Pensiero
Carramba che vaccino. Carramba che menzogne.

Quando è spirata lo hanno detto subito: era malata, e da tempo. 48 ore dopo hanno fatto uscire la dichiarazione di un medico: «tumore ai polmoni».
Nel frattempo, qualcuno in rete ha tirato fuori un festival del cortometraggio all’Argentario (luogo cui era legata) dove avrebbe dovuto partecipare in veste di madrina. Era programmato per fine luglio, possibile che avesse assentito a questo impegno nonostante la malattia? Magari, come è parso a qualcuno, non doveva partecipare fisicamente, ma solo metterci il nome, visto che aveva indetto un premio di 4 mila euro per il corto con l’idea più originale (per inciso: la notizia per cui i festival del cortometraggio esistono ancora è forse la più tremenda che abbiamo ricevuto in questo biennio pandemico).
Quindi, si è vaccinata mentre già stava male? Mentre era in terapia? Il cancro è subentrato poi – senza alcuna correlazione, beninteso – dopo il vaccino? Non lo sappiamo
Sarà. Il fatto è che le sue dichiarazioni pro-vaccino, secondo le quali bisognava vaccinarsi per tornare alla libertà, sono rimaste. Quindi, si è vaccinata mentre già stava male? Mentre era in terapia? Il cancro è subentrato poi – senza alcuna correlazione, beninteso – dopo il vaccino? Non lo sappiamo. Del resto c’è la privacy (no? non vi sembra?) e poi non fecero l’autopsia nemmeno di Papa Luciani, figurarsi se si deve indagare sul corpo della papessa della RAI.
Niente, riguardo a questa storia della Carrà è rilevante, in fondo. Perché l’unica cosa che possiamo imparare è qualcosa che già sapevamo: la gente non crede più a nulla. Per lo meno, una parte cospicua della popolazione non ripone alcuna fiducia in quello che le è raccontato da media, autorità, istituzioni – e perfino dalle celebrità, un tempo famose per la trasgressione che si potevano pure concedere, ora rese funzionarie di continue esortazioni al conformismo più trito (pensate a tutti quei cantanti italiani, oramai rugosi e asserviti al potere, bolsi e covidioti).
Lo stanno notando negli USA ultimamente per un altro ciuffo ossigenato, certo portatore di ben altra autenticità rispetto alla Raffaella nazionale: i supporter di Trump non considerano nemmeno più le narrazioni ufficiali sul coronavirus, sulle elezioni americane, su tutto ciò che viene fatto (di recente, le accuse giudiziarie al «cassiere» della ditta Trump Allen Weissenberg, adesso si dice che la prossima ad essere arrestata sarà Ivanka) intorno all’ex presidente che hanno votato in massa. Secondo un ultimo sondaggio, ora addirittura la maggioranza degli americani crede che il COVID sia uscito dal laboratorio; non più tardi di qualche giorno fa, tuttavia, il New York Times piazzava un articolone in cui vari scienziati ripetono che è molto più probabile che il virus sia venuto da una specie animale intermedia tra uomo e pipistrello, specie che come noto non è stata ancora trovata, ma pazienza (in verità Renovatio 21 è in grado di dirvi nome e cognome della creatura link tra umani e chirotteri, si chiama Shi Zhengli, la virologa wuhaniana chiamata appunto «Batwoman»)
Nessun giornalista si pone due domande due sulla malattia e sul vaccino, e sulla loro possibile concomitanza? Magari anche solo per esprimere la domanda posta poco sopra, sulla quale ci sembrerebbe importante informare la gente: come ci comportiamo con il vaccino nel caso di malati di tumore?
Tra queste due parti della popolazione, quella che si beve tutte le frottole contraddittorie e quella che invece è (per dirla in gergo) redpillata – cioè si è svegliata – non c’è nessuna soluzione di continuità, nessuna sfumatura possibile. Questa è la grande novità: la polarizzazione tra i componenti è assoluta. Non esiste il grigio, così come non esistono signore che sono «un po’ incinta».
Anche in Italia, una parte consistente della popolazione non crede più a niente di quello che le viene detto. Per il potere costituito ciò è devastante: significa che esso non ha i comandi a disposizione, di fatto ha perso la sovranità su una fetta della popolazione. Una secessione cognitiva de facto. Riguardatevi le immagini delle migliaia di persone, di totale varietà di censo e di età e di cultura, che si ritrovavano alla celeberrima Torteria di Chivasso. Guardatevi i servizi alla TV, per esempio quello delle Iene, con l’inviato con la erre moscia che canzona i manifestanti, senza riuscire a contenersi e non trattenersi dallo spiegare alle migliaia di persone che sono tutte fake news e che Bill Gates non è il diavolo, dai.
