Bioetica
Vaccinazione di massa, ripassiamo la storia della Polio

Primavera 1955, due addetti stampa salutarono una folla di giornalisti in una elegante sala nel campus dell’Università del Michigan.
Gli ufficiali avevano una notizia bollente: la sperimentazione clinica del tanto atteso vaccino contro la poliomielite aveva dimostrato che era sicuro ed efficace. I giornalisti corsero a spargere la voce: lo avrete visto nei film, il rush verso le cabine telefoniche per dettare un articolo alla redazione.
Le campane della chiesa suonarono a festa, scrive il New York Times, la gente si riversò in strada felice.
Quanta fiducia vi dà il vaccino che troveranno in fretta e furia? Quanta fiducia bisogna avere delle campagne di vaccinazione dello Stato? Quale idea dobbiamo farci dei danni a lungo termine sconosciuti dagli stessi scienziati vaccinali?
Questo evento probabilmente è la matrice dell’atteggiamento delle istituzioni mondiali sull’emergenza Coronavirus: come ha detto il controverso, inevitabile dottor Fauci, «la svolta finale in tutto questo sarà il vaccino».
Secondo Goldman Sachs e altri, oramai le aziende biofarmaceutiche che si sono lanciate alla cerca del vaccino definitivo per il C-19 sono più di un centinaio, e non si fanno più scrupoli – con buona pace di chi parla di bioetica etc. – a testarli direttamente su esseri umani, e ad usare tecnologie genetiche e virali mai approvate prima d’ora – Renovatio 21 su questo ha pubblicato un articolo poche ore fa.
È bene quindi ricordarsi della storia della vaccinazione contro la Polio.
Il primo vaccino ritenuto «efficace» contro la poliomielite è arrivato dopo decenni di ricerche e test
Il primo vaccino ritenuto «efficace» contro la poliomieliteè arrivato dopo decenni di ricerche e test. Una volta completamente testato, è stato approvato in USA con velocità record. Poi seguirono problemi di distribuzione. Lotte politiche.
Infine comparsero «problemi di produzione potenzialmente letali», cioè gente che muore per il vaccino. Segue anche la questione, mai risolta, del Simian Virus 40, un virus di scimmia contenuto nel vaccino. Secondo alcuni, l’SV40 sarebbe cancerogeno, e la sua immane diffusione grazie al vaccino potrebbe essere una delle basi dell’epidemia di tumori che l’umanità sta affrontando negli ultimi decenni.
Anni ’50, vaccino antipolio: comparsero «problemi di produzione potenzialmente letali», cioè gente che muore per il vaccino
La prima epidemia di polio negli Stati Uniti colpì il Vermont nel 1894, uccidendo 18 persone e lasciandone paralizzate permanentemente 58. Un focolaio di New York City uccise più di 100 persone nel 1907. Nel 1916, la polio tornò e ne uccise 6.000. La malattia colpiva principalmente i bambini. Poteva uccidere fino al 25 percento dei colpiti e lasciarne molti paralizzati, consegnandone alcuni ad una vita in un polmone di ferro.
Gli scienziati sapevano che la polio era causata da un virus ma non avevano idea di come si diffondesse. Ci fu il lockdown. Cinema, piscine, parchi di divertimento, campi estivi, fiere e festival, tutto chiuso: i genitori si limitavano a tenere i bimbi vicino a casa. Coloro che potevano permettersi di farlo fuggirono nel paese. Tra i primi tre vaccini contro la polio sviluppati negli anni ’30, due si sono rivelati inefficaci, un altro mortale.
Negli anni ’30 in USA vi fu il lockdown. Cinema, piscine, parchi di divertimento, campi estivi, fiere e festival, tutto chiuso: i genitori si limitavano a tenere i bimbi vicino a casa
Nell’aprile del 1954, il vaccino sviluppato dal laboratorio di Jonas Salk presso l’Università di Pittsburgh entrò in un ampio studio clinico di durata annuale. Quel giorno del 1955 gli addetti condivisero i risultati: il vaccino, contenente il virus della polio inattivato, era, dicevano, sicuro. Era anche efficace dall’80% al 90% nella prevenzione della poliomielite, sostenevano.
Il governo federale autorizzò il vaccino entro poche ore. I produttori si affrettarono a produrre. Una fondazione promise di acquistare i primi lotti per 9 milioni di dollarie di fornirli alle prime e alle seconde elementari dell’intera Nazione. Iniziò una campagna nazionale.
