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Politica

QAnon Shaman si candida al Congresso USA

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Jacob Chansley, detto anche Jake Angeli, soprannominato dai media «QAnon Shaman» e figura-simbolo della rivolta di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 a Washington, sta ora cercando di tornare sul posto, epperò come membro del Congresso USA.

 

Il Chansley ha presentato documenti all’Arizona per candidarsi nell’ottavo distretto congressuale dello Stato nel 2024.

 

Chansley, ora 36enne, è un veterano della Marina americana che ha guadagnato fama – o notorietà – durante la protesta del 6 gennaio 2021 fuori dal Campidoglio degli Stati Uniti, quando migliaia di americani hanno contestato la certificazione delle elezioni del 2020 a favore del democratico Joe Biden. Si è presentato alla protesta a torso nudo, vestito di solo colore rosso, bianco e blu (la bandiera americana), indossando un cappello di pelliccia con le corna e portava una bandiera a stelle e strisce.

 

Lunedì diversi organi di informazione hanno riferito che Chansley ha presentato una dichiarazione di interesse al governo statale, specificando che si candida per un seggio al Congresso come candidato del Partito Libertario. Il seggio è attualmente occupato dalla repubblicana Debbie Lesko, 64 anni, che ha annunciato che non cercherà la rielezione.

 

«I media mi hanno chiamato “Q-Shaman” o “Qanon-Shaman”, ma si tratta di uno spaventapasseri che hanno creato nel tentativo di controllare la narrazione e distruggere la mia immagine pubblica», ha dichiarato Chansley su Twitter.

 

I democratici hanno affermato che i manifestanti che sostenevano l’allora presidente Donald Trump erano impegnati in una violenta «insurrezione», un termine usato nel 14° emendamento per privare dei diritti civili la parte sconfitta nella guerra civile americana.

 

Tuttavia, nessuno degli oltre 1.000 americani processati per il 6 gennaio è stato accusato di quel particolare crimine. Lo stesso Chansley si è dichiarato colpevole di ostruzione a un procedimento ufficiale.

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«Gli uomini d’onore ammettono quando hanno torto. Non solo pubblicamente ma a se stessi. Ho sbagliato ad entrare in Campidoglio. Non ho scuse», ha detto al giudice. Nel novembre 2021, Chansley è stato condannato a 41 mesi di prigione. Gli è stato concesso il rilascio anticipato nel marzo 2023, dopo aver trascorso un totale di 27 mesi dietro le sbarre, 11 dei quali in isolamento.

 

Chansley è stato rilasciato poco dopo che il giornalista televisivo Tucker Carlson ha mandato in onda un video, precedentemente non divulgato dal governo, che lo mostrava passeggiare pacificamente per il Campidoglio il 6 gennaio scortato dalla polizia.

 

Nei filmati era possibile vedere il Q-sciamano che, lungi dall’essere l’intruso scalmanato e violento che hanno dipinto i media (con commentatori goscisti a chiedersi in diretta perché la polizia non lo avesse ucciso lì al momento, visto che poteva farlo), ma, al contrario, si era mosso in maniera ordinata e rispettosa fra gli agenti della polizia, che pure lo hanno scortato per il palazzo aprendo per lui le porte.

 

Nel video si può sentire Chansley dire ai manifestanti che Trump «ha chiesto a tutti di tornare a casa» e che avrebbero dovuto farlo, avendo espresso il loro punto di vista.

 

 

Elon Musk, che aveva appena acquisito Twitter, all’epoca era una delle voci più importanti che condannavano il trattamento riservato dallo «sciamano» al governo federale.

 

«Chansley è stato falsamente descritto dai media come un criminale violento che cercava di rovesciare lo stato e che spingeva gli altri a commettere violenza. Ma qui esorta le persone a essere pacifiche e a tornare a casa», aveva scritto Musk.

