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Geopolitica

La Moldavia mette al bando un partito di opposizione

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Lo scorso 19 giugno, un partito politico è stato bandito in Moldavia.  Si tratta della prima volta dall’indipendenza del paese nel 1991.

 

A seguito di un processo che ha provocato un’ampia protesta pubblica, la Corte Costituzionale della Moldavia ha ordinato lo scioglimento del Partito Sor. I membri del parlamento moldavo eletti nelle liste del partito non hanno perso automaticamente i seggi e sono stati autorizzati a rimanere indipendenti.

 

Il presidente del parlamento Igor Grosu ha affermato lunedì che la sentenza della Corte costituzionale è stata «un segnale potente» che indica come «qualsiasi partito politico, che viola deliberatamente la legge, dovrà affrontare le conseguenze».

 

L’establishment filo-occidentale della Moldova ritiene che si tratti di un partito «filo-russo», mentre la fazione politica che il Sor osteggiava ritiene che si tratti di un «partito degli oligarchi». Come ha detto il ministro della Giustizia moldavo Sergiu Litvinenco, che ha guidato l’iniziativa di appello alla Corte Costituzionale di Chisinau per bandire il Sor, «il partito è stato creato dagli oligarchi e per gli oligarchi. Fin dall’inizio, il suo obiettivo era screditare l’idea di democrazia e imitare il sostegno pubblico. Il partito nasce come costola o strumento politico di un gruppo criminale organizzato».

 

Il fondatore del partito, Ilan Shor, è fuggito in Israele, la sua terra natale, per sfuggire alla prigione. Lo scorso aprile, un tribunale di Chisinau già aveva condannato Ilan Shor a 15 anni di carcere in absentia per frode bancaria e riciclaggio di denaro, sentenza che gli è costata il ruolo di membro del parlamento moldavo. Shor ha insistito sul fatto che il caso contro di lui era motivato politicamente, così come lo era la repressione del suo partito. Lo Shor, 36 anni, nel 2022 è stato colpito da sanzioni americane in quanto ritenuto associato al governo russo.

 

Nei mesi precedenti, i sostenitori del partito hanno organizzato manifestazioni chiedendo bollette più basse e un aumento delle garanzie sociali. Inoltre, il partito si è opposto a qualsiasi discorso sull’unificazione della Moldavia con la Romania e su qualsiasi tentativo di impadronirsi con la forza della repubblica non riconosciuta della Transnistria, dove dal 1992 sono di stanza le forze di pace russe.

 

Il divieto ha provocato proteste di massa e una spaccatura nell’establishment politico. Insieme alle denunce per l’usurpazione del potere e il deterioramento dell’economia – che molti dicono sia stato causato dalla rottura dei legami con la Russia – il presidente della Moldavia Maia Sandu, sostenuto dall’Occidente, è ora accusato di violare la democrazia e i principi costituzionali del Paese.

 

La scorsa settimana Shor, rifugiato in Israele, ha dichiarato la volontà di creare un nuovo blocco politico chiamato sempre SOR, acronimo che sta per «possibilità, impegni, realizzazione».

 

Shor ha affermato che la nuova organizzazione politica si batterà per una «vittoria totale nelle elezioni locali, presidenziali e parlamentari» al fine di rendere la Moldavia «ricca, prospera e veramente indipendente».

 

In seguito il politico israelo-moldavo ha detto ai media di aver pianificato che «circa 10 partiti» si potrebbe unire all’alleanza. Shor ha detto che ne sarebbe stato «il coordinatore», piuttosto che il presidente.

 

Per molti mesi, il Partito Sor ha guidato le proteste contro le bollette elevate e il costo della vita in Moldavia, durante le quali la gente ha chiesto le dimissioni del presidente filoeuropeista Maia Sandu.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Sandu ha accusato la Russia di complottare per rovesciare il suo governo e destabilizzare la situazione in Moldavia. Un anno fa il parlamento di Chisinau ha vietato i media russi e sei canali TV accusati di diffondere disinformazione copertura imprecisa dell’operazione militare russa in Ucraina e «tentativi di manipolare l’opinione pubblica».

 

La decisione della Corte di messa al bando del partito Sor è stata sostenuta all’unanimità dai rappresentanti del Partidul Acțiune și Solidaritate o PAS («Partito europeista di Azione e Solidarietà»), di cui è leader la Sandu, la quale ha affermato che il partito avversario Sor è un potere politico creato «dalla corruzione e per la corruzione» e per questo «minaccia l’ordine costituzionale e la sicurezza dello Stato».