Meno di un mese dopo, lo sforzo si interruppe. I funzionari riferirono di sei casi di poliomielite collegati a un vaccino prodotto da Cutter Laboratories a Berkeley, in California. Il chirurgo generale degli Stati Uniti (il portavoce delle questioni di salute pubblica all’interno del governo federale) chiese a Cutter di richiamare i suoi lotti.
Il governo federale autorizzò il vaccino entro poche ore. Iniziò una campagna nazionale
Il National Institutes of Health domandò a tutti i produttori di sospendere la produzione fino a quando non avverso trovato nuovi standard di sicurezza. Gli investigatori federali scoprirono che Cutter non era riuscito a uccidere completamente il virus in alcuni lotti di vaccini. I vaccini difettosi causarono oltre 200 casi di poliomielite e 11 morti.
Il programma del vaccino si riprese parzialmente due mesi dopo, ma seuì ulteriore caos. Con il vaccino che scarseggiava, si diffusero voci di mercati neri e medici senza scrupoli che facevano pagare commissioni esorbitanti. Un produttore di vaccini pianificò di vaccinare prima i figli dei propri dipendenti, quindi inviò una lettera agli azionisti promettendo anche ai loro figli e ai loro nipoti un accesso prioritario.
Gli investigatori federali scoprirono non si era riusciti a uccidere completamente il virus in alcuni lotti di vaccini. I vaccini difettosi causarono oltre 200 casi di poliomielite e 11 morti
I politici proposero una distribuzione più equa, alcuni si spinsero a dire che bisognava vaccinare specialmente i bisognosi, vi fu bagarre alla Camera. La legge sull’assistenza alla vaccinazione contro la poliomielite, con una dotazione di 30 milioni di dollari, fu firmata dal presidente Dwight Eisenhower ad agosto: ogni Stato americano avrebbe deciso per sé.
Nonostante la campagna per la vaccinazione di Stato, due anni dopo, nel 1958, i casi risalirono. Casi di poliomielite raggruppati in aree urbane, in gran parte tra i poveri di colore con accesso limitato alla Sanitù. Il «modello di poliomielite» degli Stati, ha osservato l’epidemiologo del governo, divenne «abbastanza diverso da quello generalmente visto in passato». No i virologi di Stato che vanno a farfalle non sono una novità, tuttavia almeno un tempo ammettevano di sbagliare.
Nonostante la campagna per la vaccinazione di Stato, due anni dopo, nel 1958, i casi risalirono
Tre anni dopo, il governo federale approvò un vaccino orale contro la poliomielite, sviluppato dal laboratorio di Albert Sabin a Cincinnati, che conteneva il virus indebolito, e non il virus inattivato.
Il virus sembrò sparire. Gli USA dissero che l’ultima trasmissione in loro territorio si registrò nel 1979. Nel 1994 gli americani si dichiararono polio-free. Nel 2002 anche l’Unione Europa dichiarò di aver vinto contro il virus.
Nel 1988 vi fu uno «sforzo globale» per sradicare la polio chiamato Global Polio Eradication Initiative (GPEI), una colossane operazione sanitaria transnazionale guidata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), dall’UNICEF, e dalla Fondazione Rotary
Nel 1988 vi fu uno «sforzo globale» per sradicare la polio chiamato Global Polio Eradication Initiative (GPEI), una colossane operazione sanitaria transnazionale guidata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), dall’UNICEF, e dalla Fondazione Rotary. Esso si basava in gran parte sul vaccino orale contro la polio sviluppato da Albert Sabin e Mikhail Chumakov (il cosiddetto vaccino Sabin-Chumakov). Dissero che erano rimasti in pratica solo tre Paesi con casi di Polio: Pakistan, Afghanistan e Nigeria .
In Pakistan alcuni leader religiosi musulmani ritengono che i vaccini vengano segretamente utilizzati per la sterilizzazione dei musulmani, e il fatto che la CIA abbia organizzato un falso programma di vaccinazione nel 2011 per aiutare a trovare Osama Bin Laden certo non aiuta l’instaurarsi della fiducia.
