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Bioetica

Ennesimo bambino morto dopo la circoncisione. È ora di dire basta

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Un bambino nigeriano è morto pochi giorni fa in zona Castelli Romani dopo una circoncisione fatta in casa.

 

Secondo quanto riportato, una donna nigeriana sarebbe scesa in strada all’alba con in braccio il bambino sanguinante e privo di sensi. Trovati dei carabinieri in un posto di blocco vicino al capolinea della Metro, è stata chiamata l’ambulanza, che ha portato il bimbo al Policlinico di Tor Vergata, dove è stato dichiarato morto.

 

Le ferite lo avrebbe ucciso, dissanguandolo durante il trasporto. Morte per emorragia. Nella zona pubica. Sul corpicino è stata disposta l’autopsia. Si tratta di un bimbo di venti mesi.

 

È piuttosto chiaro cosa potrebbe essere successo: l’ennesima circoncisione domestica, come da costume di talune comunità immigrate africane. Si tratta, per certi musulmani ma anche per africani di diversa confessione religiosa, di un rituale cui sottopongono la prole magari servendosi dell’aiuto di qualche «esperto» o «esperta» della stessa comunità.

 

A quanto riportano i giornali nelle ultime ore, sarebbero state fermate due donne nigeriane, che – secondo la ricostruzione – avrebbero ricevuto da parte della madre del bambino la richiesta di praticare il rito di mutilazione in casa. Ora sarebbero ospiti del carcere di Rebibbia, accusate di omicidio preterintenzionale nonché di esercizio abusivo della professione, attendendo la convalida del provvedimento. I giornali dicono che in casa hanno trovato siringhe, medicinali e più di 4000 euro in contanti.

 

Non è il primo caso del genere. A Tivoli, nel 2018, morì un altro bambino nigeriano di appena due anni: aveva subito la circoncisione da parte di un sedicente medico; in quel caso, almeno, si salvò il gemello, portato d’urgenza in ospedale. Reggio Emilia, marzo 2019: neonato di famiglia ghanese, cinque mesi, morto dopo «diverse ore di agonia». Monterotondo, provincia di Roma, tre mesi prima: bimbo nigeriano di due anni morto per lo stesso motivo. Genova, aprile 2019, neonato morto nel quartiere Quezzi, e condannato a otto anni di carcere il nigeriano 34enne che aveva eseguito il taglio del prepuzio. Torino, giugno 2016: bebè di genitori ghanesi, circonciso in casa, morto in ospedale. Treviso, ottobre 2008: bimbo di due mesi morto per emorragia. Bari,  luglio 2008: bambino deceduto per grave emorragia, «causata probabilmente da circoncisione fatta a domicilio».

 

La lista è sterminata: e si tratta solo dei casi visibili. Possono essercene alcuni di cui non si ha contezza: finiti nelle statistiche, mostruose, dei bambini che spariscono, o forse nemmeno in quelle.

 

Secondo dati ripetuti in questi giorni da tutti i giornali, le circoncisioni clandestine in Italia costituirebbero il 40% del totale. Su più di 15.000 circoncisioni richieste all’anno solo 8.500 vengono eseguite su territorio nazionale, mentre 6.500 operazioni di taglio del prepuzio sono effettuate nei Paesi d’origine dove gli immigrati tornano per «turismo etnico» (talvolta, come si è appreso, anche quando si dichiarano «rifugiati» e stanno facendo il percorso burocratico per essere riconosciuti tali totalmente a spese del contribuente italiano).

 

Nei Paesi di provenienza la circoncisione non è operata da medici – essendo più una questione socio-religiosa – e si risolve con un obolo, mentre in Italia l’operazione, condotta privatamente, può costare dai 2.500 ai 4.000 euro.

 

Secondo una sigla di medici stranieri operanti in Italia, il 99% delle famiglie musulmane circoncide il bambino quando ha ancora pochi mesi.

 

Ovviamente, il fenomeno non riguarda solo gli islamici, ma anche e soprattutto la comunità ebraica, dove, trattandosi di un rito ancora più strutturato – il Brit Milah: «patto del taglio» –, immaginiamo che la percentuale di circoncisi sia del 100%.

 

Abbiamo sentito, come sempre, levarsi le solite voci: rendiamolo gratuito e coperto senza problema dal Servizio Sanitario Nazionale. Come l’aborto, e, da qualche anno, anche la produzione di bambini in provetta. Non sono mancati in questi anni progetti affinché della circoncisione se ne possa usufruire presso la sanità pubblica.