Nel caso di Raffaella Carrà le proporzioni sono aumentate. Per chi ha anche solo il lontano dubbio che si possa essere trattato di uno dei tanti eventi avversi del vaccino, ogni dettaglio è sospetto. La menzogna del potere può nascondersi dietro ogni comunicazione che ci arriva su storie di questa portata propagandistica.
Nessun giornalista si pone due domande due sulla malattia e sul vaccino, e sulla loro possibile concomitanza? Magari anche solo per esprimere la domanda posta poco sopra, sulla quale ci sembrerebbe importante informare la gente: come ci comportiamo con il vaccino nel caso di malati di tumore?.
«Morirò senza saperlo. Sulla mia tomba lascerò scritto: “Perché sono piaciuta tanto ai gay?”» aveva detto all’epoca. Ci pare anche questa una piccola bugia. Davvero nessuno le ha detto come mai gli omosessuali siano attratti pazzamente da queste figure di donne di femminilità disinibita, eccessiva?
Le fanno una specie di funerale di Stato all’Ara Coeli, trasmesso in TV. Ma era cattolica l’inventrice del Tuca Tuca, con cui a Canzonissima scandalizzò la RAI democristiana del 1971? Nonostante la vita personale che aveva condotto (compagna di Boncompagni, ragazza di Little Tony e di antichi calciatori a caso; nullipara, ma ci tengono a farci sapere che adottava a distanza) ora insistono che lo era, anzi, aspettate un attimo, ecco qua, era devota di Padre Pio. Carramba che sorpresa.
Eccerto. I giornalisti devono esserselo ricordato anche quando nel 2017 la Carrà divenne madrina del World Gay Pride a Madrid. «Morirò senza saperlo. Sulla mia tomba lascerò scritto: “Perché sono piaciuta tanto ai gay?”» aveva detto all’epoca. Ci pare anche questa una piccola bugia. Davvero nessuno le ha detto come mai gli omosessuali siano attratti pazzamente da queste figure di donne di femminilità disinibita, eccessiva? Di quelle donne, non belle ma coriacee e di femminilità caricaturalmente estrovertita? Delle varie Mina, Dalida, Madonna, Lady Gaga etc.? Davvero non è mai riuscita a darsi una risposta, come invece riescono a farlo milioni di persone che non presiedono alle marce mondiali dei gay?
Davvero dovremmo credere alla balla per cui la Carrà non ha mai capito perché era un’icona gay? O forse non possiamo dirlo perché poi dovremmo capire perché alcuni omosessuali – ad esempio, la sottocategoria chiamata dei bears, gli orsi – hanno come modello erotico un uomo grosso e barbuto, del genere Babbo Natale (per chi non ci è ancora arrivato, la regia manda un aiutino: ha a che fare, in ambo i casi, con qualcosa che non ha trovato equilibrio in famiglia, ma solo a nominare teorie freudiane come queste, ora radiano psicologi e domani si andrà in galera e in rieducazione).
Il blob democristiano alla fine aveva metabolizzato anche la finta bionda con l’ombelico di fuori. Anzi: era la Raffaella ad aver capito che l’Italia della DC era solo una massa informe, che si poteva plasmare con il tempo e la persistenza. Vinse lei: del resto, ai Gay pride ora non solo ci vanno i residui della DC, ma pure spezzoni consistenti del clero cattolico.
E in fatto di gay e di menzogne, come non ricordare, mentre si approssima l’ora zero del DDL Zan, che emergono perfino sui giornali mainstream le balle che di continuo provano a propinarci sull’argomento? L’ultima è quello del ragazzino calabrese suicida, che subito avevano detto vittima di bullismo «omofobo» (per cui «subito il DDL Zan») e ora invece vien fuori che potrebbe essere stato travolto da un giro di ricatti e prostituzione minorile. Facciamo notare che «prostituzione minorile» in teoria può significare «pedofilia», almeno penalmente: ma la parola il giornalista evita di usarla.
E ancora: a Verona il caso di scritte «omofobe» contro una coppia omosessuale che «per la procura sono state scritte dai due».
