Pensiero
Musk e Carlson chiedono di Gonzalo Lira
L’amministrazione del presidente americano Joe Biden è stata complice dell’arresto di uno scrittore americano che è stato incarcerato e torturato in Ucraina per aver criticato il governo di Kiev, ha affermato il padre di Gonzalo Lira, lo YouTuber catturato da Kiev del quale non si hanno più notizie.
Il padre crede che suo figlio possa aver segnato il suo destino quando si è espresso anche contro Washington. Di fatto, nel suo ultimo messaggio dal confine ucraino-ungherese mentre tentava di fuggire in moto, Lira aveva dichiarato che gli era arrivata voce del fatto che Victoria Nuland avesse perfettamente presente il suo caso, e che provasse odio profondo nei confronti del cileno-statunitense.
Gonzalo Lira è stato arrestato dalle autorità ucraine per la terza volta ad agosto mentre cercava di fuggire in Ungheria dopo essere stato rilasciato su cauzione. Lo scrittore cileno-americano aveva più volte criticato il governo del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, sostenendo che Kiev aveva provocato il conflitto con la Russia e non aveva alcuna possibilità di vincere.
«Ciò che sta accadendo a mio figlio, è una vittima del governo Biden e della sua relazione con quel burattino Zelens’kyj», ha detto sabato Gonzalo Lira Sr. in un’intervista con il giornalista e commentatore politico statunitense Tucker Carlson. «Zelens’kyj è un uomo che ha fatto sparire gli oppositori, gli oppositori politici».
Il padre ottantenne ha detto che suo figlio aveva coraggiosamente denunciato circa una dozzina di oppositori di Zelens’kyj che erano stati «scomparsi». Il giovane Gonzalo Lira aveva anche previsto correttamente che l’economia russa sarebbe rimasta relativamente indenne dalle sanzioni occidentali e che i membri della NATO avrebbero subito un effetto boomerang dai loro sforzi per armare l’Ucraina e punire Mosca.
Ep. 47 Gonzalo Lira is an American citizen who’s been tortured in a Ukrainian prison since July, for the crime of criticizing Zelensky. Biden officials approve of this, because they’d like to apply the same standard here. The media agree. Here’s a statement from Gonzalo Lira’s… pic.twitter.com/4H2otHhYHi
— Tucker Carlson (@TuckerCarlson) December 9, 2023
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Tuttavia, solo dopo aver aspramente criticato Biden e la vicepresidente americana Kamala Harris, il blogger è stato arrestato per la seconda volta a maggio, ha detto a Carlson Gonzalo Lira Sr.
«Non è strano che quattro giorni dopo, dopo aver condannato Joe Biden e Kamala Harris, Gonzalo sia stato arrestato?» ha chiesto il padre di Gonzalo. «Perché non è stato arrestato prima? Quando l’anno precedente era stato preso, aveva continuato a criticare la guerra con le stesse parole».
«Il governo americano, con il suo silenzio di fronte a questo scandaloso incidente, suggerisce una certa complicità, o almeno una tacita approvazione, dell’arresto di Gonzalo» accusa il padre.
Lira senior ha contrapposto la «evidente mancanza di risposta» dell’amministrazione Biden all’arresto di suo figlio agli sforzi aggressivi di Washington per ottenere il rilascio di Evan Gershkovich, un giornalista del Wall Street Journal arrestato in Russia con l’accusa di spionaggio a marzo.
Gonzalo Lira per la sua difesa legale è stato affidato dalle autorità ad un avvocato ucraino nominato dal tribunale che non parla inglese. Poco prima di essere catturato in agosto, aveva avvertito il suo pubblico che se non fosse riuscito a entrare sano e salvo in Ungheria e a non ottenere l’asilo politico, probabilmente sarebbe morto in un campo di lavoro ucraino.