 

Il presidente Sandu è oramai una costante di media occidentali come la TV pubblica americana PBS, che le assegna grandi spazi e grandi lodi come fa con Zelens’kyj, suo vicino di casa che – rammentiamolo bene – pure lui mette al bando i partiti di opposizione, nel silenzio generale delle «democrazie» che lo sostengono con armi e miliardi a costo di far saltare le loro stesse economie impoverendo e disperando il popolo.

 

 

 

 

 

 

 

Immagine di Parlamentul Republicii Moldova via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Public Domain Mark 1.0

 

 

 

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Geopolitica

La Colombia accusa gli Stati Uniti di aver iniziato una «guerra»

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Il presidente colombiano Gustavo Petro ha accusato gli Stati Uniti di cercare di provocare una guerra nei Caraibi usando come pretesto una campagna antidroga, sottolineando che cittadini colombiani sono stati uccisi nei recenti attacchi al largo delle coste del Venezuela.

 

In un post sui social media di mercoledì, Petro ha sostenuto che la campagna non ha come obiettivo il narcotraffico, ma piuttosto il controllo delle risorse della regione. La Casa Bianca ha definito l’accusa «infondata», secondo Reuters.

 

Gli Stati Uniti hanno effettuato attacchi aerei contro presunte imbarcazioni coinvolte nel traffico di droga vicino al Venezuela, descrivendoli come un tentativo di contrastare il traffico di stupefacenti nei Caraibi. Washington accusa da tempo il presidente venezuelano Nicolas Maduro di legami con i cartelli della droga. Maduro ha smentito le accuse, sostenendo che gli attacchi siano parte di un piano per destituirlo.

 

Nelle ultime settimane, gli Stati Uniti hanno distrutto almeno quattro imbarcazioni che, a loro dire, trasportavano stupefacenti al largo delle coste del Venezuela, causando la morte di oltre 20 persone. Come riportato da Renovatio 21, Trump ha definito gli attacchi alle barche della droga come un «atto di gentilezza».

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«Le prove dimostrano che l’ultima imbarcazione bombardata era colombiana, con cittadini colombiani a bordo», ha scritto Petro.

 

Il presidente colombiano ha ribadito che la campagna statunitense non riguarda la lotta alla droga, ma il controllo delle risorse naturali. «Non c’è una guerra contro il contrabbando; c’è una guerra per il petrolio», ha dichiarato, definendo gli attacchi «un’aggressione contro tutta l’America Latina e i Caraibi».

 

Per anni, la Colombia è stata considerata il principale alleato di Washington in Sud America. Attraverso il Plan Colombia, un’iniziativa di aiuti multimiliardaria avviata dagli Stati Uniti nel 2000, i governi colombiani successivi hanno concesso alle forze armate statunitensi l’accesso alle basi locali e hanno appoggiato gli sforzi guidati dagli Stati Uniti per isolare il Venezuela. Questa politica è cambiata con l’elezione di Petro nel 2022, che ha lavorato per ristabilire le relazioni diplomatiche con Caracas e ha promosso una politica estera più indipendente e una maggiore cooperazione regionale.

 

Come riportato da Renovatio 21, la scorsa estate il Petro aveva dichiarato che la Colombia deve interrompere i legami con la NATO perché i leader del blocco atlantico sostengono il genocidio dei palestinesi. Bogotà la settimana scorsa ha espulso tutti i diplomatici israeliani, dopo aver rotto i rapporti con lo Stato Ebraico un anno fa e chiesto alla Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto per Netanyahu.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

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Geopolitica

Svelato il profilo dell’accordo tra Israele e Hamas

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  Il piano di cessate il fuoco per Gaza proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump prevede il ritiro delle forze israeliane da vaste aree dell’enclave palestinese e la liberazione degli ostaggi rimanenti da parte di Hamas entro pochi giorni. Lo riportano varie testate giornalistiche internazionali.   Una fonte egiziana coinvolta nei negoziati ha dichiarato a Sky News Arabia che i mediatori hanno raggiunto un accordo per un «cessate il fuoco completo» e un «ritiro graduale dell’esercito israeliano dal 70% di Gaza».   Nel frattempo, la testata israeliana Ynet ha riportato che le forze israeliane dovrebbero ritirarsi entro 24 ore lungo una linea prestabilita, lasciando a Israele il controllo di circa il 53% dell’enclave. Questo includerebbe il ritiro delle IDF da Gaza City e da diverse altre aree centrali, secondo l’articolo.   L’agenzia Reuters scrive che Hamas rilascerebbe tutti gli ostaggi vivi entro 72 ore dall’approvazione del governo israeliano. In cambio, Israele libererebbe 250 palestinesi condannati all’ergastolo e 1.700 abitanti di Gaza detenuti dal 2023, incluse tutte le donne e i minori. Hamas detiene ancora circa 48 ostaggi, di cui Israele ritiene che circa 20 siano ancora in vita.   Dopo aver annunciato un progresso significativo nei negoziati, Trump ha dichiarato a Fox News che gli ostaggi saranno probabilmente rilasciati lunedì, promettendo che Gaza «sarà ricostruita».   «Gaza… diventerà un posto molto più sicuro… altri Paesi della zona aiuteranno la ricostruzione perché hanno enormi quantità di ricchezza e vogliono che ciò accada», ha affermato Trump, senza specificare quali nazioni siano coinvolte.   Nonostante l’apparente passo avanti, rimangono diverse questioni irrisolte, come la governance di Gaza nel dopoguerra e il destino di Hamas, che Israele ha giurato di eliminare completamente. Il piano di pace originale di Trump prevedeva un ruolo amministrativo limitato per l’Autorità Nazionale Palestinese, che governa parti della Cisgiordania, ma solo dopo significative riforme.