 

Come riportato in passato da Renovatio 21, grazie alla legge 101 del 1989 che ratifica l’intesa tra l’Italia e le comunità ebraiche italiane, i maschi di religione ebraica e musulmana possono usufruire di alcuni progetti «clinico-culturali» ed essere circoncisi per 400 euro da un medico in regime di attività libero professionale. La prestazione è da considerarsi al di fuori dei LEA (Livelli essenziali assistenziali). Tra i sottoscrittori il Policlinico Umberto I di Roma, l’Associazione internazionale Karol Wojtyla, la Comunità ebraica di Roma e il Centro islamico culturale d’Italia.

 

Nessun, davvero, nessuno, si perita di riflettere un secondo su cosa la circoncisione rappresenti per il bambino – oltre che una possibile minaccia di morte.

 

«Il taglio genitale non terapeutico priva il bambino, quando diventerà l’adulto, dell’opportunità di rimanere geneticamente immodificato (o intatto)» hanno scritto due bioeticisti oxoniani i due bioeticisti Lauren Notini e Brian D. Earp, dimostrando che esiste qualcuno che ancora può mantenere una logica basica. «Plausibilmente, la persona le cui “parti private” saranno permanentemente influenzate dal taglio dovrebbe avere la possibilità di valutare se è ciò che desidera, alla luce delle loro preferenze e valori a lungo termine»

 

L’individuo circonciso perde per sempre la sua integrità, vedendosi amputata una parte del corpo straordinariamente ricca di terminazione nervose, che sono quelle che danno il piacere durante l’atto sessuale. In un Paese dove i «laici» (cioè gli anticristiani, i massoni, gli atei ossessi) si lamentano del fatto che il Battesimo non è giusto perché non rispetta la volontà del bambino, che non è in grado di scegliere e si ritrova addosso il volere dei genitori, è semplicemente pazzesco che nessuno muova un dito contro la mutilazione genitale.

 

Perché, a pensarci bene, qualcosa sul tema lo fanno – ma solo se riguarda le femmine. L’«infibulazione» è una pratica che – giustamente! – provoca ribrezzo, orrore. La sua realtà speculare, la circoncisione, no: è pura libertà religiosa, anzi, fermi tutti, è una cosa che fa bene, perché poi «è più pulito…»

 

Il doppio standard, ad ogni bambino che muore, ci diventa sempre più intollerabile. È ora di dire basta.

 

Circoncisione e infibulazione sono la stessa medesima pratica. Entrambe sono mutilazioni genitali. Entrambe hanno origini tribali, religiose. Entrambe non prevedono il consenso. Entrambe amputano irreversibilmente dei bambini, che diventeranno grandi alterati nelle parti anatomiche deputate alla sessualità.

 

Ma a livello di riflessione sull’argomento, c’è il vuoto. E non solo nell’opinione pubblica, ma pure ai convegni degli «esperti» di bioetica.

 

Anni fa abbiamo visto organizzare conferenze sull’infibulazione da professori di bioetica che non avevano alcuna contezza dei danni prodotti dalla circoncisione (resisi conto dell’esistenza della cosa, a cui non avevano giammai pensato mentre si occupavano cavallerescamente di mutilazione femminili, balbettano… «mandami materiale»).

 

Il taglio non è una cosa da poco. Si tratta di un numero enorme di terminazioni nervose vengono recise, rendendo le future esperienze sessuali del nascituro diverse da coloro che invece il prepuzio lo hanno conservato: ci è toccato di sentirlo ammettere alla Zanzara, principale trasmissione radio presso la radio di Confindustria (e abbiamo detto tutto), dove un cittadino israeliano italofono confessava  che il piacere forse può essere minore, ma ciò, precisava con una punta di orgoglio, faceva guadagnare in longevità del rapporto sessuale.

 

Al di là delle battute, il niente. O meglio: c’è la paura. Guardate il caso dell’Islanda. Dopo aver operato per proibire di fatto i down (uccidendoli tutti in grembo materno), Reikiavik voleva legiferare contro la circoncisione.