Il padre dello scrittore ha definito suo figlio un prigioniero politico e ha sostenuto che il suo caso illustra l’assurdità delle affermazioni statunitensi secondo cui il mondo deve difendere «libertà e democrazia» in Ucraina. «Se vogliamo proteggere la democrazia nel mondo, cominciamo eliminando quel burattino chiamato Zelens’kyj».
Il video di Carlson con il padre di Lira ha smosso anche Elon Musk, che in un post su Twitter ha contattato sia il presidente degli Stati Uniti Joe Biden che il suo omologo ucraino Zelens’kyj, chiedendo riguardo allo status di Gonzalo Lira.
President @ZelenskyyUa, please educate the American people about this matter
— Elon Musk (@elonmusk) December 9, 2023
Nel suo commento all’intervista, Musk si è chiesto come sia possibile che «un cittadino americano sia in prigione in Ucraina dopo che abbiamo inviato oltre 100 miliardi di dollari» per sostenere Kiev nel suo conflitto con la Russia.
An American citizen is in prison n Ukraine after we sent over a $100 billion?
Is there more to this story than simply criticizing Zelensky?
If that’s all it is, then we have serious problem here.
— Elon Musk (@elonmusk) December 9, 2023
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«C’è di più in questa storia oltre alla semplice critica a Zelenskyj? Se è tutto qui, allora abbiamo un problema serio», ha scritto su il capo di Tesla. Carlson gli ha risposto al messaggio dicendo che il «crimine» commesso da Lira, romanziere e regista con un passato a Hollywood, è stato «dire cose non approvate».
Domenica, Musk ha affrontato direttamente scrivendo: «Qual è lo status di questo giornalista americano, Joe Biden?». Nel post era taggato il post del presidente, ed era incluso un collegamento all’ultimo post di Lira su Twitter prima del suo terzo arresto da parte delle autorità ucraine all’inizio di agosto.
What is the status of this American journalist @JoeBiden? https://t.co/KBPCxU0Roa
— Elon Musk (@elonmusk) December 10, 2023
In seguito, commentando il fatto che i Community Notes – il sistema di verifica dei fatti del nuovo Twitter – era immediatamente attivato sui post su Lira, Musk ha scritto di aver compreso che dietro ad essi vi era un «attore statale», caduto in trappola, secondo Elon.
Interesting. This Note is being gamed by state actors. Will be helpful in figuring who they are.
Thanks for jumping in the honey pot, guys lmao!
— Elon Musk (@elonmusk) December 10, 2023
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«Interessante. Questa nota viene ingannata dagli attori statali. Sarà utile per capire chi sono. Grazie per esserti tuffato nel vaso del miele, ragazzi, lmao!»
Nel suo messaggio il giornalista ha detto che stava per passare dall’Ucraina all’Ungheria in cerca di asilo politico. «O attraverserò il confine e mi metterò in salvo, oppure il regime di Kiev mi farà sparire», aveva detto ai suoi follower.
Interrogato sull’argomento dal notiziario Strana.ua, un portavoce del Servizio di sicurezza ucraino (SBU) ha confermato che Lira era stato arrestato al confine con l’Ungheria. Il giornalista statunitense sarebbe attualmente detenuto nella seconda città più grande dell’Ucraina, Kharkov, con un tribunale che esaminerà il suo caso il 12 e 21 dicembre, sostiene il giornale ucraino.
Secondo il portavoce, Lira ha violato la legge ucraina poiché ha «giustificato sistematicamente» le azioni della Russia in Ucraina e «ha diffuso opinioni filo-russe sui suoi account sui social media». Nei suoi video «ha anche affermato che le forze armate ucraine bombardavano il proprio territorio, mentre in Ucraina regnava un regime neonazista».
Lira, che viveva a Kharkov dalla metà degli anni 2010, ha seguito attivamente l’operazione militare russa nel Paese fin dall’inizio, nel febbraio 2022. Nei suoi video ricordava che è stata una tragedia per l’Ucraina e il suo popolo, che amava, ma sottolineava anche come secondo lui il conflitto era stato provocato dal governo Zelens’kyj e dai suoi sostenitori occidentali.