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Immagine di Jaber Jehad Badwan via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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Il Cremlino: i colloqui Russia-USA sull’Ucraina sono in «seria pausa». Nessun incontro Trump-Putin in agenda

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Il dialogo tra Russia e Stati Uniti per risolvere il conflitto in Ucraina si trova in una «seria pausa», ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov.

 

Le sue parole seguono l’affermazione del viceministro degli Esteri Sergey Rjabkov, secondo cui lo slancio generato dal vertice in Alaska tra i presidenti Vladimir Putin e Donald Trump si è esaurito.

 

Giovedì Peskov ha ribadito la posizione di Rjabkov, sottolineando l’assenza di progressi verso una soluzione pacifica del conflitto con Kiev.

 

Le delegazioni russa e ucraina si sono incontrate più volte all’inizio dell’anno. Nell’ultimo incontro a Istanbul a luglio, le parti hanno deciso di creare tre gruppi di lavoro per sviluppare un piano di risoluzione che affronti questioni politiche, militari e umanitarie.

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Tuttavia, Peskov ha dichiarato che «non si sta muovendo nulla», suggerendo che Kiev non sia propensa a perseguire un processo di pace, aggrappandosi a false speranze di poter ribaltare la situazione sul campo di battaglia, una convinzione che ha definito irrealistica.

 

Peskov ha osservato che la posizione di Kiev è sostenuta dai suoi alleati europei. In precedenza, aveva notato che l’Occidente continua a spingere l’Ucraina a rifiutare il dialogo, alimentando una «isteria militarista» che ostacola gli sforzi di pace.

 

Rjabkov ha affermato all’inizio della settimana che i «sostenitori di una “guerra all’ultimo ucraino”, soprattutto tra gli europei», sono responsabili dell’esaurimento del «potente impulso» per trovare una soluzione al conflitto, generato durante il vertice di Anchorage ad agosto.

 

Poco dopo l’incontro tra Trump e Putin, diversi leader dell’UE hanno visitato Washington insieme al presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, cercando di persuadere il presidente americano ad allinearsi alla posizione europea sul conflitto.

 

Mosca ha ribadito la sua disponibilità a un accordo di pace, sottolineando però che qualsiasi intesa dovrà rispettare gli interessi di sicurezza nazionale della Russia e le attuali realtà territoriali sul campo.

 

Attualmente non è previsto un ulteriore incontro tra Putin e Trump, ha dichiarato ai giornalisti Peskov.

 

I due leader si sono incontrati l’ultima volta a metà agosto in Alaska, dove le discussioni si sono concentrate sugli sforzi di Washington per mediare la fine del conflitto in Ucraina. Tuttavia, Peskov ha sottolineato che un nuovo vertice «semplicemente non è all’ordine del giorno in questo momento».

 

Il portavoce del Cremlino ha affermato che il processo diplomatico è in stallo, accusando Kiev di aver abbandonato gli sforzi di pace per perseguire obiettivi militari.

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«Credono che qualcosa potrebbe cambiare in prima linea e che la situazione potrebbe volgere a loro favore», ha dichiarato Peskov, citato dai media russi. «Ma la realtà indica il contrario».

 

Il blocco diplomatico segue un cambiamento nella retorica di Trump, che il mese scorso ha dichiarato che, con sufficienti finanziamenti europei, l’Ucraina potrebbe riconquistare tutti i territori rivendicati, una posizione che Mosca ha definito irrealistica.

 

Zelens’kyj ha rinnovato le richieste per i missili Tomahawk a lungo raggio di fabbricazione statunitense. Putin ha avvertito che la consegna di armi con capacità nucleare rappresenterebbe una «grave escalation».

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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