A Padova, il caso del presunto agguato «omofobo» che finisce nel nulla: tutti condannati per rissa, anche la coppia gaia.
Quante altre balle, tra virus e perversioni globali, dobbiamo sentire?
Riformuliamo: quante altre menzogne pensano di poter rifilare alla popolazione prima che questa prenda coscienza in maggioranza dell’agenda in corso, e della totale illegittimità di un potere che mente?
Aveva capito, probabilmente con decenni di anticipo, dove sarebbe andato a finire il mondo, e ne seppe approfittare benissimo: da regina della TV a imperatrice dei gay – sulla soglia deli 80 anni
Torniamo alla Carrà. Un grande mistero per noi, che l’abbiamo sempre trovata fastidiosa: strapagata, prepotente, dotata di nessun talento particolarmente rilevante, se non quello, che hanno certe donne, di piazzarsi al centro della scena (anche senza meriti) e di fregarsene altamente di quello che dicono o che vogliono gli altri. Malignarono, quando le fecero presentare uno dei Sanremo, sul fatto che lei, a differenza dei suoi colleghi degli anni precedenti, alla sera non guardava i dati dell’audience: qualcosa che se fosse vero ce la renderebbe più simpatica. Qualcuno ricorda (ma al momento non troviamo riscontro) che sul suo compenso immane ci fu pure un’interrogazione parlamentare. Ma che importa? Non ebbe problemi ad avere ospite del suo divano TV Andreotti: il blob democristiano alla fine aveva metabolizzato anche la finta bionda con l’ombelico di fuori.
Anzi: era la Raffaella ad aver capito che l’Italia della DC era solo una massa informe, che si poteva plasmare con il tempo e la persistenza. Vinse lei: del resto, ai Gay pride ora non solo ci vanno i residui della DC, ma pure spezzoni consistenti del clero cattolico.
Aveva capito, probabilmente con decenni di anticipo, dove sarebbe andato a finire il mondo, e ne seppe approfittare benissimo: da regina della TV a imperatrice dei gay – sulla soglia deli 80 anni.
Ferire la Carrà è ferire qualcosa che larga parte del Paese considera come un bene prezioso, un’archetipo vitalista presente nella psiche della stragrande maggioranza dei cittadini italiani
Immaginate, quindi, l’importanza di eliminare ogni possibile dubbio su un evento avverso da vaccino. Milva, morta anche lei poche settimane fa ad un mese dall’iniezione di mRNA, era un’altra cosa. La Pantera di Goro era sedentaria, allineata con la sua età: invece la Carrà incarnava un’energia inesausta (anche dopo i 60, 70, 80 – anzi anche quando a quaranta o cinquanta ballava facendo rimbalzare il caschetto ci pareva grottesca), e poteva inquadrarsi come una sorta di cercatrice dell’immortalità divistica – in questo senso crediamo che non avere figli, ed avere attorno a se un culto omosessuale totale, aiuti. Pensateci: avete mai pensato alla Carrà come ad una donna vecchia? Avete mai solo concepito l’idea che la Carrà potesse invecchiare?
Quindi, ferire la Carrà è ferire qualcosa che larga parte del Paese considera come un bene prezioso, un’archetipo vitalista presente nella psiche della stragrande maggioranza dei cittadini italiani.
E poi, ricordiamolo: la Carrà era un personaggio transnazionale. Era finita intervistata perfino dal talk show americano più importante, quello di David Letterman. Tuttavia era in Ispagna che la donna godeva di una fama immane, pari forse a quella di cui godeva in Italia.
Insomma, qualsiasi idea di correlazione con il vaccino nella morte della Carrà avrebbe fatto scattare l’effetto Tiffany Dover. È un momento delicato, non è possibile che ci muoiano i testimonial, non in diretta TV, non se hanno questa importanza psicologica per la massa.
Quante altre menzogne pensano di poter rifilare alla popolazione prima che questa prenda coscienza in maggioranza dell’agenda in corso, e della totale illegittimità di un potere che mente?
Quindi, niente carramba per il vaccino.
Per il resto, siamo travolti dalla carramba delle menzogne propinateci oramai ad ogni minuto. Non sappiamo ancora per quanto. Non lo sanno neanche loro, che stanno forzando la mano.
Soprattutto, nessuno sa quando la pazienza finirà del tutto.
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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