per l’uomo.
Molto vi sarebbe da dire sul personaggio, anche a partire dal suo dramma biografico. Lasciamo qui la parola al professor Matteo D’Amico, che ha trattato il tema dell’influenza di Heidegger nel mondo cattolico, e la difformità di questo personaggio e del suo pensiero, in un intervento al Convegno di studi di Rimini della Fraternità San Pio X nel 2017.
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Immagine di Landesarchiv Baden-Württemberg, Staatsarchiv Freiburg W 134 Nr. 060680b / Fotograf: Willy Pragher via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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