Il vaccino antipolio continua a far parlare di sé anche per ragioni intrinseche: nuovi casi di poliomielite legati al vaccino orale sono stati segnalati in quattro paesi africani e diversi bambini sono ora paralizzati dai virus derivati dal vaccino
Nel 2015 l’OMS ha annunciato un accordo con i talebani per incoraggiarli a distribuire il vaccino antipolio nelle aree che controllano. Tuttavia, i talebani pakistani non sono così favorevoli. L’11 settembre 2016, due uomini armati non identificati associati ai talebani pakistani, Jamaat-ul-Ahrar, hanno sparato a Zakaullah Khan, un medico che stava somministrando vaccini contro la poliomielite in Pakistan. Il leader del Jamaat-ul-Ahrar ha rivendicato la responsabilità delle riprese e afferma che il gruppo continuerà a continuare a fare questo tipo di attacchi.
Altri attacchi di talebani no-vax, come piacerebbe descriverli ai media, si sono ripetuti anche di recente. E non solo in Asia: all’inizio 2013 nel nord della Nigeria almeno nove operatori di vaccinazione anti-polio sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco da uomini armati che hanno attaccato due cliniche.
Il rapporto di valutazione del programma di lotta alla polio rilevava che «la strategia sta già fallendo gravemente sull’obiettivo di ridurre e infine eliminare i poliovirus derivati dal vaccino» e affermava che erano necessarie nuove strategie per affrontare questa epidemia di poliomielite
Tuttavia il vaccino continua a far parlare di sé anche per ragioni intrinseche: nuovi casi di poliomielite legati al vaccino orale sono stati segnalati in quattro paesi africani e diversi bambini sono ora paralizzati dai virus derivati dal vaccino, secondo i numeri forniti dall’OMS.
Un rapporto pubblicato all’inizio di novembre 2019 dall’Independent Monitoring Board, che valuta in modo indipendente il lavoro del GPEI e i progressi verso l’eradicazione della polio, affermava che il virus derivato dal vaccino stava causando un focolaio incontrollato nell’Africa occidentale. Il rapporto rilevava che «la strategia sta già fallendo gravemente sull’obiettivo di ridurre e infine eliminare i poliovirus derivati dal vaccino» e affermava che erano necessarie nuove strategie per affrontare questa epidemia di poliomielite.
Tuttavia l’epidemia di polio derivata da vaccino è risalente e ben conosciuta dalle autorità anche italiane: nel maggio 2018 circolò il documento «CIRCOLAZIONE DI POLIOVIRUS DI DERIVAZIONE VACCINALE – CORNO D’AFRICA» che avvisava che «In Somalia è stata confermata la circolazione di poliovirus tipo 3 di derivazione vaccinale (cVDPV3)».
È più controverso il caso dell’SV40. Controverso ed esiziale, con in gioco numeri massivi di vite umane
Gli effetti nel tempo del vaccino antipolio non riguardano solo lo scoppio di epidemie che derivano dallo stesso vaccino. È più controverso – e meriterebbe articoli, libri a parte – il caso dell’SV40. Controverso ed esiziale, con in gioco numeri massivi di vite umane.
L’SV40 (detto «virus vacuolizzante della scimmia») è un virus dormiente ed è asintomatico nelle scimmie rhesus. Esso fu osservato la prima volta nel 960 in una coltura di cellule renali di Macaco mulatto. Si trattava di quelle cellule che venivano utilizzate per ottenere il vaccino della poliomielite.
L’SV40 (detto «virus vacuolizzante della scimmia») è un virus dormiente ed è asintomatico nelle scimmie rhesus, le cui cellule che venivano utilizzate per ottenere il vaccino della poliomielite.
Con la vaccinazione, in pratica, si infettarono con l’SV40 milioni – qualcuno dice, considerando i possibili dati non pervenuti dal blocco comunista – miliardi di persone. La scoperta dell’SV40 ha rivelato che tra il 1955 e il 1963 esso è stato inoculato a circa il 90% dei bambini e il 60% degli adulti negli Stati Uniti tramite il vaccino.
Scrive l’Enciclopedia Treccani: «È tuttora (2009) controverso il ruolo del SV40 nell’insorgenza di alcuni tumori umani (mesoteliomi, osteosarcomi)». «Controverso» significa che esistono molti studiosi che ne asseriscono la carcinogenicità. L’idea è quella che l’SV40 agisca sul soppressore tumorale, il quale p53 è responsabile dell’inizio della morte cellulare regolata – la cosiddetta «apoptosi» – o dell’arresto del ciclo cellulare quando una cellula è danneggiata. Un gene mutato p53 può contribuire alla proliferazione cellulare incontrollata, portando ad un tumore.
