Pensiero
Mons. Viganò: il Natale del Re Bambino e la sua Signoria sulla Chiesa e sulle Nazioni
Renovatio 21 pubblica questo testo di Monsignor Carlo Maria Viganò.
DESIDERATUS CUNCTIS GENTIBUS
L’Incarnazione del Verbo di Dio inaugura la Signoria di Cristo sulla Chiesa e sulle Nazioni.
Discite justitiam moniti, et non temnere divos.
Venditit hic auro patriam, dominumque potentem
imposuit, fixit leges pretio atque refixit;
hic thalamum invasit natæ vetitosque hymenæos;
ausi omnes immane nefas ausoque potiti.
Æn., VI, 620-624
I. Premessa
La dottrina della Regalità di Cristo costituisce un discrimen tra la Chiesa Cattolica e la «chiesa conciliare», anzi esso è il punto di separazione tra ortodossia cattolica e eterodossia neomodernista, perché i seguaci del laicismo e del secolarismo liberale non possono accettare che la Signoria di Nostro Signore si estenda alla sfera civile sottraendola all’arbitrio dei potenti o alla volontà della massa manipolabile.
Eppure, l’idea stessa che l’autorità abbia il proprio fondamento in un principio trascendente non è nata con il Cristianesimo, ma fa parte della nostra eredità greco-romana.
La stessa parola greca ἱεραρχία indica la «amministrazione delle cose sacre» da un lato, ma anche il «sacro potere» dell’autorità, dove gli impegni connessi ad essa costituiscono significativamente una λειτουργία, un ufficio pubblico di cui si fa carico lo Stato.
Similmente, la negazione di questo principio è appannaggio del pensiero ereticale e dell’ideologia massonica. La laicità dello Stato costituisce la principale rivendicazione della Rivoluzione Francese a cui il Protestantesimo ha fornito le basi teologiche, mutatesi poi in errore filosofico con il liberalismo e con il materialismo ateo.
Questa visione di un tutto coerente e armonioso che attraversa lo scorrere del tempo e valica i confini dello spazio, conducendo l’umanità alla pienezza della Rivelazione di Cristo fu propria di quella Civiltà che oggi si vuole rimossa e cancellata in nome di una distopia che è disumana perché intrinsecamente empia, in quanto originata dall’inestinguibile odio dell’Avversario, eternamente privato del sommo Bene a causa del proprio orgoglio e della ribellione alla Volontà di Dio.
Non stupisce che i nostri contemporanei non riescano a comprendere le ragioni della crisi presente: essi si sono lasciati defraudare del patrimonio di saggezza e memoria costituitosi nel corso della Storia grazie all’intervento pedagogico della Provvidenza, che ha inscritto nel cuore di ogni uomo i principi eterni che devono orientare ogni aspetto della loro vita
Questa mirabile παιδεία ha consentito che popoli lontani da Dio e immersi nelle tenebre del paganesimo potessero purtuttavia predisporsi con mezzi naturali all’irrompere della dimensione soprannaturale nella Storia, all’avvento di Cristo, nel Quale tutto si ricapitola e si mostra come parte del κόσμος divino.
Quando Augusto ordinò la pubblicazione dell’Eneide – che Virgilio aveva disposto nel proprio testamento di distruggere, considerandola incompleta – era da poco iniziata la pax romana in tutto l’Impero; una pax concessa al mondo per accogliere l’Incarnazione del Figlio di Dio e strappare l’umanità alla schiavitù di Satana.
Di quella pace solenne e sacra echeggiano ancor oggi le grandiose parole del Martirologio Romano, che ascolteremo ancora una volta la mattina della Vigilia di Natale:
Ab urbe Roma condita anno septingentesimo quinquagesimo secundo, anno imperii Octaviani Augusti quadragesimo secundo, toto orbe in pace composito… Jesus Christus aeternus Deus aeternique patris Filius, mundum volens adventu suo piissimo consecrare, de Spiritu Sancto conceptus, …in Betlhem Judæ nascitur ex Maria Virgine factus homo.
Solo quarant’anni prima della Nascita del Salvatore, Virgilio ebbe modo di frequentare i figli di Erode venuti a studiare a Roma: fu da loro che egli conobbe le profezie messianiche dell’Antico Testamento e l’annuncio dell’imminente nascita del Puer cantato nella Egloga IV:
Jam redit et Virgo, redeunt Saturna regna,
jam nova progenies cœlo demittitur alto.
Tu modo nascenti Puero, quo ferrea primum
desinet, ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina: tuus jam regnat Apollo. (1)
e che Dante fa ricordare a Stazio nel Purgatorio (XXII, 70-72):
Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova.