 

«Ogni individuo, non importa di che sesso o di quanti anni dovrebbe essere in grado di dare il consenso informato per una procedura che è inutile, irreversibile e può essere dannosa», aveva dichiarato nel 2018 la deputata Silja Dögg Gunnarsdóttir, 44 anni, del Partito progressista dell’Althing, il Parlamento islandese. «Il suo corpo, la sua scelta». Chiaro: è lo slogan delle femministe e dell’aborto. È un dogma inscalfibile del mondo moderno. L’autonomia. Come no.

 

E invece no: il disegno di legge fu affondato. Le nanocomunità ebraiche e musulmane fecero campagna, e gli eredi dei vichinghi si sono subito spaventati: «l’impatto di questa legge sarebbe sentito molto al di là dei confini dell’Islanda», scriveva una lettera del Comitato degli affari esteri della Camera dei Rappresentanti, spiegando che la «mossa renderebbe l’Islanda la prima e unica nazione europea a mettere fuori legge la circoncisione. Mentre le popolazioni ebraiche e musulmane in Islanda possono essere poco numerose, il divieto di questo paese sarebbe sfruttato da coloro che alimentano la xenofobia e l’antisemitismo in Paesi con popolazioni più diversificate». Generosi: continuiamo a circoncidere i bambini qui così in Germania, in Slovacchia e in Italia i nazi non entrano in Parlamento. Non una grinza.

 

Per arrivare a tollerare tranquillamente la circoncisione serve un tipo di ginnastica mentale simile, serve essere pronti a difendere l’indifendibile – o semplicemente, a ignorare l’evidenza, e pure un po’ di storia.

 

La circoncisione è tollerata, forse, anche per la sua straordinaria diffusione presso gli americani. Contrariamente a ciò che possono pensare beceramente alcuni, la questione in nessun modo è legata ai rapporti tra l’ebraismo e gli USA. La fonte della pratica è la stessa dei cereali che con probabilità il lettore consuma il mattino: John Harvey Kellogg (1852-1943).

 

Il Kellogg era un dottore nutrizionista, oltre che un imprenditore di successo e un gran cultore dell’eugenetica. Tuttavia, un pensiero lo ossessionava: quello della riduzione della masturbazione presso la popolazione maschile.

 

Ecco quindi che raccomandò la circoncisione come rimedio: si taglia subito il prepuzio al bambino e lui non si toccherà crescendo. La cosa ancora più allucinante è che anche i cereali da lui commerciati avevano in teoria lo stesso scopo: erano sostanze che riteneva «anafrodisiache» e che quindi andavano impiegate in massa per scoraggiare l’onanismo.

 

Kellogg, che come si è visto godeva di una certa influenza, era convinto sostenitore anche del vestirsi di bianco e dei clisteri, da praticare soprattutto se si erano assorbiti veleni come tè, caffè, cioccolato. Il Kellogg, inoltre, scoraggiava il mescolarsi tra le razze: a fine carriera si dedicò alla creazione di una «Race Betterment Foundation, («Fondazione per il miglioramento della razza»), che propalava pure eugenetica razzista americana (registri genetici, sterilizzazioni delle «persone mentalmente difettose»), di quella che poi piacque assai a Hitler, che – cosa poco nota – prese alcune leggi degli Stati americani come suo modello per la Germania nazionalsocialista.

 

L’America odierna, e il mondo tutto, si trova quindi ancora alle prese con l’eredità di questo tizio: circoncisione e colazione con cereali tostati.

 

Due anni fa abbiamo riportato il caso dell’immigrato africano finito in carcere con l’accusa di aver infibulato le figlie mentre era, un classico, nel suo Paese d’origine in vacanza. Giusto. Per la mutilazione ai genitali maschili in carcere si va solo se il bambino muore, pare di capire.

 

Quanto ancora dovremmo vedere durare questo deserto dove non è possibile alcuna discussione?

 

Ci rendiamo conto: nessun politico vuole infilarsi in una simile tematica – nemmeno, soprattutto, quelli che, discesi dall’estrema destra, ora siedono al governo.

 

Sissì, faccenda delicata. Meglio non disturbare, far finta di niente, fischiettare. Intanto però la macelleria sessuale pediatrica continua.

 

E i bambini muoiono.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

Bioetica

Canale televisivo francese multato di 100.000 euro per aver dichiarato che l’aborto è la prima causa di morte nel mondo

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L’Autorità francese di regolamentazione dell’audiovisivo e della comunicazione digitale (Arcom) ha multato un canale televisivo per aver riportato in modo accurato che l’aborto è la principale causa di morte nel mondo. Lo riporta LifeSite.

