Connettiti con Renovato 21

Pensiero

Omaggio a Niccolò Ghedini

Pubblicato

il

 

È morto l’avvocato Niccolò Ghedini. Ci dispiace tantissimo, e la cosa strana e che non lo sapevamo.

 

Cioè, non solo non sapevamo che stesse male. Non sapevamo nemmeno che la sua morte potesse toccarci in questo modo.

 

Con Ghedini si chiude un pezzo di storia italiana. Forza Italia è archiviata per sempre. L’era berlusconiana forse non finirà con Berlusconi – quello potrebbe durare per sempre. Finisce con Ghedini: cioè, la lucidità, la disciplina, la serietà.

 

Rivendicava di non andare a teatro, di non intrattenersi nei salotti – soprattutto, anche se non lo diceva, a differenza di altri esponenti di spicco del partito, non finiva in storie sordide di escort. Finito il suo lavoro, cioè difendere Berlusconi, tornava a casa a Padova da moglie e figlio. Tutto vero, certificato. E nemmeno se ne faceva troppo un vanto: era il suo modo di essere, efficace, operativo, il resto è nulla. Un uomo vero, un uomo di altri tempi.

 

Qualcuno di quelli che stanno facendo eulogi a destra e a manca non ha mancato di usare l’aggettivo «freddo».

 

A noi Ghedini sembrava tutto meno che freddo. Ci sembrava brillante, sicuro.

 

Gli rinfacciano la diffusione del termine, crediamo giuridicamente ineccepibile, di «utilizzatore finale». Lui forse pure si scusò, tanto fu il fango sparatogli addosso dai dipendenti di De Benedetti e gli ulteriori minions.

 

Ebbene, a noi invece sembra un’espressione perfetta, strepitosa, attecchisce subito e spiega tutto, altro che «petaloso».

 

«Utilizzatore finale»: per definire uno cui piacciono le donne è sublime. Non lo pensiamo solo noi: più di un decennio fa c’era un sito eccezionale, si chiamava Gnocca Travel (che non so se esista ancora, e ho paura di andare a controllare, perché chissà cosa è diventato, quindi scordatevi che vi cerco il linko). Si trattava di una guida mondiale, città per città,  per appassionati della «materia», scritto da un manipolo di pseudonimi appassionati della «materia» con estremo stile e soluzioni linguistiche esilaranti – nonché profonda cognizione della geografia umana, cioè della geografia femmina, di ogni continente. Piazzarono subito nei loro articoli l’espressione «utilizzatore finale», riconoscendone la paternità all’avvocato.

 

Non si tratta dell’unico «meme» ante-litteram espresso dal Ghedini.

 

Per anni, pure quando YouTube era una cosa non troppo estesa e i social contavano solo qualche avanguardista, tirò il leggendario «ma va là».

 

Crediamo di ricordare che fu pronunziato contro la Bonino durante un dibattito da Santoro. Ci sembra di ricordare che la radicale non ne uscì benissimo, affondata dai «ma va là» che puntellavano l’ineffabile vis oratoria dell’avvocato.

 

È irresistibile, impareggiabile. Ve lo riproponiamo.

 

 

Dopo qualche anno, il tormentone del «ma va là» si spense.

 

Abbiamo fatto in tempo, tuttavia, a vedere lasciata ai posteri questa semplice clip che spiegherà ai posteri la potenza di Ghedini: l’incontro-scontro col Piero Ricca.

 

Il personaggio, figlio e fratello di avvocati esattamente come Ghedini, aveva ottenuto una qualche popolarità in era protogrillina: beccava i politici e altre personalità per strada, e partiva con considerazioni e domande, diciamo così, piuttosto critiche. Nel 2003 (sì, quasi 20 anni fa…) urlò «fatti processare, buffone!» a Silvio Berlusconi che usciva dall’aula del processo SME al Tribunale di Milano. Berlusconi lo denunziò, lui si difese dicendo che aveva in realtà detto «puffone».

 

Dopo aver transitato per i V-Day e il blog di Grillo, non sappiamo che fine abbia fatto nell’ultima dozzina d’anni. Quando ancora il risentimento non era incarnato in un partito con percentuali di voto mostruose, Ricca era, possiamo dire, una figura temuta: le sue videointerviste aggressive attecchivano nella mente dell’elettorato sempre più convinto della totale irrecuperabilità dell’elemento politico italiano.

 

Ebbene, potete guardar qui come dal confronto con Ricca uscì Ghedini.

 

 

Neutralizzato. Di più: lo stesso Ricca deve riconoscere che Ghedini non scappa e risponde a tutto, che probabilmente è un modo per dire «ti rispetto». Ebbene sì: simpatia per l’avvocato del Diavolo. Un fenomeno impressionante, che Ghedini rendeva possibile.

 

Vi basti guardare i commenti degli utenti su YouTube di questo video vecchio 14 anni: anche quelli che chiaramente sarebbero finiti una manciata di anni dopo a votare Grillo si sperticano in lodi per Ghedini, taluni rimpiangono di non aver i danari per avere lui come avvocato.

 

Finora abbiamo un po’ scherzato, in realtà volevamo tentare di dire qualcosa di più serio. Di struggente, financo.