Il giornalista sosteneva inoltre che l’Ucraina non ha alcuna possibilità di vincere contro la Russia e ha previsto il fallimento delle sanzioni contro Mosca, e denunciava i tentativi dei media occidentali di dipingere l’Ucraina come una democrazia, parlando di corruzione nel governo e pubblicando un elenco degli oppositori di Zelens’kyj che, secondo lui, erano stati fatti sparire dalle autorità di Kiev.
Un video di Lira, pubblicato da Kiev a inizio conflitto, fu rilanciato dalla TV russa, rendendolo inviso al Paese che lo ospitava.
Lira era stato arrestato per la prima volta dalla SBU nell’aprile 2022, ma rilasciato senza accuse una settimana dopo quando la storia ha fatto notizia a livello internazionale.
Il 55enne ha continuato a denunciare e, a maggio, è stato nuovamente arrestato e accusato di «produzione e distribuzione di materiale che giustifica l’aggressione armata» della Russia contro l’Ucraina. Di lui, per mesi, si era persa ogni traccia.
Come riportato da Renovatio 21, il 1° agosto il giornalista era riapparso brevemente sui social media, pubblicando diversi video in cui affermava di essere stato rilasciato su cauzione e di star cercando di fuggire nella vicina Ungheria per evitare una lunga pena detentiva. Da allora non si hanno più sue notizie.
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Eutanasia
Il vero volto del suicidio Kessler
Vi è tutta una tradizione di geremiadi sulle stragi perpetrate dai tedeschi in Italia, che va dal Sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527) agli eccidi compiuti dai soldati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una strage ulteriore è partita in queste ore, ma pare non ci sia nessuno a cercare di fermarla: anzi, consapevoli o no, i funzionari dell’esablishment, e di conseguenza il quivis de populo, sono impegnati ad alimentarla.
Esiste infatti un fenomeno sociologico preciso, conosciuto ormai da due secoli, chiamato «effetto Werther», che descrive l’aumento dei suicidi in seguito alla diffusione mediatica di un caso di suicidio, per imitazione o suggestione emotiva. Esso prende nome dal romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774), la cui pubblicazione fu seguita da una serie di suicidi imitativi tra i giovani europei, tanto da spingere alcune nazioni a vietarne la vendita.
Quella del suicidio come contagio non è un residuo dello scorso millennio. Vogliamo ricordare, specie all’Ordine dei Giornalisti e alle autorità preposte, che le direttive per il discorso pubblico sui suicidi sono molto precise: le cronache del suicidio vanno limitate, soppesate, controllate, perché è altissima la possibilità che i lettori ne traggano un’ulteriore motivazione per farla finita. Perfino nei motori di ricerca, alla minima query sulla materia, spuntano come funghi i numeri di telefono delle linee anti-suicidio.
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«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita» scrive l’Ordine, che sull’argomento organizza pure abbondanti corsi di aggiornamento.
Tutto questo pudore civile e spirituale è stato completamente inghiottito dalla propaganda sulle nuove frontiere dell’autodeterminazione, quella che vuole convincere tutti di essere padroni incontrastati della propria vita e della propria morte, e ci sta riuscendo alla grande. La morte assistita assume pure, in quest’era grottesca, le forme delle gambe delle Kessler – che, forse temendo un cortocircuito di senso, non si sono rivolte per la pratica all’Associazione Coscioni.
Il loro è stato un bel finestrone di Overton aperto sull’autosoppressione pianificata: basta guardare come ne parlano i giornali, le TV, gli ebeti al bar, per comprendere come esso serva a sdoganare definitivamente il suicidio come valore.