 

Il 13 novembre, l’autorità di regolamentazione dei media francese Arcom ha inflitto alla CNews una multa di 100.000 euro dopo che il giornalista Aymeric Pourbaix ha correttamente elencato l’aborto come la principale causa di morte al mondo durante il programma cattolico dell’emittente intitolato En quête d’esprit, ovvero «Alla ricerca dello spirito».

 

«L’aborto non può essere presentato come causa di morte», ha dichiarato Arcom nella sua decisione. «Sembra dal resoconto di ascolto di questo programma che il presentatore, basandosi su un’infografica trasmessa in onda, abbia presentato l’aborto come causa di mortalità».

 

«Parte della sequenza in questione equipara l’aborto a una causa di morte e, implicitamente, l’embrione o il feto che non è potuto nascere vivo a causa di un aborto con una persona deceduta, anche se per legge non sono considerati persone», ha affermato il regolatore.

 

Arcom ha sostenuto che il canale non ha rispettato il suo «obbligo di onestà e rigore nella presentazione e nella gestione delle informazioni».

 

Durante il programma di febbraio, Pourbaix aveva presentato un grafico del Worldometers, basato su cifre dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo il grafico, l’aborto ha costituito il 52% dei decessi in tutto il mondo, con 73 milioni di bambini uccisi ogni anno. Questo dato è paragonato a solo 10 milioni di morti per cancro e 6,2 milioni di morti per fumo.

 

Oltre alla multa, Arcom ha ordinato alla CNEWS, di proprietà del finanziere cattolico Vincent Bolloré, noto anche per le sue partecipazioni in importanti aziende italiane, di scusarsi pubblicamente per aver mostrato il grafico, cosa che la CNEWS ha fatto a febbraio.

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«Il canale CNews si scusa con i suoi spettatori per questo errore che non avrebbe dovuto verificarsi», ha dichiarato il presentatore di CNEWS Laurence Ferrari pochi giorni dopo la trasmissione del grafico.

 

Jean-Marie Le Méné, direttore della Fondazione pro-life Jérôme Lejeune, ha dichiarato a Valeurs Actuelles che la decisione di Arcom era un tentativo di nascondere la realtà degli aborti.

 

«Affinché l’aborto possa essere praticato con la coscienza pulita, è proibito dire che l’aborto toglie la vita», ha detto Le Méné. «Altrimenti la chiave di volta del sistema crolla. Ma chi crede a questa finzione?… L’aborto, la principale causa di morte nel mondo, è purtroppo un fatto, non un’opinione».

 

Secondo l’European Conservative, la decisione di Arcom arriva solo pochi mesi dopo che il Consiglio di Stato, una delle più alte corti amministrative francesi, ha raccomandato di sottoporre CNews a severi controlli a seguito dello scandalo per il grafico.

 

A quanto pare Arcom ha preso sul serio la raccomandazione, dato che l’ente regolatore ha imposto 52 sanzioni a C8 e CNEWS, entrambe di proprietà di Bolloré, in dodici anni, di cui 16 solo nel 2024.

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Bioetica

La morte cerebrale è vera morte?

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La morte viene identificata come la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e cardiocircolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale.    Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta. Infatti, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere vivente è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione dell’organismo: l’algor mortis, il raffreddamento del corpo, il rigor mortis, la rigidità cadaverica, il livor mortis, il ristagno e la coagulazione del sangue.    La morte è un evento complesso perché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi.

