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Geopolitica

Ribelli birmani accusano l’India: «Dieci nostri combattenti torturati e uccisi in Manipur»

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il Governo di unità nazionale in esilio ha denunciato l’uccisione sommaria di membri delle squadre di protezione locale da parte di un battaglione dell’Assam Rifles nello Stato nord-orientale del Manipur, da due anni percorso da violenze etniche. Mentre Delhi parla di «militanti armati» e rivendica il sequestro di un arsenale di armi, la resistenza birmana chiede un’indagine e la sospensione della costruzione delle recinzioni al confine indo-birmano.

 

Il governo di unità nazionale del Myanmar – che riunisce le forze di opposizione alla giunta militare birmana – ha chiesto di indagare sull’uccisione di 10 combattenti uccisi da un battaglione dell’Assam Rifles, una forza paramilitare indiana attiva nello Stato nord-orientale del Manipur. Il 14 maggio un’operazione condotta nel distretto di Chandel, ha portato alla morte di dieci membri appartenenti squadre di protezione locale (chiamate Pa Ka Pha), secondo il governo in esilio del Myanmar.

 

Si tratta di un gruppo di uomini armati diversi dalle Forze di Difesa del Popolo (PDF), milizia che fa capo al Governo di unità nazionale (a sua volta composto perlopiù da ex parlamentari birmani in esilio) e che sta combattendo nella guerra civile contro la giunta militare del Myanmar. In particolare, la forza di protezione locale interessata dalle ultime vicende, è attiva nella municipalità di Tamu, nella regione birmana del Sagaing, e si occupa soprattutto di svolgere operazioni di polizia o di supporto alle PDF.

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Secondo il Governo di unità nazionale birmano (NUG), i combattenti non sono morti durante uno scontro armato, ma sono stati catturati, torturati ed uccisi sommariamente dalle forze indiane. Le autorità di New Delhi, tuttavia, sostengono che l’operazione sia stata una risposta a un attacco armato da parte dei militanti.

 

Il NUG ha dichiarato che i dieci membri della PDT erano stati precedentemente in contatto con le autorità indiane per segnalare la loro posizione vicino al confine. Il 16 maggio, però, i loro corpi sono stati restituiti alle forze di resistenza birmane dalle Assam Rifles. Il NUG ha denunciato che i combattenti sarebbero stati costretti a firmare un documento in cui si riconosceva che avevano attraversato il territorio indiano e lanciato un attacco, oltre a impegnarsi a non opporsi alla costruzione di future recinzioni di confine.

 

Il ministro degli Esteri del NUG, Daw Zin Mar Aung, ha dichiarato: «posso confermare che non c’è stato alcun combattimento. Non rappresentavano una minaccia per la sicurezza dell’India. È stato un brutto episodio per l’esercito indiano e siamo preoccupati che le relazioni bilaterali possano essere danneggiate. C’è bisogno di scoprire la verità e garantire giustizia in modo da non danneggiare i legami bilaterali. Abbiamo discusso la questione con le autorità indiane, chiesto giustizia e sollecitato la ricerca della migliore soluzione. Spero che l’India collabori».

 

L’Eastern Command dell’esercito indiano, invece, ha riferito di aver lanciato un’operazione militare (descritta come una delle «più grandi» degli ultimi anni) agendo su specifiche informazioni riguardanti il movimento di «quadri armati» vicino al villaggio di New Samtal, nel distretto di Chandel. Durante l’operazione, le truppe degli Assam Rifles sarebbero state attaccate da «estremisti armati» a cui i soldati indiani avrebbero risposto in modo «calibrato e misurato», uccidendo dieci individui in uniforme mimetica.

 

Successivamente, è stato recuperato un significativo arsenale di armi, tra cui sette fucili AK-47, un lanciarazzi RPG, un fucile M4 e quattro fucili a canna liscia a caricamento singolo, oltre a munizioni e altri materiali bellici, ha riferito ancora l’esercito indiano. Si tratta di affermazioni che sono state contestate perché in realtà, proprio a causa della carenza di armi, le PDF attive in Myanmar hanno cominciato ad allearsi con le milizie etniche, meglio equipaggiate a combattere contro il regime.

