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Trump distrugge le borse mondiali: questo è vero sovranismo!

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Piangono tutti, sconvolti. Oligarchi, editorialisti, attivisti goscisti (di fatto, un’unica categoria socioeconomica: ora lo vediamo bene).

 

Le borse sono crollate con il «giorno della Liberazione» di Trump, con i dazi verso il mondo intero annunciati nel giardino delle rose della Casa Bianca dinanzi ad una platea di operai che applaudivano.

 

I grandi giornali, tra cui in Italia quello dei confindustriali, parla di un trilione e passa «bruciato». La sinistra, in USA e pure da noi, si è riscoperta amante degli investimenti di Borsa: eppure noi ricordavamo un caporione del PD definire i risparmiatori disintegrati da Banca Etruria come «speculatori».

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E invece: la sinistra ora difende il capitalismo terminale delle Borse, il neoliberismo più estremo del mondo senza confini di traffico economico, la speculazione totale. In pratica, l’agenda dell’oligarcato: anche questa maschera è caduta, gratta il socialdemocratico, il postcomunista, il neo-antifascista, l’omotransgoscista, il catto-migrazionista, il verde decrescitista e ci trovi sempre il paperone nero. Noi lo sapevamo, ora se ne possono rendere conto tutti.

 

Ma non è delle reazioni del mondo della cartapesta che vogliamo occuparci. Vogliamo celebrare, invece, l’atto che pone fine, una volta per tutte, al primo ciclo della globalizzazione. Un atto che rappresenta, in tutto e per tutto, il vertice storico mondiale del sovranismo. Mussolini, Hitler, Stalin non hanno mai osato tanto, non ci sono riusciti, forse non avevano i mezzi per farlo e nemmeno per pensarlo.

 

È una ridefinizione del mondo, dell’universo – è un reset metapolitico. I vaishya, la casta dei mercanti, sotto quella degli kshatriya, i re guerrieri: per l’antico sistema gerarchico indoeuropeo, si tratta di un’inversione di ciclo cosmico.

 

Perché ci ricordiamo bene che quando non dicono «ce lo chiede l’Europa» vogliono terrorizzarci con «ce lo chiedono i mercati». Il mercato è sopra la politica, è sopra lo Stato, è sopra gli Stati: la globalizzazione non era che questo. L’Unione Europea, pure. Figure come Draghi, Monti, i «tecnici» vari inflitti al popolo esistevano solo tramite questo dogma: la politica è asservita ai mercati.

 

Non si tratta di un’analisi astratta. Vogliamo ricordare che l’avvento di un governo tecnocratico in Italia, che spodestò d’un tratto uno che era stato democraticamente eletto, avvenne per un numero di Borsa, peraltro inventato: lo spread.

 

Lo spread nel 2011 distrusse il governo Berlusconi. I «mercati», con le loro macchinazioni e una cifra astrusa strumentalizzata come arma terrorista (di fatto: per indurre il terrore nella popolazione) valevano più del voto popolare. E la cosa più tragica fu che lo stesso re accettò il complotto dei mercanti: Berlusconi si fece gentilmente da parte, e con lui il suo ministro Giorgia Meloni, che pure sostenne Monti, uomo del mercatismo par excellence, curriculum di banchiere, rettore della Bocconi e Commissario Europeo.

 

 

Rammentiamo, molto en passant, che qualche miglio nautico più sotto, in Libia, negli stessi mesi un uomo che rappresentava il potere politico pure nella sua componente militare, Muhammar Gheddafi, quello che parlava di «governo delle masse» (la Jamahiriya) e distribuiva redditi di cittadinanza da capogiro, veniva trucidato dal sanguinario golpe franco-angloamericano, con forse alcuni aiutini dello Stato Profondo italiano – Gheddafi aveva pensato di poter battere una moneta panafricana, e pure aveva rinunziato stupidamente al potere regale del XX secolo, cioè l’arma atomica.