In questa attesa trepidante dell’avvento di Cristo, Augusto salva dalla distruzione il poema virgiliano, scorgendo in esso quell’anelito ad un mondo in cui viga la pace, dopo un secolo di guerre civili. Egli vide in Enea il modello di chi si riconosce pius in quanto rispettoso del volere divino e dei vincoli che ne derivano verso la Patria e la famiglia, inserito dalla Provvidenza nelle vicende contingenti della Storia, partecipe della volontà di Dio fissata nell’eternità.
Possiamo facilmente comprendere per quale motivo l’anima di una persona retta e onesta, ancorché privata della Fede, potesse sentirsi mossa a un nobile destino, dinanzi al quale tacciono gli dei falsi e menzogneri, rimane muta la Sibilla e si ritira l’Oracolo dell’Aracœli.
Scorgiamo allora nel fato – fas in latino – il richiamo al verbo fari, che significa «parlare» e rimanda al Verbo di Dio, alla Parola eterna pronunciata dal Padre. Il Cristiano rimane ammirato da tanta paterna bontà, da questa mano provvidente che accompagna l’umanità che vaga nelle tenebre verso la Luce di Cristo, Redentore del genere umano.
Vi è, in questa visione della Storia e dell’intervento di Dio in essa, qualcosa di ineffabile che commuove e sprona al Bene, che risveglia negli animi la speranza di atti eroici, di ideali per cui combattere e dare la vita.
Fu su questa perfetta composizione di temporale ed eterno, di natura e Grazia, che il mondo poté accogliere e riconoscere il Messia promesso, il Principe della pace, il Rex pacificus vincitore del peccato e della morte, il Desideratus cunctis gentibus.
Dal Cenacolo alle catacombe, dalle comunità dei primi Cristiani alle basiliche romane convertite al culto del vero Dio, si leva la preghiera che il Signore insegnò agli Apostoli: adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua sicut in cœlo et in terra.
Così un Impero pagano divenne culla della Cristianità, e con le proprie leggi e la propria influenza civile e sociale rese possibile la diffusione del Vangelo e la conversione delle anime a Cristo.
Anime semplici, certamente; ma anche anime di persone erudite, di nobili romani, di funzionari imperiali, di diplomatici e intellettuali, che riuscivano a vedersi – come il pius Æneas – coinvolti in un piano provvidenziale, chiamati a dare un senso a quelle virtù civiche, a quell’anelito alla giustizia e alla pace che senza la Redenzione sarebbe rimasto incompleto e sterile.
II. Il ruolo «provvidenziale» dello Stato
L’economia della Salvezza, in questa visione «medievale» e cristiana degli eventi, riconosce ai singoli individui il privilegio di essere essi stessi parte di questo grande piano della divina Provvidenza: una actuosa participatio – mi si perdoni il prestito di una locuzione cara ai Novatori – dell’uomo all’intervento di Dio nella Storia, in cui la libertà di ciascuno si trova dinanzi alla scelta morale, e quindi determinante per il suo destino eterno, tra Bene e Male, tra il conformarsi alla volontà di Dio – fiat voluntas tua – e il seguire la propria – non serviam – disobbedendoGli.
Tuttavia, proprio nell’adesione dei singoli all’azione della Provvidenza, comprendiamo come la società terrena, che da questi individui è composta, assuma a sua volta un ruolo nel piano di Dio, consentendo che le azioni dei suoi membri siano indirizzate con maggiore efficacia dall’autorità dei governanti verso il bonum commune che li unisce nel perseguimento del medesimo fine.
Lo Stato, come società perfetta – ossia che possiede in sé tutti i mezzi necessari al perseguimento del quid unum perficiendum – riveste quindi una funzione propria, principalmente ordinata al bene dei cittadini, alla tutela dei loro legittimi interessi, alla protezione della Patria dai nemici esterni e interni, al mantenimento dell’ordine sociale.
Va da sé che, facendo esperienza dei tentativi e dei fallimenti di chi ci ha preceduto – secondo la visione eminentemente cristiana di Giambattista Vico – i popoli civilizzati abbiano saputo cogliere l’importanza dello studio della Storia, consentendo un reale progresso e riconoscendo la validità del pensiero aristotelico-tomista proprio perché sviluppatosi sulla base della conoscenza della realtà e non sulla creazione di teorie filosofiche astratte.
Troviamo questa visione di buon governo emblematicamente rappresentata negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti del Palazzo Pubblico di Siena, a conferma della profonda religiosità della società medievale; una religiosità dell’istituzione, certo, ma che era condivisa e fatta propria da coloro che, rivestiti di funzioni pubbliche, consideravano il proprio ruolo come espressione coerente con l’ordine divino – il κόσμος, appunto – impresso dal Creatore al corpo sociale.