 

Nel tour mediatico successivo alla sua liberazione, lo sciamano, oltre a raccontare la sua personale visione della vita e del cosmo, ha dichiarato che è stato cacciato dalla Marina dopo aver rifiutato il vaccino per l’antrace somministrato ai militari USA.

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Politica

Botte, caos e leggi «rubate» nel Parlamento di Taiwano

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Venerdì una sessione del parlamento monocamerale taiwanese, il cosiddetto Yuan legislativo, è scoppiata una poderosa rissa, con membri che hanno subito traumi cerebrali, fratture e altre ferite.   I legislatori si sono riuniti per discutere una controversa proposta dell’opposizione di criminalizzare i funzionari che rilasciano false dichiarazioni in Parlamento e di dare al parlamento maggiori poteri per controllare il governo.   La tensione era alta già prima della sessione, con i Parlamentari che urlavano e si spingevano a vicenda fuori dall’edificio di Taipei.   Le cose si sono intensificate ulteriormente quando, dentro la Camera dei deputati, alcuni membri eletti hanno iniziato a sferrare pugni ed eseguire mosse di arti marziali l’uno contro l’altro, picchiandosi come fabbri.   Filmati girati nello Yuan legislativo hanno mostrato che in diversi casi i legislatori uomini hanno attaccato le loro colleghe donne.   La rissa era sembrata placarsi più volte, prima di riaccendersi con rinnovata forza, e proseguire fino a tarda sera.      

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Gli scontri hanno coinvolto membri di tutti e tre i partiti: il Partito Democratico Progressista (DPP) del presidente eletto Lai Ching-te, che sarà inaugurato lunedì; il Kuomintang (KMT), all’opposizione, che ha tre seggi in più in parlamento rispetto al DPP ma non riesce a formare una maggioranza; e il Partito popolare di Taiwan (TPP), che detiene solo otto seggi.   Durante i tafferugli, un deputato del DPP è finito in ospedale dopo essere stato lanciato su un tavolo dai suoi avversari ed essere caduto con la testa.   Ad un certo punto, un politico ha afferrato il progetto di legge ed è scappato dall’aula in modo che i suoi colleghi non potessero votarlo. La vittoriosa corsa verso il ladrocinio di disegno di legge pare essere improntata su tecniche del giuoco del rugby e del football americano.     Ieri il DPP ha detto che almeno otto dei suoi membri sono rimasti feriti negli scontri, tra cui il segretario generale Rosalia Wu, che ha subito «gravi contusioni alla gabbia toracica».   Altri legislatori hanno riportato lesioni tra cui una commozione cerebrale, una frattura del coccige e una mano lussata. Il partito ha promesso di andare in tribunale per quelle che definisce «atrocità» commesse dai suoi rivali politici.   Il DPP ha accusato il Kuomintang e il TPP di «un abuso incostituzionale» della loro posizione nel tentativo di far passare proposte senza un consueto processo di consultazione. L’opposizione, tuttavia, insiste sul fatto che il partito di Lai sta cercando di «monopolizzare il potere» sull’isola resistendo ai cambiamenti.   Proteste spontanee degli elettori sono scoppiate fuori dal Parlamento.  