E per giunta una forma di suicidio nuova, con conseguenze sul racconto pubblico ancor più insidiose: par di capire infatti che si tratti di un suicidio per «vita completa», cioè il caso in cui l’aspirante morituro sente di aver esaurito, con più o meno soddisfazione, la sua esistenza. In Olanda, dove la fattispecie trova la naturale assistenza dello Stato eutanatico fondamentalista, la chiamano voltooid leven, e si adatta agli anziani (di solito tra i 70–75 anni) che non soffrono gravemente e spesso godono di una salute relativamente buona, ma che vogliono concludere la vita dettando loro le condizioni: i tempi, il contesto, la scenografia.
Le Kessler avevano deciso di morire. La piccola autostrage omozigotica era perfettamente programmata: la disdetta dell’abbonamento al quotidiano bavarese spedita per lettera con la data esatta del suicidio (la precisione tedesca!), i regalini inviati per arrivare a destinazione post mortem, la disposizione di essere cremate (ovvio) e di mettere in un’urna unica le proprie ceneri insieme a quelle della madre e del cane Yello. Particolare, quest’ultimo che, nel finestrone, apre un altro finestrino.
Le gemelle erano, come tante persone morbosamente legate a cani e gatti, nullipare: niente figli, per scelta emancipativa (tra le cronache che le immortalavano accompagnate a questo o quel divo, dicevano di aver visto il papà picchiare la mamma i fratelli morire in guerra: come in effetti non è mai accaduto a nessuno).
Morire così, facendosi trovare in una casa vuota, è qualcosa che ripugna al pensiero di chiunque abbia una famiglia. Perché, nella scansione naturale per cui si è figlie, ragazze, fidanzate, spose, madri, nonne, la casa si riempie di consanguinei e nemmeno solo di quelli. Nella famiglia (non fateci aggiungere l’aggettivo «tradizionale») non si può morire soli: la tua mano è stretta tra quelle di tante persone di generazioni diverse. Abbiamo in mente il caso di una nonna veneta, che, attorniata da una dozzina di figli, nipoti e pronipotini, mentre moriva pronunciò due semplici e inaspettate parole: «me spiaze», mi dispiace. Del resto, si accingeva a lasciare un intero universo che non solo non era vuoto, ma che materialmente, incontrovertibilmente, le voleva bene.
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Ecco la condanna definitiva che proviene dal mondo creatosi con il dopoguerra e il boom economico: egotismo infinito e terminale che arriva ad impedire, oltre che la trascendenza, pure la discendenza. Persone narcotizzate e sterilizzate dalla TV, o per chi come loro stava dall’altra parte, catturate dal culto dell’immagine e del successo; soggetti che, programmaticamente rifiutando di procreare – e quindi di tramandare un pezzo della propria vita biologica, un pezzo di codice, un pezzo di cuore – coltivano una visione solipsista dell’esistenza suscettibile di sfociare nel nichilismo sociopatico. Si precludono così quella forma istintiva di empatia che, antivedendo il danno che un gesto estremo può provocare ad altri, tiene in conto la possibilità concreta che questo si traduca in pedagogia distorta.
Le Kessler in apparenza incarnavano il simbolo di un’era di gioia morigerata, di eleganza e di innocenza – mostravano al massimo le gambe chilometriche, mentre l’economia prosperava e il mondo costruiva una pace con il tetto di armi termonucleari – ma quell’era (che mai dobbiamo rimpiangere!) non ha fatto altro che preparare il terreno all’ambiente malato in cui ci tocca vivere nell’ora presente. Dove non c’è nulla al di fuori di me, non c’è l’al di là, ma neppure l’al di qua: no figli, no nipoti, no amici, no consorzio umano in generale. Perché, sì, l’utilitarismo edonista caricatosi nelle menti dei boomer così come nel sistema della medicina di Stato e dello Stato moderno tutto, è un orizzonte disumano e disumanizzante.