Di questo ruolo storico dell’Impero Romano abbiamo un esempio nell’Eneide (VI, 850-853):
Tu regere imperio populos Romane memento
hæ tibi erunt artes, pacisque imponere morem,
parcere subjectis et debellare superbos.
Fu la consapevolezza di questa missione provvidenziale che rese grande Roma; fu il tradimento di questo compito a causa della corruzione dei costumi a decretarne la caduta.
III. Il concetto di laicità e la secolarizzazione del potere
Né sarebbe stato possibile altrimenti, dal momento che il concetto di «laicità dello Stato» era del tutto impensabile tanto per i governanti quanto per i sudditi delle Nazioni occidentali di qualsiasi epoca precedente la Pseudoriforma protestante.
Solo a partire dal tardo Rinascimento la teorizzazione dell’ateismo consentì di formulare un pensiero filosofico che sottraesse il singolo individuo al dovere di riconoscere e rendere culto pubblico alla divinità; e fu con l’Illuminismo che i principi massonici conobbero una diffusione tramite la secolarizzazione forzata della società civile successiva alla Rivoluzione Francese, al rovesciamento delle Monarchie di diritto divino e alla feroce persecuzione contro la Chiesa Cattolica.
Oggi il mondo contemporaneo considera un merito rivendicare la propria laicità, mentre nel mondo greco-romano la ribellione agli dei era considerata marchio di empietà e segno di rivolta verso lo Stato, la cui autorità era espressione di un potere sancito e ratificato dall’alto.
Discite justitiam moniti, et non temnere divos, ammonisce Flegias, precipitato nel Tartaro e condannato a gridare senza tregua questo avvertimento (Æn., VI, 620). La cultura classica che abbiamo ereditato quale premessa naturale alla diffusione del Cristianesimo, e che il Medioevo riconobbe e valorizzò, si basa quindi sul dovere di non spregiar gli dei, mostrando come l’assenza di religio sia causa della rovina della Nazione, dal tradimento della Patria all’instaurazione della tirannide, dal promulgare o abolire le leggi per interesse economico al violare i più sacri precetti del vivere civile. (2)
A dimostrazione di quanto fossero fondati questi timori, possiamo contemplare le macerie della società contemporanea, capace di legittimare orrori inauditi quali l’uccisione degli innocenti nel ventre materno, la corruzione dei bambini con la teoria gender e la sessualizzazione dell’infanzia, il loro utilizzo negli infernali rituali della lobby pedofila, i cui infami componenti ricoprono ruoli di potere e che nessuno, sinora, osa processare e condannare.
Il mondo contemporaneo è governato da una setta di servi del demonio, votati al male e alla morte: chiudere gli occhi dinanzi a simili mostruosità rende quanti tacciono colpevolmente complici di quegli orrendi crimini che gridano vendetta al cospetto di Dio.
IV. La sacralità dell’autorità
Fino alla Rivoluzione Francese i governanti trovavano la propria legittimazione nell’esercizio dell’autorità in nome di Dio, e con essa i governati vedevano tutelati i propri diritti contro gli abusi del potere, dal momento che tutto il corpo sociale era gerarchicamente ordinato sotto la suprema potestà dell’unico Signore, riconosciuto come Rex tremendæ majestatis proprio perché Giudice anche dei Re e dei Principi, dei Papi e dei Prelati. Corone, tiare e mitrie costellano le raffigurazioni dell’inferno nei Giudizi Universali delle nostre chiese.
Questa sacralità dell’autorità non è un concetto aggiunto successivamente ad un potere nato originariamente come neutrale. Al contrario, ogni potestà si è sempre riferita alla divinità, tanto in Israele quanto nelle nazioni pagane, per poi acquisire nel mondo occidentale la pienezza dell’investitura soprannaturale con l’avvento del Cristianesimo e il suo riconoscimento come Religione di Stato ad opera dell’Imperatore Teodosio.
Così l’Imperatore d’Oriente era Cæsar in una Corte che a Bisanzio parlava in latino; lo Czar delle Russie e quello dei Bulgari erano parimenti Cesari, per poi giungere al Sacro Romano Impero, il cui ultimo Sovrano, il Beato Carlo d’Asburgo, venne spodestato dalla Massoneria con la Prima Guerra Mondiale.
L’educazione dei futuri sovrani, della nobiltà e del Clero era tenuta nella massima considerazione, e non si limitava a fornire un’istruzione intellettuale e pratica, ma prevedeva necessariamente una specifica formazione morale e spirituale che assicurasse solidi principi, abitudine alla disciplina, capacità di dominare le proprie passioni, pratica delle virtù di governo.