L’SV40 tra il 1955 e il 1963 è stato inoculato a circa il 90% dei bambini e il 60% degli adulti negli Stati Uniti tramite il vaccino
La vaccinazione della polio, quindi, potrebbe essere alla base di una immensa pandemia di tumori che ancora oggi viviamo, e contro la quale non abbiamo una vera cura?
Pensatela come volete. Tuttavia, provate a fare con noi questo giochino: rileggete quanto scritto sopra, sostituendo la Polio con il COVID-19.
«È tuttora (2009) controverso il ruolo del SV40 nell’insorgenza di alcuni tumori umani (mesoteliomi, osteosarcomi)»
Quanta fiducia vi dà il vaccino che troveranno in fretta e furia?
Quanta fiducia bisogna avere delle campagne di vaccinazione dello Stato?
La vaccinazione della polio, quindi, potrebbe essere alla base di una immensa pandemia di tumori che ancora oggi viviamo, e contro la quale non abbiamo una vera cura?
Quale idea dobbiamo farci dei danni a lungo termine sconosciuti dagli stessi scienziati vaccinali?
Qualcuno, oggi, vuole accusarci perché ci poniamo queste domande?
Bioetica
Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità

Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.
Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.
Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.
In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.
La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.
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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.
Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.
I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.
Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.
Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.
Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente. Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.
A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.
In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.
La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».
Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali.
Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.
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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.
Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.
La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.
Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?
Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano.
Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.
Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?
Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.
Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?
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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!
Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.
Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).
Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.
Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi.
Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.
In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.
Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.
Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.
Ma quali sono questi test? In cosa consistono?
Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.
Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.
È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).
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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.
L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.
Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.
Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco)
Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.
È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…
Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?
Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.
C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.
Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?
C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.
È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.
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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?
Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.
Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.
Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:
- presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
- presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
- attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.
Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.
Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.
È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).
Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).
È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.
Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.
La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.
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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.
In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.
In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).
In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.
C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.
In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.
Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».
Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.
E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.
A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:
«Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».
«Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»
È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.
Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.
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Non è dunque così improbabile che si arrivi a rendere obbligatoria la donazione degli organi. La cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano, in un’intervista pubblicata lo scorso febbraio dal Corriere della Sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.
Secondo la Frigerio, l’elevata percentuale di opposizioni ai trapianti limita pesantemente la possibilità di salvare delle vite ed è «per questo che la donazione potrebbe diventare un obbligo».
Per concludere, vorrei accennare ad un aspetto poco conosciuto che riguarda l’aspettativa e la qualità di vita dei trapiantati.
L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali.
Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, alcuni dei quali potenzialmente letali.
Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.
Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori, le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari.
Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50% dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo.
Questo breve e niente affatto esaustivo elenco di problemi a cui vanno incontro i trapiantati ci fa comprendere meglio come la «medicina» dei trapianti, pur presentandosi come una vittoria della scienza, in realtà trasformi il malato in un paziente cronicizzato, dipendente a vita dai farmaci e costretto a sottoporsi a frequenti screening clinici, quindi inserito in una filiera che alimenta enormi interessi economici.
Questo non significa negare la sofferenza di chi è malato e ripone le sue speranze nel ricevere un organo, ma ci invita a guardare più in profondità: quando la vita viene piegata alle logiche di mercato e ridotta a un mezzo, essa perde il suo valore autentico. Ed è proprio qui che si gioca la posta più alta: riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, che non è mai un insieme di funzioni biologiche, ma una persona unica, creata a immagine e somiglianza di Dio.
Ho concluso, grazie a tutti voi per l’attenzione.
Alfredo De Matteo
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Ambiente
Studi sui metodi per testare le sostanze chimiche della pillola abortiva nelle riserve idriche

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Bioetica
Aborto, il governo spagnuolo chiede la lista degli obiettori di coscienza

La Spagna ha richiesto la creazione di registri per i medici che rifiutano di praticare aborti, suscitando proteste da parte dei professionisti pro-life, che considerano la misura un tentativo di stilare una «lista nera».
Il primo ministro Pedro Sánchez ha recentemente scritto ai presidenti delle regioni a guida conservatrice, invitandoli a «istituire un registro degli obiettori di coscienza all’aborto», come riportato da OSV News.
Questa iniziativa segue una legge che obbliga tutti gli ospedali pubblici spagnuoli a effettuare aborti, con l’obiettivo di migliorare l’accesso alla procedura nelle aree dove è difficile trovare medici disponibili a praticarla.