 

Inoltre, nel comunicato si legge anche che «gli individui neutralizzati erano noti per il loro coinvolgimento in attività insurrezionali transfrontaliere. Sono in corso le indagini per confermare la loro identità». Secondo fonti locali, l’area dell’operazione è caratterizzata da un terreno difficile e da una scarsa connettività, il che ha complicato le comunicazioni e le operazioni di recupero. Diverse foto circolate online mostrano i cadaveri recuperati dall’operazione con evidenti segni di tortura. Tuttavia, come racconta The Diplomat, non sono chiare le ragioni per cui gli Assam Rifles dovrebbero aver compiuto simili atrocità.

 

Il distretto di Chandel, situato lungo il confine tra India e Myanmar, è noto per la presenza di gruppi armati e per le tensioni etniche tra comunità locali. La regione è abitata principalmente da tribù Kuki, presenti su entrambi i lati del confine, ma alcuni rappresentanti locali hanno detto che «le probabilità che le vittime appartengano alla nostra comunità sono molto basse». È noto che alcuni gruppi di combattenti Kuki abbiano stretto legami con le milizie etniche del Myanmar per combattere contro la giunta golpista.

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Da maggio 2023 in Manipur si continuano a registrare episodi di violenza tra Kuki e la maggioranza etnica dei Meitei. Il governo di Delhi, che ha imposto la legge presidenziale sullo Stato, ha schierato fin da subito l’esercito, ma senza riuscire a mettere fine agli scontri tra milizie armate.

 

Anche per questo il NUG ha espresso preoccupazione per l’aumento delle tensioni nella municipalità di Tamu, in Myanmar, attribuendolo alla costruzione di recinzioni di confine da parte delle autorità indiane. Il governo indiano da tempo ha avviato lavori di recinzione ignorando le negoziazioni con il governo birmano.

 

D’altronde il NUG non ha nessun controllo sul territorio del Myanmar: con il colpo di Stato militare del febbraio 2021, il precedente governo, guidato dalla leader democratica Aung San Suu Kyi, è stato esiliato e le PDF, che fanno capo al NUG combattono contro l’esercito birmano insieme a una serie di milizie etniche che da decenni rivendicano il controllo delle aree abitate perlopiù da coloro che appartengono alle minoranze etniche.

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagfine di Ministry of Defence via Wikimedia pubblicata sui licenza Government Open Data License – India (GODL)

 

 

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Geopolitica

Turchia, effigie di Netanyahu appesa a una gru: «pena di morte»

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Un’effigie raffigurante il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stata avvistata appesa a una gru edile nel Nord-Est della Turchia, suscitando forte indignazione in Israele.   Secondo la stampa turca, l’episodio si è verificato sabato in un cantiere nella città di Trebisonda, sul Mar Nero. L’iniziativa sarebbe stata organizzata da Kemal Saglam, docente di comunicazione visiva presso un’università locale. Saglam ha dichiarato ai media turchi che il gesto aveva un intento simbolico, volto a denunciare le violazioni dei diritti umani a Gaza.   Le immagini, diffuse viralmente e riportate anche dal quotidiano turco Yeni Safak, mostrano la figura sospesa alla gru, accompagnata da uno striscione con la scritta: «Pena di morte per Netanyahu».   Il ministero degli Esteri israeliano, tramite un post su X, ha condiviso un video dell’incidente, accusando un accademico turco di aver creato l’effigie «con il fiero sostegno di un’azienda statale». Il ministero ha condannato l’atto, sottolineando che «le autorità turche non hanno denunciato questo comportamento scandaloso».  