Un intero sistema sociale rendeva chi esercitava l’autorità consapevole della propria responsabilità dinanzi a Cristo Re, unico detentore della Signoria temporale e spirituale che i Suoi Ministri in terra dovevano esercitare in forma rigorosamente vicaria.
Per questo motivo, come avvenne ad esempio nel caso di Federico II di Svevia, la superiorità dell’Autorità spirituale della Chiesa su quella temporale dei Sovrani consentiva al Romano Pontefice di sciogliere dal vincolo di obbedienza i sudditi di un Re che abusasse del proprio potere.
V. La secolarizzazione estesa a qualsiasi autorità
Alla secolarizzazione dell’autorità civile ha fatto più recentemente seguito quella dell’autorità religiosa, che con il Concilio Vaticano II è stata significativamente spogliata – non solo esteriormente – della propria sacralità a beneficio di una visione profana (e rivoluzionaria) in cui il potere ecclesiastico proviene dal basso, in forza del solo Battesimo, e viene delegato dal «popolo sacerdotale» ai suoi rappresentati, ai quali sono conferiti compiti di presidenza, al pari di quanto avviene nelle sette calviniste.
Il paradosso è qui ancor più evidente, perché porta all’interno della Chiesa – snaturandola – le dinamiche tollerabili in una società civile che non riconosce diritti alla vera Religione, finendo al contempo per legittimarle col farle proprie.
In quest’ottica, le gravissime deviazioni oggi propagandate dal Sinodo sulla Sinodalità in chiave democratica e parlamentarista non sono che la messa in pratica dei principi teorizzati dal Concilio, per il quale la laicità – ossia la rottura del legame tra l’autorità terrena e la sua legittimazione soprannaturale – avrebbe dovuto estendersi a qualsiasi società umana, escludendo parimenti qualsiasi tentazione «teocratica» come obsoleta e inopportuna.
A questo processo, inevitabilmente, non fu estranea alcuna autorità, da quella del paterfamilias a quella del maestro, da quella del magistrato a quella dell’ufficiale: il dovere di chi vi era sottoposto di obbedirvi e di chi la esercitava di amministrarla con saggezza e prudenza richiamavano la divina paternità di Dio e come tali dovevano essere delegittimati, poiché la ribellione è anzitutto contro l’autorità di Dio Padre.
Il Sessantotto non fu che una propaggine della Rivoluzione, in cui ciò che per utilitarismo o convenienza il liberalismo aveva conservato per garantirsi un minimo di ordine sociale venne infine demolito, portando le Nazioni occidentali all’anarchia.
VI. L’azione eversiva delle società segrete
La setta infame, consapevole della potenza dell’alleanza tra Trono e Altare, tramò nell’ombra per corrompere i governanti e attirare la nobiltà nei propri ranghi, iniziando dalla dinastia capetingia.
In realtà, già nei Principati tedeschi con l’eresia protestante e poi nell’Inghilterra di Enrico VIII con lo scisma anglicano erano attive conventicole di iniziati di matrice gnostica avversi al Papato e ai legittimi Sovrani ad esso fedeli.
È comunque certo e documentato che la Rivoluzione costituì lo strumento principale con cui le società segrete colpirono le Nazioni cattoliche per strapparle alla Fede ed asservirle ai propri scopi ideologici ed economici, e ovunque la Massoneria riuscì ad agire ricorse sempre agli stessi strumenti e alla stessa propaganda, per ottenere la secolarizzazione delle Istituzioni pubbliche, la cancellazione della Religione di Stato, l’abolizione dei privilegi ecclesiastici e dell’insegnamento cattolico, la legittimazione del divorzio, la depenalizzazione dell’adulterio, la diffusione della pornografia e delle altre forme di vizio.
Perché quel mondo cristiano in ogni aspetto del vivere quotidiano doveva essere cancellato e sostituito da una società empia, irreligiosa, dedita all’appagamento dei piaceri più bassi, irridente verso la virtù, l’onestà, la rettitudine: sono le «conquiste» dell’ideologia liberale, ciò che l’anticlericalismo più abbietto considera «progresso» e «libertà».
Le innumerevoli condanne del Magistero nei confronti delle sette segrete erano ampiamente giustificate dalla minaccia che incombeva sulla pace delle Nazioni e sulla salvezza eterna delle anime. Finché la Chiesa ebbe nell’autorità civile un valido alleato, l’azione della Massoneria procedette a rilento e fu costretta a dissimulare i propri intenti criminali.
Fu solo con la corruzione dell’autorità ecclesiastica, perseguita con paziente opera di infiltrazione e portata a compimento dalla fine dell’Ottocento grazie al Modernismo, che la Massoneria poté contare sulla complicità di chierici ribelli e fornicatori, traviati nell’intelletto e nella volontà, e perciò facilmente asservibili e ricattabili.