La vita svuotata di ogni dimensione che non sia il piacere, la vita che non contempla il dolore, non può non portare che al desiderio di morte quando la percezione del piacere sfuma, o quando appare il dolore, o anche quando, in assenza di dolore, c’è la paura che esso prima o poi si manifesti. La soglia che legittima la compilazione del modulo con la richiesta di morte si anticipa sempre di più, e lo Stato genocida è pronto ad assolverla sotto la maschera bugiarda della pietà anche per chi semplicemente desideri allestire il proprio teatrino funebre curando e controllando ogni dettaglio della scena, per chiudere il sipario definitivo sotto la propria esclusiva regia.
Lo scrittore francese Guy Debord, proprio negli anni in cui le Kessler allungavano i loro arti a favore di telecamere RAI, aveva pubblicato un piccolo saggio, invero un po’ sopravvalutato, intitolato La società dello spettacolo. Ebbene, ora che quella generazione è arrivata alla raccolta, potremmo aggiungerci una specificazione e parlare di società dello spettacolo della morte.
Come fosse il loro ultimo balletto, la morte procurata delle soubrette non è dipinta dai media alla stregua di un fatto tragico – anzi. Se neanche troppi anni fa di un suicidio si dava conto sulle pagine della cronaca (con relativa descrizione di particolari squallidi e disturbanti), oggi potrebbe finire tranquillamente nella rubrica degli spettacoli perché, in fondo, anche quello fa parte della carriera.
Quando una decina di anni fa, lanciandosi dalla finestra, si suicidò il regista Mario Monicelli, il cui successo fu coevo a quello delle Kessler, non fu del tutto possibile, per questioni organolettiche, esaltarne il gesto. Ora invece sì, perché non c’è la star spiaccicata sull’asfalto, non c’è nulla da pulire, il quadretto è asettico come nella brochure di un mobilificio.
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Forse, inzuppati e inflacciditi dentro il brodo avvelenato della pubblicità progresso, non ci rendiamo più nemmeno conto di cosa alligni dietro la stomachevole apologia della carriera televisiva delle ballerine e del loro gesto orrendo, impacchettati entrambi nello stesso cartoccio mediatico che vuole profumare di teutonica, himmleriana, perfezione – quando in realtà puzza di cadavere e di impostura.
Non ci rendiamo conto di cosa significhi un messaggio patinato così violento nella sua apparente dolcezza per chi ne viene investito quando magari debba ancora capire, perché nessuno glielo ha trasmesso, il senso del vivere e il senso del morire, l’ineludibilità della sofferenza e la nobiltà che risiede nella forza di farsene carico.
Ci resta, ora, la conta impossibile di quanti ci faranno un pensiero a togliersi di mezzo dopo l’esempio delle gemelle suicide. Magari persone che un tempo le guardavano ballare in TV, che hanno lavorato e penato una vita intera, alle quali il suicidio di due soubrette VIP dovrebbe suonare come uno schiaffo in faccia e invece un sistema putrescente vuole far apparire come un addio di gran classe.
Chi può contrapponga subito a loro, nella mente, l’antidoto più naturale: il ricordo della propria nonna, che ha figliato, patito, lavorato per la discendenza con infinite ore-uomo, con un’eternità di pranzi della domenica e di racconti e di ricami, la nonna saggia e piena di affetto per chi veniva dopo di lei.
Perché dopo di lei qualcosa c’è: ci siamo noi, c’è la vita e c’è un mondo da ricostruire.
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata
Pensiero
Il Corriere e Lavrov, apice del cringe giornalistico italiano
Il video fantastico (tradotto in italiano) della #Zakharova che smerda i giornalai del Corriere della Serva per aver ridotto l’intervista a #Lavrov con la scusa che “non c’era sazio sul giornale” (e neanche sul sito web… e neanche lo spazio per un link da cui fosse possibile… pic.twitter.com/KfyimUl3du
— Sabrina F. (@itsmeback_) November 13, 2025
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L’inviato del Corriere a Kiev va davanti al Monastero delle Grotte e produce un documento che segna contemporaneamente il culmine sia della propaganda occidentale che di quella russa. pic.twitter.com/miLeXY85EG
— Marco Bordoni (@bordoni_russia) April 4, 2023
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