Ad esempio, nella regione di La Rioja, a lungo governata dai conservatori, la maggior parte dei medici degli ospedali pubblici si è rifiutata di eseguire aborti per obiezione di coscienza. «Il problema era che tutto il personale sanitario si opponeva agli aborti, anche nelle cliniche private», ha dichiarato a Euronews nel 2023 Izaskun Fernández Núñez, presidente del gruppo Donne Progressiste di La Rioja.
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In Castiglia e León, cinque delle nove province «non avevano registrato un solo aborto dal 2010» fino al rapporto del 2023. «Le donne non potevano accedere all’aborto nella loro provincia, nemmeno pagando o rivolgendosi a cliniche private», ha spiegato Nina Infante Castrillo, vicepresidente del Forum femminista di Castiglia e León.
Questi dati hanno spinto il governo a imporre l’obbligo di registrazione degli obiettori di coscienza in tutte le comunità autonome, con una scadenza di tre mesi. Sánchez ha avvertito che, in caso di mancata compilazione dei registri, «saranno attivati i meccanismi legali per garantire il rispetto della norma». «Il rispetto della coscienza dei professionisti sanitari non deve mai ostacolare l’assistenza sanitaria delle donne» ha aggiunto.
I difensori dell’obiezione di coscienza hanno definito la misura incostituzionale e una «lista nera». «Qualunque cosa dica il primo ministro, l’obiezione di coscienza è un diritto costituzionale. Chi può obbligare i cittadini a registrarsi in un elenco non richiesto nemmeno dalla Corte Costituzionale? Si tratta solo di espedienti», ha dichiarato José Antonio Díez, coordinatore generale dell’Associazione Nazionale per la Difesa del Diritto all’Obiezione di Coscienza (ANDOC), alla testata cattolica Alpha y Omega.
«Perché non creare un elenco di medici disposti a praticare aborti ed eutanasia, che sarebbe più pratico? Questi registri di obiettori sono liste nere per escludere professionalmente i medici che esercitano il loro diritto», ha aggiunto Eva Martín, presidente di ANDOC, citata da Alpha y Omega.
Secondo i dati del ministero della Salute, in Ispagna i tassi di aborto sono in aumento, avvicinandosi al picco del 2011. Nel 2023 sono stati registrati 103.097 aborti, con un incremento del 4,8% rispetto al 2022 e dell’8,7% rispetto al 2014.
L’aborto è legale in Spagna, con alcune restrizioni, dal 1985, e il numero di procedure è più che raddoppiato, passando da 54.000 nel 1998 a 112.000 nel 2007. Nel 2010, il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero ha ulteriormente liberalizzato la legge, consentendo l’aborto fino alla 14ª settimana di gravidanza, con estensioni fino alla 22ª settimana in caso di rischi per la salute della madre o di «gravi disabilità» del feto.
In Italia la situazione non è dissimile, con continui tentativi, compresi quelli dei sindacati lontani oramai anni luce dalla questione dei lavorativi, di limitare o cancellare l’obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza, ritiene Renovatio 21, costituisce un compromesso non accettabile: chi «obietta» lascia tranquillamente che i bambini vengano trucidati dai colleghi nella stanza accanto, e quindi non si capisce esattamente in cosa credano gli «obiettori». Se pensano davvero che l’aborto sia omicidio, come possono vivere e lavorare tranquillamente in quegli spazi? Come possono magari pure andare fuori a pranzo con dei colleghi che hanno appena ammazzato degli esseri umani?
Si tratta della grottesca ipocrisia della legge 194/78, difesa oggi anche dai sedicenti «cattolici» perché appunto contiene la foglia di fico dell’obiezione, e più in generale dell’ipocrisia massimamente farisaica, e genocida, della Democrazia Cristiana e della sua opera.
Si aggiunga come, in Italia, l’obiezione agisce come una porta girevole carrieristica: il medico e l’infermiere diviene obiettore ad intermittenza, a secondo di chi sia il primario di turno.
La vera difesa della vita nascente non passa per la difesa dell’obiezione di coscienza – anzi, passa per la sua rimozione, di modo che quanti saranno costretti a praticare il diabolico feticidio di massa si sveglino e combattano per fermare il vero genocidio in atto.
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Immagine di PES via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-SA 2.0
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