Le loro carriere nei ranghi della Chiesa, fermate dalla lungimirante vigilanza di San Pio X, ripresero tranquillamente negli ultimi anni del Pontificato di Pio XII allora infermo, e conobbero una spinta sotto Giovanni XXIII, probabilmente membro egli stesso di una Loggia ecclesiastica. Ancora una volta vediamo come la corruzione dei singoli sia strumentale alla dissoluzione dell’istituzione cui essi appartengono.
VII. La Rivoluzione in campo civile, sociale ed economico
La Rivoluzione iniziata in Francia nel 1789 ebbe le medesime modalità di attuazione: prima la corruzione dell’aristocrazia e del Clero; poi l’azione delle società segrete infiltrate ovunque; quindi la propaganda mediatica contro la Monarchia e la Chiesa, e parallelamente l’organizzazione e il finanziamento di moti e proteste di piazza per aizzare il popolo, impoverito e oberato di tasse a causa delle speculazioni dell’alta finanza internazionale e della inadeguatezza della risposta dello Stato alle mutazioni del sistema economico europeo.
Anche in quel caso la leva principale che consentì alla teoria eversiva della Massoneria di tradursi in vera e propria rivoluzione fu rappresentato dalla classe che maggiormente aveva interesse ad appropriarsi dei beni dei nobili e della Chiesa, non solo per mettere in vendita un patrimonio inestimabile di immobili, arredi e opere d’arte, ma anche per trasformare radicalmente il tessuto socioeconomico tradizionale, ad iniziare dallo sfruttamento dei latifondi, sino ad allora lasciati per lo più produrre secondo ritmi naturali e sistemi arcaici.
Infatti, dopo la Rivoluzione Francese, abbiamo avuto la Prima Rivoluzione Industriale, che con l’invenzione del motore a vapore e la meccanizzazione della produzione ha imposto le migrazioni di massa dei braccianti e dei contadini dai campi alle metropoli per convertirli in manodopera a basso costo, dopo averli privati della possibilità di avere mezzi di sostentamento autonomi e indotti alla miseria con nuove tasse e imposte.
Tutto l’Ottocento è una conferma che la matrice ideologica della Rivoluzione si fonda su un’eresia dottrinale intrinsecamente legata al profitto economico e al dominio finanziario.
La Seconda Rivoluzione Industriale ebbe luogo nel periodo compreso tra il Congresso di Parigi (1856) e quello di Berlino (1878), coinvolgendo principalmente l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone in nuovi, forzati progressi tecnologici quali l’elettricità e la produzione di massa; la Terza iniziò negli anni Cinquanta e si estese a Cina e India, e riguardò principalmente l’innovazione tecnologica, informatica e telematica, per poi allargarsi alla new economy, alla green economy, al controllo delle informazioni.
Ciò avrebbe dovuto creare un clima culturale di fiducia neopositivista nelle possibilità della scienza e della tecnica di provvedere al benessere materiale dell’umanità; l’azione di manipolazione delle masse diede ampio spazio all’immaginazione di ciò che la società sarebbe potuta diventare, suggestionandola con il tema cinematografico della fantascienza.
Con l’anno 2011 inizia infine la Quarta Rivoluzione Industriale, che consiste nella crescente compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico. È una somma dei progressi in intelligenza artificiale (IA), robotica, Internet delle Cose (IoT), stampa 3D, ingegneria genetica, computer quantistici ed altre tecnologie.
Teorizzatore di questo processo distopico è il famigerato Klaus Schwab, fondatore e direttore esecutivo del World Economic Forum.
VIII. La secolarizzazione dell’autorità premessa del totalitarismo
Separare artificialmente l’armonia e la complementarietà gerarchica tra autorità spirituale e autorità temporale fu un’operazione sciagurata che creò la premessa, ogniqualvolta venne realizzata, alla tirannide o all’anarchia.
Il motivo è sin troppo evidente: Cristo è Re tanto della Chiesa quanto delle Nazioni, perché ogni autorità viene da Dio (Rom 13, 1). Negare che i governanti abbiano il dovere di sottomettersi alla Signoria di Cristo è un errore gravissimo, perché senza la Legge morale lo Stato può imporre la propria volontà prescindendo dalla volontà di Dio, e quindi sovvertendo il κόσμος divino della Civitas Dei per sostituirvi l’arbitrio e il χάος infernale della civitas diaboli.
Oggi le Nazioni occidentali sono ostaggio di potentati che non rispondono né a Dio né al popolo delle loro decisioni, perché non traggono la propria legittimazione né dall’alto né dal basso.