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L’isola di Formosa è stata colpita da un nuovo sisma di magnitudine 7.2 solo due mesi fa.   Oggi come allora, il Paese è un punto di tensione internazionale, tra le aperte minacce di invasione da parte della Repubblica Popolare Cinese e le manovre della flotta militare americana nell’area.   Come riportato da Renovatio 21, la tensione nella regione era salita quando a inizio anno il cacciatorpediniere lanciamissili USS John Finn della 7ª flotta USA ha annunciato il transito da sud a nord dello Stretto di Taiwano.   Due mesi fa il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la riunificazione di Taiwan e della Cina continentale è una «inevitabilità storica», mentre a novembre il Chen Binhua, appena nominato nuovo portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del Consiglio di Stato cinese, aveva avvertito che «l’indipendenza di Taiwan significa guerra».   Come riportato da Renovatio 21, durante il suo discorso per la celebrazione del centenario del Partito Comunista Cinese nel 2021 lo Xi, mostrandosi in un’inconfondibile camicia à la Mao, parlò della riunificazione con Taipei come fase di un «rinnovamento nazionale» e della prontezza della Cina a «schiacciare la testa» di chi proverà ad intimidirla.   Sinora, lo status quo nella questione tra Pechino e Taipei è stato assicurato dal cosiddetto «scudo dei microchip» di cui gode Taiwan, ossia la deterrenza di questa produzione industriale rispetto agli appetiti cinesi, che ancora non hanno capito come replicare le capacità tecnologiche di Taipei.   La Cina, tuttavia, sta da tempo accelerando per arrivare all’autonomia tecnologica sui semiconduttori, così da dissolvere una volta per tutte lo scudo dei microchip taiwanese. La collaborazione tra Taiwan e UE riguardo ai microchip, nonostante la volontà espressa da Bruxelles, non è mai davvero decollata.   Come riportato da Renovatio 21, il colosso del microchip TSMC ha dichiarato l’anno scorso che la produzione dei microchip si arresterebbe in caso di invasione cinese di Formosa.   I microchip taiwanesi sono un argomento centrale nella attuale tensione tra Washington e Pechino, che qualcuno sta definendo come una vera guerra economica mossa dall’amministrazione Biden contro il Dragone, che riprendono politiche della precedente amministrazione Trump.   Taipei aveva vissuto una enigmatica falsa emergenza invasione, propalato dai media, pochi mesi fa.

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Politica

Il ministro del gabinetto di guerra Gantz minaccia di far crollare il governo israeliano

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Benny Gantz, il membro centrista del gabinetto di guerra israeliano formato da tre persone, ha promesso di dimettersi dal governo se questo non si impegnerà in un nuovo piano d’azione per Gaza, che include la fine del dominio di Hamas, entro l’8 giugno. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha respinto l’ultimatum, descrivendolo come «parole infondate».

 

Parlando in un discorso televisivo sabato, Gantz – rivale politico di lunga data di Netanyahu e generale in pensione il cui partito si è unito alla coalizione di Unità Nazionale del Primo Ministro dopo l’attacco di Hamas – ha chiesto che il governo approvi un piano in sei punti per raggiungere «obiettivi strategici».

 

Tra questi ci sono il riportare a casa gli ostaggi, il rovesciamento del governo di Hamas, la smilitarizzazione dell’enclave palestinese e l’istituzione di «un meccanismo internazionale di governo civile per Gaza, che includa elementi americani, europei, arabi e palestinesi» che non includa Hamas e non sia sotto l’autorità del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

 

Il piano prevede anche la normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita.

 

«Se tu [Netanyahu] metti la questione nazionale al di sopra del personale… troverai in noi dei partner nella lotta», ha dichiarato il Gantz. «Ma se scegliamo la strada dei fanatici e portiamo l’intera nazione nell’abisso, saremo costretti a lasciare il governo».

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Netanyahu ha risposto dicendo che il Gantz ha scelto di «lanciare un ultimatum al primo ministro invece di lanciare un ultimatum a Hamas».

 

Le condizioni che ha posto «sono parole inutili il cui significato è chiaro: la fine della guerra e la sconfitta di Israele, l’abbandono della maggior parte degli ostaggi, il mantenimento di Hamas intatto e la creazione di uno Stato palestinese», ha affermato l’ufficio del Primo Ministro, in una dichiarazione citata dai media.

 

Gantz ha fatto i suoi commenti pochi giorni dopo che il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant – il terzo membro del gabinetto di guerra istituito nei primi giorni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre – ha criticato il fallimento del governo Netanyahu nell’affrontare la questione di una strategia postbellica per Gaza.