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Esiste unanime consenso nel ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte non esiste.   Secondo il regolamento di polizia mortuaria nessuna persona morta può essere chiusa dentro una bara o sottoposta ad autopsia prima che siano trascorse 24 ore dal momento del decesso, salvo i casi di decapitazione o maciullamento. Inoltre, durante il periodo di osservazione il corpo deve essere posto in condizioni tali che non ostacolino eventuali manifestazioni di vita.   È possibile dunque affermare che l’unico parametro che consente di ritenere certo l’avvenuto decesso di un individuo è l’inizio del processo di decomposizione del corpo, il cui riscontro oggettivo costituisce il vero punto di non ritorno alla vita.   Proprio allo scopo di consentire il trapianto degli organi vitali, che ricordiamo può avvenire solamente se gli organi stessi non hanno subito danni irreversibili causati dalla necrosi dei tessuti (il cuore e il fegato subiscono danni in meno di 5 minuti), era necessario modificare i criteri stessi di definizione della morte.   L’escamotage trovato dalla comunità scientifica internazionale non fu quello di soppiantare il criterio tradizionale della cessazione di tutte le funzioni dell’organismo (che sarebbe stato impossibile anche solo ipotizzare), ma di affiancare ad esso un nuovo criterio di accertamento della morte basato sulla presunta cessazione irreversibile della funzionalità di un singolo organo: il cervello.    Nel 1968 venne istituita una commissione ad hoc, un comitato di «esperti» della harvard Medical School, che definì e sottoscrisse quei criteri neurologici di morte che vennero poi ufficialmente riconosciuti come nuova definizione di morte, malgrado diversi filosofi, medici e giuristi espressero al riguardo tutte le loro riserve.   In base a tale documento, un soggetto in coma irreversibile, o presunto tale, deve essere considerato a tutti gli effetti deceduto. Nonostante la commissione di Harvard affermasse il contrario è ovvio come la nuova definizione di morte e la pratica dei trapianti di organi vitali fossero strettamente collegate, dal momento che è proprio la morte a consentire il prelievo degli organi.   D’altra parte fu la stessa commissione che ammise lo stretto legame ideologico tra il nuovo criterio e la suddetta pratica: «l’uso di criteri obsoleti per la definizione di morte cerebrale può ingenerare controversie nel reperimento degli organi per i trapianti».

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C’è da osservare che la commissione non produsse alcun dato scientifico certo e oggettivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto, come avrebbe potuto?) e i criteri di Harvard vennero pubblicati senza nessun dato statistico-clinico relativo ai pazienti.    Malgrado ciò, a partire dal 5 agosto del 1968 una persona può essere dichiarata cadavere, quindi privata delle cure o addirittura trattata come mero contenitore di organi espiantabili, nel momento in cui la funzionalità del suo cervello viene ritenuta irrimediabilmente compromessa, secondo parametri studiati a tavolino, dunque artificiosi.    La morte, da evento naturale, oggettivo e osservabile, viene di fatto ridotta ad evento artificiale, non oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica.   In altre parole, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nell’ambito prettamente medico.   È facilmente intuibile la portata rivoluzionaria della nuova definizione di morte che costituisce la base ideologica con la quale sono stati legittimati tutti gli attacchi alla vita innocente ed indifesa, dall’aborto all’eutanasia, passando per la fecondazione in vitro e, ovviamente, l’espianto degli organi vitali.    Alfredo De Matteo

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Immagine di Ericneuro via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine modificata 
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Bambina partorita nel water. Chi si scandalizza sa che la RU486 fa la stessa cosa?

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Sulla base dei rilievi iniziali fatti dai medici del 118 sul corpo della bimba, «l’infanticidio è l’ipotesi più probabile nel caso della neonata trovata morta a Piove di Sacco». Lo riporta l’agenzia ANSA.

 

Si tratta di un ulteriore caso di morte di neonato che sconvolge l’Italia. Episodi simili sembrano susseguirsi l’uno dopo l’altro.

 

Secondo quanto riportato, il corpicino della piccola sarebbe stato ritrovato in un bagno di un appartamento collegato ad un night club a Piove di Sacco, nel Padovano, in una zona purtroppo nota alla cronaca nera degli anni passati anche per la cosiddetta «mafia piovese», o «mala del Brenta» – la famosa «banda Maniero», a cui la TV nazionale dedica serie TV, ovviamente negando, come in tutti i casi di grandi produzioni su mafia, camorra, mala romana, che si tratti di qualcosa di anche lontanamente agiografico.

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Secondo articoli apparsi sulla stampa, per l’autopsia la bambina sarebbe morta annegata. L’esame autoptico tuttavia sarà reso disponibile solo tra settimane.

 

Per la morte sarebbe stata fermata la presunta madre, una donna italo-brasiliana di 29 anni, che ora si troverebbe agli arresti domiciliari, e si sarebbe avvalsa della facoltà di non rispondere.

 

Secondo la procura, «la neonata era stata trovata morta all’interno del water e appariva essere completamente formata» scrive Fanpage. «Secondo gli inquirenti, la 29enne avrebbe partorito “direttamente all’interno del wc dell’appartamento in cui alloggiava” e sostenuto il parto “senza chiedere l’ausilio di personale sanitario o di altre persone”, tirando lo sciacquone “quando la bambina si trovava già con la testa in basso all’interno del WC, causando così l’annegamento”».