Il colpo di stato che è stato preparato e compiuto dalla lobby eversiva del World Economic Forum ha di fatto spodestato i governi della propria indipendenza da pressioni esterne e gli Stati della propria sovranità. Ma questo processo dissolutorio è ormai scoperto per l’arroganza con cui i satrapi del Nuovo Ordine Mondiale – tutto è nuovo, quando riguarda loro, e tutto è vecchio quando è da abbattere – hanno rivelato i loro piani, credendosi ormai prossimi alla vittoria definitiva. Al punto che anche intellettuali non certo tacciabili di conservatorismo iniziano a denunciare le intollerabili ingerenze di Klaus Schwab e dei suoi minion nel governo delle Nazioni.
Alcuni giorni fa il prof. Franco Cardini ha dichiarato: «Le forze che gestiscono economia e finanza ora scelgono, corrompono e determinano la classe politica, che così diventa un comitato d’affari» (qui). E sappiamo bene che dietro questo «comitato d’affari» si perseguono scopi di cieco profitto ai danni dell’economia degli Stati, ma anche inquietanti progetti di controllo capillare della popolazione, di depopolamento forzato, di cronicizzazione delle patologie in vista della privatizzazione totale dei servizi pubblici.
La mentalità che presiede a questo Great Reset è la stessa che animava i borghesi e gli usurai dei secoli scorsi, preoccupati di sfruttare i latifondi che la nobiltà e il Clero non consideravano come fonte di lucro.
Lo aborro perché è cristiano e ancor più perché ha la goffa semplicità di prestare denaro gratis, e così fa diminuire i frutti che si potrebbero ottenere. (3)
Per costoro l’umanità è un fastidioso impaccio che occorre razionalizzare e rendere strumentale al perseguimento dei propri scopi criminali e la Morale cristiana un odioso intralcio all’instaurazione di un governo in mano alla finanza: se questo è oggi possibile, è perché non vi è alcun riferimento morale trascendente che ponga un freno ai loro deliri, né un potere che sfugga a questo vile asservimento a interessi privati. E qui comprendiamo come la situazione presente sia essenzialmente una crisi dell’autorità, al di là della comprensione dei singoli circa la minaccia rappresentata dal colpo di stato globale dell’élite usuraia.
IX. Il Natale di Cristo
La Nascita del Salvatore ha rappresentato l’irruzione dell’eternità nel tempo e nella Storia, con l’Incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità nel grembo virginale di Maria Santissima. Nella persona di Nostro Signore, vero Dio e vero uomo, si somma l’autorità di Dio a quella del discendente della stirpe regale di Davide, e la Redenzione del genere umano mediante il Sacrificio della Croce ripristina nell’economia della Grazia l’ordine divino infranto dal peccato originale ispirato dal Serpente.
Il Re Bambino, adagiato nella mangiatoia, si mostra all’adorazione dei pastori e dei Magi avvolto in fasce, com’era prerogativa dei sovrani: et hoc vobis signum (Lc 2, 6). (4)
Egli muove le stelle e viene onorato dagli Angeli, ma sceglie come trono il presepe, come reggia terrena la povera capanna di Betlemme, così come sul Golgota – e nella visione dell’Apocalisse – è la Croce ad essere trono di gloria. Nostro Signore riceve l’omaggio dei saggi d’Oriente in riconoscimento dei titoli di Re, Sacerdote e Profeta; ma già deve fuggire da chi vede in Lui una minaccia al proprio potere. Stolto e crudele Erode, che non comprende che non eripit mortalia, qui regna dat cœlestia. (5)
Stolti e crudeli i potenti di oggi, che nella strage di milioni di innocenti – una strage compiuta sui loro corpi e sulle loro anime – vogliono consolidare la propria tirannide di morte, e che nella schiavitù dei popoli rinnovano la propria ribellione al Re dei re e al Signore dei governanti, che quelle anime ha redento col proprio Sangue.
Ma è nell’umile affermazione della propria Signoria che il Bambino di Betlemme manifesta la divinità del Figlio di Dio nell’unione ipostatica dell’Uomo-Dio. Una divinità che unisce l’onnipotenza del Pantocratore alla fragilità del lattante, il tremendo giudizio del sommo Giudice al vagito del neonato, l’eternità immutabile del Verbo di Dio al silenzio dell’infante, lo splendore della gloria della Maestà divina con lo squallore di un ricovero per animali nella gelida notte della Palestina.
In questa apparente contraddizione che unisce mirabilmente divinità e umanità, potenza e debolezza, ricchezza e povertà troviamo anche l’insegnamento che tutti noi, e soprattutto coloro che sono costituiti in autorità, dobbiamo trarre per la nostra vita spirituale e per la nostra stessa sopravvivenza.