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Le autorità turche non hanno ancora fornito una risposta ufficiale.   I rapporti diplomatici tra Israele e Turchia sono tesi da anni e si sono ulteriormente deteriorati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha accusato Netanyahu di aver commesso un «genocidio» a Gaza.   La Turchia, unendosi agli altri Paesi che hanno portato il caso al tribunale dell’Aia, ha accusato Israele di aver commesso un genocidio a Gaza. Il presidente Recep Tayyip Erdogan in precedenza aveva definito il primo ministro Benjamin Netanyahu «il macellaio di Gaza», suggerendo a un certo punto – in una reductio ad Hitlerum che è andata in crescendo, con contagio internazionale – che la portata dei suoi crimini di guerra superasse quelli commessi dal cancelliere della Germania nazionalsocialista Adolfo Hitlerro.   Nel 2023 la Turchia ha richiamato il suo ambasciatore da Israele e nel 2024 ha interrotto tutti i rapporti diplomatici. Mesi fa Ankara aveva dichiarato che Israele costituisce una «minaccia per la pace in Siria». Erdogan ha più volte chiesto un’alleanza dei Paesi islamici contro Israele.   Come riportato da Renovatio 21, i turchi hanno guidato gli sforzi per far sospendere Israele all’Assemblea generale ONU. L’anno scorso il presidente turco aveva dichiarato che le Nazioni Unite dovrebbero consentire l’uso della forza contro lo Stato degli ebrei.   Un anno fa Erdogan aveva ventilato l’ipotesi che la Turchia potesse invadere Israele.   La Turchia ha avuto un ruolo attivo nei recenti negoziati per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, con diversi rapporti che indicano come l’influenza di Ankara su Hamas abbia facilitato il rilascio degli ostaggi nell’ambito del piano in 20 punti del presidente statunitense Donald Trump.   Venerdì, Erdogan ha dichiarato alla stampa che gli Stati Uniti dovrebbero intensificare le pressioni su Israele, anche attraverso sanzioni e divieti sulla vendita di armi, per garantire il rispetto degli impegni presi nel piano di Trump.   Domenica, Netanyahu ha annunciato che Israele deciderà quali forze straniere potranno partecipare alla missione internazionale proposta per Gaza, prevista dal piano di Trump per garantire il cessate il fuoco. La settimana precedente, aveva lasciato intendere che si sarebbe opposto a qualsiasi coinvolgimento delle forze di sicurezza turche a Gaza.  

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Immagine screenshot da Twitter; modificata  
 
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Droga

Trump punta ad attaccare le «strutture della cocaina» in Venezuela

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Il presidente statunitense Donald Trump sta esaminando proposte per operazioni militari americane contro presunte «strutture per la produzione di cocaina» e altri bersagli legati al narcotraffico all’interno del Venezuela. Lo riporta la CNN, che cita fonti anonime.

 

Due funzionari non identificati hanno dichiarato alla rete che Trump non ha scartato l’ipotesi di un negoziato diplomatico con Nicolás Maduro, nonostante recenti indicazioni secondo cui gli Stati Uniti avrebbero interrotto del tutto i colloqui con Caracas, mentre valutano una possibile campagna per destituire il leader venezuelano.

 

Tuttavia, una fonte della CNN ha precisato che «ci sono piani sul tavolo che il presidente sta esaminando» per azioni mirate all’interno del Venezuela. Un terzo funzionario ha indicato che l’amministrazione Trump sta considerando varie opzioni, ma al momento si concentra sulla «lotta alla droga in Venezuela».

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A giudizio di alcuni esponenti dell’amministrazione statunitense, una campagna antidroga nel Paese sudamericano potrebbe accrescere la pressione per un cambio di regime a Caracas. Trump ha pubblicamente smentito l’intenzione di rimuovere Maduro dal potere.

 

Nelle scorse settimane, le forze armate americane hanno condotto vari raid contro imbarcazioni sospettate di narcotraffico e, secondo Washington, collegate al Venezuela, causando decine di vittime.

 

 

Giovedì, Trump – che aveva già confermato l’autorizzazione di operazioni della CIA in Venezuela – ha dichiarato che gli Stati Uniti potrebbero estendere la loro campagna antidroga dal mare alla terraferma, senza entrare in dettagli. Inoltre, la portaerei USS Gerald R. Ford è stata inviata nei Caraibi per sostenere l’operazione antidroga.

 

Maduro ha respinto ogni legame del suo governo con il traffico di stupefacenti, insinuando che gli Stati Uniti stiano usando le accuse come copertura per un cambio di regime. Dopo le notizie sul dispiegamento della portaerei, il presidente venezuelano ha accusato Washington di perseguire «una nuova guerra eterna».

 

Secondo un reportaggio del New York Times, Maduro stesso avrebbe proposto agli Stati Uniti significative concessioni economiche, inclusa la possibilità per le aziende americane di acquisire una quota rilevante nel settore petrolifero, durante negoziati segreti durati mesi. Tuttavia, Washington avrebbe rifiutato l’offerta, con il futuro politico del presidente Nicolas Maduro come principale ostacolo.