 

La tragedia della bambina del water Piove di Sacco arriva dopo lo shock del ritrovamento dei neonati morti di Traversetolo, in provincia di Parma, che secondo l’accusa sarebbero stati partoriti della giovane madre e sepolti nel giardino della villetta di famiglia, senza che nessuno si accorgesse di nulla.

 

Si tratta di un trend? C’è un lato nuovo della maternità che sta emergendo?

 

Per chi conosce il lato oscuro della riproduzione nell’ora presente, in realtà la sorpresa è poca: la società, lo sappiamo, si avvicina sempre di più all’autorizzazione dell’infanticidio, chiamato pudicamente «aborto post-natale». Filosofi e bioeticisti rilanciano l’opzione da diversi anni. Politici di rilievo del Partito Democratico USA come il governatore della Virginia Ralph Northamhanno discusso apertamente l’idea che medico e madre del neonato possano, a pochi momenti dalla nascita, decidere di sopprimere in bambini. In pratica: l’infanticidio è da un pezzo nella finestra di Overton.

 

Nel mondo in cui l’aborto è un diritto – o, per alcuni, un «obbligo sacro», un sacramento – come lamentare il pendio scivoloso che porta l’uccisione del bambino oltre il limite della nascita? È anche quello, alla fine, solo un confine arbitrario, una convenzione – né più né meno come la «morte cerebrale», in base alla quale in questo stesso momento quantità di persone stanno venendo squartate in ospedale e depredati dei loro organi mentre il cuore batte ancora.

 

Tuttavia, è un’altra immensa ipocrisia che vogliamo qui segnalare.

 

Abbondano ora in rete le immancabili analisi dei Soloni che parlano di «territorio alla deriva», «malessere profondo della società», e via sbadigliando. Gli editorialisti, gli opinionisti, gli psicologi mediatici, i giornalisti direttorazzi, i socio-sapientoni, quelli che il mondo lo capiscono benissimo per stipendio (eccerto), sono scandalizzati da questa storia del pargolo finito del water, con i giornali che suggeriscono anche che sarebbe stato tirato lo sciacquone come per liberarsene. Raro orrore. No?

 

Ebbene, informiamo i benpensanti salariati con il ditino alzato che partorire il bambino nel water è la norma dell’aborto chimico.

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L’«interruzione volontaria di gravidanza con metodo» farmacologico, la cui implementazione è stata voluta con forza dalla politica e inflitto ancora più efficacemente durante il biennio pandemico, agisce esattamente in questo modo: la pastiglia di mifepristone (RU486) uccide l’embrione, una successiva assunzione (dopo 48 ore) di una prostaglandina (misoprostolo, gemeprost) provoca l’espulsione.

 

La RU486 è stata approvata dall’AIFA nel 2009. Tuttavia secondo le linee guida l’assunzione del farmaco figlicida dovrebbe comportare un ricovero ospedaliero «obbligatorio» di tre giorni continuativi con assegnazione di posto letto per il pernottamento, di modo che avvenga in nosocomio «l’intera procedura abortiva, nelle sue diverse fasi».

 

Quindici anni fa, momento dell’immissione del farmaco nel sistema nazionale, il Consiglio Superiore di Sanità stabilì che, a differenza della Francia dove le pillole possono prendersi a casa, in Italia il percorso di aborto farmacologico dovesse avvenire in ricovero ospedaliero «dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento».

 

Tuttavia, in almeno tre regioni – Toscana, Emilia-Romagna, Lazio – la pillola era programmata per essere disponibile anche senza ospedalizzazione. Nel 2015 una nota della Sanità del Piemonte scriveva che «7.311 donne hanno usufruito della RU486 presso l’ospedale Sant’Anna, primo in Italia». Nello stesso comunicato, era specificato che «per quanto riguarda le IVG fino a 49 giorni e gli aborti interni, complessivamente, il 99% delle donne non è stata ricoverata per tre giorni ed ha potuto lasciare l’ospedale tra la somministrazione del mifepristone e quella della prostaglandina due giorni dopo. Nel tempo tale percentuale è diventata prossima al 100% e negli ultimi tre anni solo 4 donne su 3.217 sono rimaste ricoverate».