Anche il Sovrano, il Principe, il Pontefice, il Vescovo, il magistrato, l’insegnante, il medico e il padre godono di un potere che attinge alla sfera dell’eternità, alla divina Regalità del Figlio di Dio, perché nell’esercizio della loro autorità essi agiscono in nome di Colui che la legittima finché rimane fedele a ciò per cui essa è stata voluta.
Chi ascolta voi, ascolta Me. E chi disprezza Me disprezza Colui che mi ha mandato (Lc 10, 16).
Per questo obbedire all’autorità civile ed ecclesiastica significa obbedire a Dio, nell’ordine gerarchico che Egli ha decretato. Per questo disobbedire a chi abusa della propria autorità è altrettanto doveroso, per salvaguardare quell’ordine che ha il proprio centro in Dio, e non nel potere terreno che ne è vicario. Altrimenti si finisce per adorare il potente, per prestargli l’ossequio cui egli ha diritto solo in quanto a sua volta sottomesso a Dio. Oggi invece l’ossequio a chi ricopre incarichi di potere non solo non ha alcun vincolo di doverosa subordinazione a Cristo Re e Pontefice, ma anzi Gli è nemico. E dove la presunta sovranità popolare propagandata dalla chimera della democrazia si è rivelata un colossale inganno ai danni di quel popolo che non ha nessuno cui appellarsi per veder tutelati i propri diritti.
D’altra parte, quali «diritti» potrebbe rivendicare chi ha tollerato di lasciarli usurpare a Dio?
Come potremmo stupirci che il potere si muti in tirannide, quando accettiamo che esso non abbia più alcun legame con il trascendente, unica garanzia di giustizia per il povero, l’esule, l’orfano e la vedova?
X.Instaurare omnia in Christo
L’apparente trionfo dei malvagi – dai criminali del World Economic Forum agli eretici del «cammino sinodale» – ci pone dinanzi alla cruda realtà del Male, destinato sì alla sconfitta finale, ma anche permesso dalla Provvidenza come strumento di castigo per l’umanità traviata.
Perché la povertà, le epidemie, la miseria indotta da crisi pianificate, le guerre spietate mosse da interessi economici, la corruzione dei costumi, la strage degli innocenti riconosciuta come un «diritto umano», la dissoluzione della famiglia, la rovina dell’autorità, la dissoluzione della civiltà, l’imbarbarimento della cultura e dell’arte, l’annichilimento di ogni slancio verso la virtù e il Bene sono solo necessarie conseguenze di un tradimento compiuto gradualmente ma sempre nella medesima direzione e la premessa al peggio che dovrà venire: il disprezzo di Dio, la sfida sciagurata del non serviam nei confronti della Maestà divina, tanto più spietata e furiosa quanto maggiore è la presunzione satanica di poter vincere una battaglia da cui Satana uscirà eternamente sconfitto.
Dormi, o Fanciul; non piangere;
dormi, o Fanciul celeste:
sovra il tuo capo stridere
non osin le tempeste,
use sull’empia terra,
come cavalli in guerra,
correr davanti a Te. (6)
Ricapitolare in Cristo tutte le cose (Ef 1, 10), significa ricomporre l’ordine infranto dal peccato, tanto nell’ordine naturale quanto in quello soprannaturale, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica, restituendo la Corona regale al Re dei re, al Quale in un delirio di ὕβρις la Rivoluzione l’ha sottratta; ed ancor prima restituendo la triplice Corona al Sommo Pontefice, strappata con l’ideologia del Vaticano II e con l’apostasia di questo «pontificato».
Papi e Re, Prelati e governanti delle Nazioni, fedeli della Chiesa e cittadini degli Stati devono tornare, in una palingenesi mossa dalla Grazia, a Cristo, a Cristo Re e Pontefice, all’unico Vindice dei veri diritti del Suo popolo, all’unico Protettore dei deboli e degli oppressi, all’unico Vincitore della morte e del peccato. E in questo cammino di ritorno a Cristo, sarà l’umiltà a guidarci nel saper ripercorrere a ritroso, la comoda via della perdizione che abbiamo intrapreso abbandonando la via verso il Calvario segnataci dal Signore. Una via che Egli ha percorso per primo, e sulla quale ci accompagna tramite la Grazia dei Sacramenti, che conduce alla Croce come unica premessa per la gloria della Resurrezione.
Chi crede che continuando su questo percorso sia possibile cambiare le cose; che si possa porre un limite all’ideologia di morte e di peccato del Nuovo Ordine Mondiale; che si possa impedire agli empi di diffondere gli orrori della pedofilia, della perversione, della cancellazione dei sessi, dell’uccisione dei bambini, dei deboli e degli anziani si illude.