 

Opporsi ai «mercati» significa, in pratica, caricare la propria ghigliottina. Così la deve pensare ogni leader che aspira a salire i gradini dello Stato moderno.

 

Trump lo sa – lo deve sapere per forza. Perché, ricordiamoci, le borse durante il suo primo mandato volarono altissime. Wall Street era felice come una Pasqua, Londra pure. Neofita del potere politico, il costruttore di Nuova York con evidenza aveva ricevuto il consiglio di non toccare mai il gioco delle azioni comprate e vendute, qualsiasi cosa ciò significhi in ultima analisi («azioni», di che? Perché? Con quale futuro davanti?).

 

Tutti contenti, fino ad un certo punto: arrivò il COVID, crollarono i mercati. Era l’anno della possibile rielezione. Qualcuno si spinge a dire persino che il coronavirus fu lanciato per liberare il mondo da Trump. Morte negli ospedali (strombazzate, forse persino indotte, secondo certuni), devastazione in borsa. La combo poteva sfavorire la conferma del presidente in carica. Più, ovviamente, qualche trucchetto elettorale, più le centinaia di milioni filantropici di «integrità elettorale» offerti dallo Zuckerberg.

 

Accadde quello che accadde. Quattro anni di terrore e distruzione per il mondo, e persecuzione per The Donald: minacciato con un millennio di carcere dai tribunali, e reso obiettivo di attentati mostruosi (che, ricordiamo, sono costati la vita di almeno un’altra persona).

 

 

Oggi l’uomo è decisamente cambiato – e dobbiamo dire che uno shift verso una fase ulteriore l’avevamo già letto guardandogli gli occhi durante il discorso di insediamento.

 

Il quadriennio disperato dell’era Biden lo hanno radicalizzato, trasformato. Il Washington Post ha scritto pochi giorni fa qualcosa di molto chiaro: secondo un «ufficiale della Casa Bianca con conoscenza del pensiero di Trump» il presidente sarebbe ora «al picco di non fregarsene più un cazzo».

 

È un modo di dirlo. Un altro sarebbe quello di riconoscere la realizzazione finale di Trump: il potere è in mano sua. Lui è il re, è il sovrano. Il popolo (dal lavoratore più semplice all’ultramiliardario tecnologico) è con lui. L’esercito più enorme del mondo, pure.

 

Le carte al tavolo del mondo le serve lui. Si accede al mercato americano secondo regole che stabilisce lui. Si ha la protezione degli USA alle sue condizioni (Zelens’kyj, se uscisse dallo stato di alterazione, dovrebbe riconoscerlo). Si balla secondo la musica che parte dalla Casa Bianca.

 

Non sono i mercati a mettere il disco. È l’inverso: è il re a fare il DJ. Renovatio 21 ha sottolineato un caso piuttosto limpido: BlackRock, il più grande fondo di Private Equity del mondo (trilioni in asset), con la storia oscura che conosciamo – al punto che il primo attentatore di Trump fece la comparsa in un suo spotsta comprando da Panama i porti, escludendo quindi i cinesi. Come da ordine esatto dell’amministrazione, che aveva fatto del ritorno al Canale di Panama una priorità per il nuovo corso americano.

 

Ho ascoltato l’intervista a Tucker Carlson di Scott Bessent, il ministro del Tesoro, che qui abbiamo castigato per essere un finanziere omosessuale sposato con bambino surrogato e pure di discendenza ugonotta: ebbene, non c’era una parola sbagliata in quello che dice, e c’è da stropicciarsi gli occhi, perché assistiamo al fatto che anche un uomo di alta finanza riconosce la verità ultima trumpiana – il Paese va ricostruito, va reindustrializzato, costi quello che costi.