 

Il vincolo dei tre giorni in ospedale fu quindi definitivamente rimosso dal ministro della Salute Roberto Speranza nel 2020.

 

E quindi è naturale pensare che, in tali condizioni, l’espulsione del figlio avviene nella quasi totalità dei casi nel bagno di casa. E la quantità di bimbi scaricati nel cesso non può che essere massiva.

 

Proprio così: tanti bambini, anche oggi stesso, stanno venendo partoriti nel water, con la madre che poco dopo tira l’acqua – esattamente come sarebbe successo a Piove di Sacco, con grande scandalo di quelli che benpensano.

 

Renovatio 21, quando tratta del tema, non manca di ricordare il proseguo. Perché la questione, tirato lo sciacquone, per la madre finisce, ma per il bambino no.

 

E allora, cerchiamo di vedere il resto della storia dagli occhi del piccolo espulso dal grembo materno: finisce giù per la tubatura, assiame a liquami ed escrementi, per poi finire direttamente nella fogna, dove vivono tante creature: insetti, pesci, anfibi, topi – questi ultimi con un fiuto notorio, e immaginiamo una carne giovanissima, ricca di cellule staminali, quanto possa risultare irresistibile.

 

Questa storia di bambini finiti nelle fogne e divorati dalle bestie manca stranamente dalle cronache recenti della RU486: proprio pochi giorni fa la Regione Emilia-Romagna (sempre all’avanguardia per quanto concerne l’aborto: pensiamo alle NIP, gli esami non invasivi che ti dicono subito se il bambino che porti in grembo è down, così da poter decidere che fare) ha aggiornato i profili di assistenza per la IVG – acronimo orwelliano per «feticidio» – tramite metodi farmacologici, istituendo definitivamente l’assunzione del «pesticida umano» a livello domestico.

 

Nessun giornale, nemmeno quelli sedicenti «cattolici», sembra voler pensare al destino dei bambini nel water. Pare di capire: a seconda dell’età dal concepimento, ci sono bambini-toilette di Serie A e di Serie B. Dei primi si può parlare, dei secondi no, nemmeno quando si dovrebbe.

 

Quindi: sì, l’Italia è il Paese dove, passando per una legge che ne autorizza la distruzione chimica, i feti finiscono nella tazza del cesso e nella fogna, ogni giorno. A decine, forse a centinaia – chi può avere questi numeri? Come vengono conteggiati? È possibile farlo?

 

Pure vogliamo rammentare, en passant, che mentre la tragedia dei feti uccisi agisce su tutti i livelli, visibili ed invisibili, qualcuno sta andando in giro per l’Italia a sotterrare barattoli di vetro con dentro feti, come se si trattasse di piccoli occulti capitelli di questo maleficio sui piccoli esseri umani. Gli scandalizzati di mestiere, pro-vita o meno che siano, non sanno nemmeno di cosa stiamo parlando. E quelli che lo sanno, fanno finta di niente, fischiettosamente.

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Prima di gridare allo scandalo, quindi, pensiamo a quella che è la realtà. La stampa mainstream fa il suo lavoro: vuole fissarvi sul dito e non sulla luna, sulla pagliuzza invece che sulla trave. Vuole istupidirvi, rendervi ciechi rispetto al dominio della Necrocultura sul nostro mondo, sulle nostre stesse esistenze.

 

Diventa chiaro a tutti cosa diviene quindi questa storia: è un fenomeno di proiezione, di sfogo programmato. La società concentra su un singolo caso – possiamo dire che si tratta di un capro espiatorio? – il male che la pervade tutta, istituzionalmente e profondamente.

 

Dunque, caro cittadino sincero-democratico, caro contribuente perbene, caro italiano postcattolico, caro genitore borghese pronto alla provetta e alla siringa RNA, ora lancia pure le tue pietre contro la «spogliarellista», mentre tua moglie, tua figlia, tua sorella, la tua amante, la tua collega, la tua fidanzata, la tua vicina, tua madre partoriscono bambini nel cesso.

 

Sono i tuoi figli, i tuoi nipoti – sono il prossimo tuo, sono il futuro dell’umanità, sono l’Imago Dei, l’immagine di Dio resa carne.

 

Caro italiano adulto, sopravvissuto per qualche ragione anni fa allo sciacquone della Cultura della Morte: quanto ancora per capire sotto quale incantesimo malefico ti trovi?

 

Roberto Dal Bosco

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