 

Un precedente articolo del quotidiano neoeboraceno riportava che Trump avesse ordinato l’interruzione dei colloqui con il Venezuela, «frustrato» dal rifiuto di Maduro di cedere volontariamente il potere. Il giornale suggeriva anche che gli Stati Uniti stessero pianificando una possibile escalation militare.

 

Nel frattempo, Maduro ha avvertito che il Venezuela entrerebbe in uno stato di «lotta armata» in caso di attacco, aumentando la prontezza militare in tutto il Paese.

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Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso, gli Stati Uniti hanno inviato almeno otto navi della Marina, un sottomarino d’attacco e circa 4.000 soldati vicino alla costa venezuelana, dichiarando che la missione mirava a contrastare i cartelli della droga. Washington ha sostenuto che l’armata ha affondato tre imbarcazioni venezuelane, senza però fornire prove che le persone a bordo fossero criminali.

 

La Casa Bianca accusa da tempo Maduro di guidare una rete di narcotrafficanti nota come «Cartel de los Soles», sebbene non vi siano prove schiaccianti o prove concrete che lo dimostrino, tuttavia lo scorso anno gli USA sono arrivati a sequestrare un aereo presumibilmente utilizzato dal presidente di Carcas. È stato anche accusato di aver trasformato l’immigrazione in un’arma, sebbene Maduro si sia mostrato pronto a dialogare con le delegazioni diplomatiche americane sulla questione.

 

Come riportato da Renovatio 21, a inizio anno Maduro aveva dichiarato che Washington ha aperto il suo libretto degli assegni a una schiera di truffatori e bugiardi per destabilizzare il Venezuela, quando gli Stati Uniti si sono rifiutati di riconoscere le elezioni del 2024 in Venezuela.

 

Secondo Maduro, almeno 125 militanti provenienti da 25 Paesi sono stati arrestati dalle autorità venezuelane. Aveva poi accusato Elone Musk di aver speso un miliardo di dollari per un golpe in Venezuela. Negli stessi mesi si parlò di un piano di assassinio CIA di Maduro sventato.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

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Geopolitica

Thailandia e Cambogia firmano alla Casa Bianca un accordo di cessate il fuoco

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Cambogia e Thailandia hanno siglato un accordo di cessate il fuoco ampliato per porre fine a un violento conflitto di confine scoppiato a inizio anno. La cerimonia di firma, tenutasi domenica, è stata presieduta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che aveva mediato la tregua iniziale.   Le tensioni storiche tra i due Paesi del Sud-est asiatico, originate da dispute territoriali di epoca coloniale, sono esplose a luglio con cinque giorni di scontri armati, che hanno spinto centinaia di migliaia di persone a fuggire dalla zona di confine. Un incontro ospitato dalla Malesia aveva portato a una prima tregua, segnando l’inizio della de-escalation.   Trump ha dichiarato di aver sfruttato i negoziati commerciali con entrambi i paesi per favorire una riduzione delle tensioni.  

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Durante il 47° vertice dell’ASEAN in Malesia, il primo ministro cambogiano Hun Manet e il primo ministro thailandese Anutin Charnvirakul hanno firmato l’accordo, che amplia la tregua di luglio.   Il documento stabilisce un piano per ridurre le tensioni e assicurare una pace stabile al confine, prevedendo il rilascio di 18 soldati cambogiani prigionieri da parte della Thailandia, il ritiro delle armi pesanti, l’avvio di operazioni di sminamento e il contrasto alle attività illegali transfrontaliere.   Dopo la firma, il primo ministro thailandese ha annunciato l’immediato ritiro delle armi dal confine e il rilascio dei prigionieri di guerra cambogiani, insieme a un’intesa commerciale congiunta. Il primo ministro cambogiano ha lodato l’accordo, impegnandosi a rispettarlo e ringraziando Trump per il suo ruolo, proponendolo come candidato al Premio Nobel per la Pace del prossimo anno.   Trump ha definito l’accordo «monumentale» e «storico», sottolineando il suo contributo e descrivendo la mediazione di pace come «quasi un hobby». Dopo la cerimonia, ha firmato un accordo commerciale con la Cambogia e un importante patto minerario con la Thailandia.

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