 

 

Mettere i dazi significa questo: eliminare i decenni di follia mercatista, con la delocalizzazione asiatica e la deindustrializzazione dell’America (e dell’Europa…): i risultati di questo processo genocida, sbocciato in tutta la sua forza in era Clinton, sono sotto gli occhi di tutti, con intere regioni degli USA, dove un tempo vi era l’orgoglio di generazioni di operai metallurgici, ridotte a cumuli di rovine edili ed umane, e l’epidemia assassina del fentanyl ad aumentare l’abisso. Il vicepresidente JD Vance, teniamo a mente, viene da lì…

 

E quindi, Trump distrugge le borse sì, e non «gliene frega un cazzo», anzi, lo fa apposta. Perché l’obiettivo – che non è magari nemmeno a medio termine – non è più un numero, è un popolo.

 

Questo è un sovrano. Questo è sovranismo.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

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Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

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I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.   L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.   Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.   Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.   Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.   Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.   Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.

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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.   Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.   Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.   Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.   Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.   I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.   Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».   Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.   Patrizia Fermani

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Putin: il futuro risiede nella «visione sovrana del mondo»

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Le nazioni devono basarsi sulle proprie tradizioni storiche e spirituali, oltre che su una «visione sovrana del mondo», mentre plasmano il loro avvenire, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin in un messaggio scritto ai partecipanti del II Simposio Internazionale «Inventare il Futuro» a Mosca. L’evento, in programma il 7 e 8 ottobre, accoglierà oltre 7.000 partecipanti provenienti da quasi 80 Paesi.

 

Discussioni aperte e innovative sul futuro dell’umanità supportano i governi nel rispondere adeguatamente alle nuove sfide, ha osservato il presidente russo. «Le conclusioni e i risultati di un dialogo così profondo e sostanziale sono di grande valore», ha aggiunto Putin. «Sono fiducioso che dobbiamo creare il nostro futuro sulla base di una visione del mondo sovrana».

 

Promosso su iniziativa del presidente russo, il simposio comprende circa 50 eventi, organizzati in tre aree tematiche: società, tecnologia e cooperazione globale. Il forum ospiterà oltre 200 relatori provenienti da Russia, Cina, Stati Uniti, Italia e da Paesi di Africa, America Latina, Medio Oriente e Sud-est asiatico, che discuteranno di temi che spaziano dalle sfide demografiche all’intelligenza artificiale (IA) e all’esplorazione spaziale.

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Nel primo giorno del simposio si è svolta una tavola rotonda incentrata sul futuro delle tecnologie di intelligenza artificiale e sul loro potenziale di diventare non solo uno strumento professionale di nicchia, ma una base per un’infrastruttura globale e un nuovo «linguaggio della realtà» per governi e imprese private.

 

Un altro dibattito tenutosi martedì si è concentrato sulle prospettive di collaborazione tra Russia e Africa nei prossimi decenni, fino al 2063. Mosca mira a rafforzare i legami con il continente, promuovendo attivamente la condivisione di tecnologie con le nazioni africane, contribuendo a garantire la sicurezza regionale e sostenendo la sovranità degli attori locali, oltre a favorire un approccio più equo nelle relazioni internazionali.

 

Al forum del Club Valdai, a Sochi, giorni prima Putin aveva parlato dei «valori tradizionali» anche in merito alla «disgustosa atrocità» dell’assassinio di Charlie Kirk.

 

«Sapete, questa disgustosa atrocità, e ancora di più, dal vivo», ha detto Putin a un forum organizzato dal Valdai Discussion Club a Sochi, in Russia. «In effetti, l’abbiamo vista tutti, ma non so, è davvero disgustoso. Era orribile». «Prima di tutto, naturalmente, porgo le mie condoglianze alla famiglia del signor Kirk e a tutti i suoi cari», ha continuato il leader russo. «Siamo solidali e solidali, soprattutto perché ha difeso quei valori tradizionali».

 

Putina aveva aggiunto che la sparatoria mortale è il segno di una «profonda frattura nella società», secondo Reuters. «Negli Stati Uniti, non credo ci sia bisogno di aggravare la situazione all’esterno, perché la leadership politica del Paese sta cercando di ristabilire l’ordine a livello nazionale», ha affermato Putin.