 

Se cerco di capire perché mi ha colpito la morte di Ghedini è perché, automaticamente, trasmetteva una fibra cerebrale, morale, umana, incontrovertibile.

 

Riusciva a stare a fianco di Berlusconi – ossia nell’occhio del ciclone politico, geopolitico, metapolitico italiano del secolo – rimanendo immobile, altero, discreto, perfetto nella sua funzione: spegnere le tempeste. Lo ha fatto, tante volte. Probabilmente più di quante ne riusciamo a ricordare.

 

E perché lo faceva? Per i soldi? Abbiamo appreso dagli articoli di questi giorni che la sua famiglia ha lo studio legale da centinaia di anni. In un’intervista parla di aziende agricole, Travaglio – che nel suo coccodrillo riesce a dargli dello «stronzo» anche post-mortem, senza rendersi conto che era Ghedini che gli concedeva una chiacchierata, e non viceversa (un po’ come quella volta che Berlusconi gli disse di alzarsi dalla sedia e Travaglio obbedì immantinente) – scrive che l’avvocato patavino avrebbe confessato di avere un paio di dogi nell’albero genealogico.

 

No, non gli servivano i soldi: anche perché, non abbiamo idea di quanti ne servano per accettare la quantità di roba oscura che ti lanciano addosso se sei di fianco al babau politico del secolo.

 

Tutti, nei ricordi di queste ore, ricordano un’altra motivazione: i due si volevano bene. Proprio così: Berlusconi non faceva mistero del suo affetto per Ghedini; Ghedini ribadì più volte che si accollava l’immane lavoro di difesa del Silvio perché gli voleva bene.

 

Crediamo loro. Perché con Berlusconi, pensatene quel che volete, è così: il sentimento, la parola data, la generosità, i rapporti umani all’antica. Abbiamo visto che è stato così, tra gratitudine e vera simpatia umana con tutti: da Mike Bongiorno a Lele Mora, dall’ultima ballerina a Emilio Fede, da Iva Zanicchi a Vladimir Putin.

 

L’amicizia, il rispetto, accada quel che accade, non si cambia – non si vende. È forse uno dei motivi per cui le élite globali hanno odiato così profondamente Berlusconi. Ora odiano Trump, e gli americani hanno trovato una parola per definire il veleno dell’odio sparso sulla popolazione con un termine, che non non abbiamo trovato, Trump Derangement Syndrome, «sindrome da disturbo di Trump».

 

Da quest’ultimo pensiero consegue che, trovata necrologicamente una madeleine che li conduce all’estatico ricordo degli anni 2000, quando Berlusconi lo si odiava in massa con impegno e voluttà, tutti coloro che stanno insultando la memoria di Ghedini sono tecnicamente persone malate.

 

Sono persone malate fuori tempo massimo, sono pazienti tristemente recrudescenti: sono malati mai veramente guariti, sono falsi asintomatici.

 

Soprattutto, ed è il pensiero che abbiamo fatto, sono creature larvali che mai nella vita avrebbero potuto reggere al confronto de visu con Ghedini. Non solo per la quantità di cose realizzate dall’avvocato, ma proprio, come abbiamo visto, perché nessuna aggressività, nessuna convinzione giacobina reggeva più di tanto se ce lo avevi davanti.

 

Immaginatevi il modello umano di cui parliamo: peloso, flaccido, bilioso, senza una vera padronanza di nulla se non dell’opinione da bar, ora trasferita su Twitter.

 

Poi dipingetevi nella mente Ghedini: dritto, retto, lucido, estremamente capace, padrone della situazione al punto che, anche quando veniva aggredito, pareva che sapesse già cosa stava succedendo e come sarebbe finita – il tutto senza mai perdere equilibrio.

 

Quelli che lo insultano, e virtualmente già sputazzano sulla sua tomba dal maniero fatto di anonimato più tastiera, immaginiamo siano gli stessi parassiti parastatali di sempre, quelli che hanno votato PCI, PDS, DS, PD, poi magari M5S, a breve con probabilità torneranno a votare PD. Ominidi che mai e poi mai possono vantare, più che il curriculum impressionante del Niccolò, la fibra morale di chi, con sacrificio non indifferente difende un amico – l’uomo più perseguitato della Repubblica – perché gli vuole bene.

 

E che continua a farlo perché, cosa ancora più importante forse, è la cosa da fare, è il tuo lavoro, che esegui al meglio del tuo essere. Stai lì e lo fai: con il sacrificio, con la bravura, con la competenza, con te stesso. E se ce la fai, con la pace interiore. Fino alla fine, fino a che hai tempo, fino a che hai respiro.

 

A Dio avvocato.

 

Noi non dimentichiamo uomini come Lei. Lottiamo per un Paese che, pulitosi delle larve elettroniche, torni a produrre, nutrire e celebrare figure come la Sua.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine di Senato Italiano via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0); immagine modificata.

 

 

 

 

Continua a leggere

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

Pubblicato

il

Da

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

Sostieni Renovatio 21

Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

Aiuta Renovatio 21

La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

Continua a leggere

Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

Pubblicato

il

Da

Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

Sostieni Renovatio 21

Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

Aiuta Renovatio 21

L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
Continua a leggere

Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Pubblicato

il

Da

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

Sostieni Renovatio 21

«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

Aiuta Renovatio 21

L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

Continua a leggere

Più popolari