 

Domenica, i deputati di Unità Nazionale Matan Kahana e Pnina Tamano-Shata hanno dichiarato alla testata online Ynet che l’ultimatum dell’8 giugno dato dal leader del partito Gantz «non è una data scolpita nella pietra».

 

«Se capiamo già prima che il primo ministro Benjamin Netanyahu è determinato, come al solito, a non prendere decisioni su questioni critiche, non aspetteremo fino ad allora», ha detto Kahana. «Il primo ministro si è astenuto dal prendere decisioni per ragioni di sopravvivenza politica. Tutto questo deve finire».

 

Come riportato da Renovatio 21, il ministro israeliano Itamar Ben Gvir aveva minacciato di far cascare il governo Netanyahu, di cui è membro con il suo partito ultrasionista Otzma Yehudit («Potere ebraico») qualora l’esercito israeliano non fosse entrato a Rafah.

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Immagine di IDF Spokesperson’s Unit via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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La Turchia mette in galera il capo dell’opposizione

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Un tribunale turco ha condannato il leader dell’opposizione filo-curda Selahattin Demirtas a 42 anni di prigione per il suo ruolo nell’alimentare le proteste mortali sul conflitto in Siria. Anche più di una dozzina di alleati politici di Demirtas furono incarcerati.   Demirtas è stato condannato per un totale di 47 accuse, hanno riferito i media turchi, tra cui cospirazione, incitamento alla violenza, disturbo dell’unità statale e impegno nella propaganda per conto di un’organizzazione terroristica.   A 51 anni, Demirtas probabilmente morirà in prigione se i suoi tentativi di appellarsi alla sentenza non avranno successo, scrive RT.   Demirtas era una delle 108 persone accusate nel cosiddetto processo di Kobane. Il caso era incentrato sulla città siriana di Kobane, dove militanti curdi e jihadisti dello Stato Islamico stavano combattendo per il controllo della città nel 2014. Demirtas ha accusato le truppe turche – che all’epoca scambiavano fuoco oltre confine con i curdi – di restare a guardare mentre l’ISIS assediava la città e di impedire la fuga dei curdi.   In qualità di leader del Partito Democratico Popolare filo-curdo (HDP), Demirtas ha incitato alle proteste nelle regioni a maggioranza curda della Turchia meridionale. Le manifestazioni sono diventate rapidamente violente e hanno provocato 37 morti e centinaia di feriti.

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Due mesi prima delle proteste, il Demirtas era arrivato terzo alle elezioni presidenziali turche. Ha continuato a sfidare nuovamente il presidente Recep Tayyip Erdogan per la presidenza nel 2018, conducendo la sua campagna da dietro le sbarre.   Delle 108 persone accusate di aver orchestrato o partecipato alle proteste, 18 sono state incarcerate giovedì. Le accuse contro altri 12 sono state ritirate, mentre 18 sono stati liberati in attesa di ulteriori udienze in tribunale e 72 rimangono latitanti. L’ex co-leader dell’HDP Figen Yuksekdag è stato condannato a 32 anni per accuse simili a quelle mosse contro Demirtas.   Testimoniando l’anno scorso, Demirtas ha descritto il caso come “vendetta politica” e i suoi presunti co-cospiratori come “ostaggi politici”. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte chiesto il suo rilascio.   Ankara, d’altro canto, vede l’HDP come un braccio del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che la Turchia, gli Stati Uniti e l’UE considerano tutti un’organizzazione terroristica. Il PKK conduce dagli anni ’80 un’insurrezione contro lo Stato turco, che ha causato la morte di decine di migliaia di persone.   Ad Ankara sono attualmente in corso procedimenti per mettere fuori legge l’HDP e per bandire dalla politica più di 450 dei suoi membri. Nonostante la condanna dei gruppi per i diritti umani, il procuratore turco Bekir Sahin ha dichiarato nel 2021 che lo scioglimento del partito era necessario poiché era impegnato in «attività volte a distruggere e ad abolire l’unità indivisibile dello Stato».  

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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