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La questione di Heidegger

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Negli scorsi mesi è scoppiata sul quotidiano La Verità una bizzarra diatriba riguardo ad un pensatore finito purtroppo per essere centrale nel nostro panorama filosofico accademico, Martin Heidegger (1889-1976), già noto per la collaborazione con il nazismo e per l’adulterio consumato con la celebre ebrea Hannah Arendt, all’epoca sua studentessa, e da alcuni, per qualche ragione, considerato come un filosofo «cattolico».   Un articolista con fotina antica a nome Boni Castellane (supponiamo si chiami Bonifazio, ma lo si trova scritto così, con il diminutivo, immaginiamo) ha cominciato, con un pezzo importante, a magnificare le qualità dell’Heidegger lo scorso 17 agosto:«Omologati e schiavi della Tecnologia – Heidegger ci aveva visti in anticipo».   Giorni dopo, aveva risposto un duo di autori, tra cui Massimo Gandolfini, noto, oltre che la fotina con il sigaro, per aver guidato (per ragioni a noi sconosciute) eventi cattolici di odore vescovile, che come da programma non sono andati da nessuna parte, se non verso la narcosi della dissidenza rimasta e il compromesso cattolico. Sono seguite altri botta e risposta sul ruolo del «sacro» secondo l’Heideggerro e la sua incompatibilità con il cristianesimo.   Il Gandolfini e il suo sodale scrivono, non senza ragione, che «il dio a cui si riferisce Heidegger non è il nostro». Una verità non nota agli intellettuali cattolici che, in costante complesso di inferiorità nei confronti del mondo, hanno iniziato ad importare il pensatore tedesco dalle Università italiane – dove ha tracimato, dopo un progetto di inoculo sintetico non differente da quello avutosi con Nietzsche – per finire addirittura nei seminari.

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Il progetto, spiegava anni fa Gianni Collu al direttore di Renovatio 21, era del tutto identico a quello visto con Nietzsche, recuperato dall’ambito della cultura nazista, purgato nell’edizione Adelphi di Giorgio Colli e Mazzino Montinari – la cura dell’opera omnia nicciana arriva prima in italiano che in tedesco! – e servito alla massa del ceto medio riflessivo italiota, e mondiale, per distoglierlo dal marxismo e introdurre elementi di irrazionalismo e individualismo nichilista nella vita del popolo – di lì all’esoterismo di massa, il passo diventa brevissimo.   Con Heidegger si è tentato un lavoro simile, ma Collu aveva profetizzato allo scrivente che stavolta non avrebbe avuto successo, perché era troppo il peso del suo legame con l’hitlerismo, e troppa pure la cifra improponibile del suo pensiero. Di lì a poco, vi fu lo scandalo dei cosiddetti «Quaderni neri», scritti ritenuti inaccettabili che improvvisamente sarebbero riemersi – in verità, molti sapevano, ma il programma di heidegerizzare la cultura (compresa quella cattolica) imponeva di chiudere un occhio, si vede. Fu ad ogni modo divertente vedere lo stupore di autori e autrici che avevano dedicato una buona porzione della carriera allo Heidegger – specie se di origini ebraiche.   L’incompatibilità di Heidegger – portatore di una filosofia oscura e disperata – con il cattolicesimo è, comunque, totale. Di Heidegger non vanno solo segnalati i pericoli, va combattuto interamente il suo pensiero, che altro non è se non un ulteriore sforzo per eliminare la metafisica, e quindi ogni prospettiva non materiale – cioè spirituale – per l’uomo.   Molto vi sarebbe da dire sul personaggio, anche a partire dal suo dramma biografico. Lasciamo qui la parola al professor Matteo D’Amico, che ha trattato il tema dell’influenza di Heidegger nel mondo cattolico, e la difformità di questo personaggio e del suo pensiero, in un intervento al Convegno di studi di Rimini della Fraternità San Pio X nel 2017.    

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  Immagine di Landesarchiv Baden-Württemberg, Staatsarchiv Freiburg W 134 Nr. 060680b / Fotograf: Willy Pragher via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International  
 
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