Se il mondo è diventato un inferno grazie alla Rivoluzione, esso potrà tornare ad essere meno malvagio e mortifero solo con un’azione controrivoluzionaria. Se la Gerarchia è diventata un ricettacolo di eretici, di corrotti e di fornicatori grazie al Vaticano II e alla liturgia riformata, essa potrà tornare ad essere immagine della Gerusalemme celeste solo tornando a ciò che gli Apostoli, i Padri e i Dottori, i Santi, i Papi e i Vescovi hanno fatto fino a prima del Concilio. Proseguire sulla via della perdizione conduce, appunto, alla perdizione: la differenza sta solo nella velocità della corsa verso l’abisso.
Quanto prima ciascuno di noi saprà rinforzare la propria appartenenza a Cristo, tanto prima inizierà il ritorno della società al suo Signore. E questa appartenenza incondizionata a un Dio che si è incarnato per redimerci deve avvenire iniziando dall’umile adorazione del Re Bambino, ai piedi della mangiatoia, assieme ai pastori e ai Magi.
Dormi, o Celeste: i popoli
chi nato sia non sanno;
ma il dì verrà che nobile
retaggio tuo saranno;
che in quell’umil riposo,
che nella polve ascoso,
conosceranno il Re. (7)
Venga dunque, per tutti noi, il benedetto momento in cui, toccati dalla Grazia e mossi dalla salutare visione dell’inferno in terra che va preparandosi se assisteremo inerti all’instaurazione della distopia globalista, riconosciamo il Re.
E in cui, riconosciutoLo, possiamo combattere sotto le Sue sante insegne insieme alla terribile Vincitrice di Satana – l’Immacolata – la battaglia epocale contro il Nemico del genere umano.
Sarà una creatura, una Donna, una Vergine, una Madre a schiacciare il capo dell’antico Serpente, e con esso quello dei suoi maledetti seguaci.
E così sia.
+ Carlo Maria Viganò
Arcivescovo
17 Dicembre 2022
Sabbato Quattuor Temporum Adventus
NOTE
1) La Vergine ormai torna, tornano i regni di Saturno,
già una nuova stirpe scende dall’alto dei cieli.
Tu, pura Lucina, sii propizia al Fanciullo che sta per nascere,
per il Quale per la prima volta finirà il periodo delle guerre
e sorgerà l’età dell’oro; già il tuo Apollo regna sul trono.
Virgilio, Egloga IV, 6-10.
2) Ecco l’esempio mio!
Ama giustizia e non spregiar gli dei!
Vendé questi la Patria e fier tiranno
ai cittadini impose; altri le leggi
fece e disfece a prezzo; quello il letto
invase della figlia a sconce nozze:
empie cose ad osar tutti fur pronti
e dell’audacia consumar l’estremo!
3) W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto I, Scena III, Shylock, a parte.
4) Si veda a tal proposito lo studio esegetico di Mons. Francesco Spadafora, in Dizionario biblico, Studium, 1963.
5) Inno Crudelis Herodes per i Vespri dell’Epifania.
6) A. Manzoni, Il Natale, versi 99-105.
7) A. Manzoni, Il Natale, versi 106, 112.
Pensiero
Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
Abbiamo lanciato su queste colonne un mese fa una dura condanna dei cosiddetti Baby Boomer, cioè i nati dal 1946 al 1964, definendoli come «generazione perduta nel suo egoismo». In altri articoli, come quello sulle gemelle suicide Kessler, abbiamo definito sempre più il tiro riguardo la cifra utilitaristico-mortifera di questa fetta della popolazione.
Molti dei problemi che stiamo vivendo, crediamo, derivano da questo gruppo generazionale, cui tutto è stato concesso senza che nulla fosse dato in cambio. I boomer con il loro narcisismo tossico, la loro avarizia, il loro edonismo autistico hanno mandato alla malora il mondo, portandolo sull’orlo del collasso. I boomer come volenterosi carnefici della Necrocultura, come agenti di decadenza, come soldati della fine della Civiltà. Questa è un’analisi che non ci togliamo dalla testa.
Tuttavia, il lettore deve sapere come il direttore di Renovatio 21 abbia visto rimbalzare il concetto del male boomerro ad un evento, forse più prosaico di questi pensieri, cui ha partecipato di recente.
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Il vostro affezionatissimo un paio di mesi fa è andato a dare una mano a degli amici che producono tabarri durante una piccola fiera che si tiene in un castello medievale sperduto nel deserto padano piacentino. Nella piattezza della campagna emiliana (o… lombarda?) si tiene questa rassegna che dovrebbe essere incentrata sulla frutta antica, ma a cui partecipano vari artigiani.
Gli amici facitori di tabarri vi avevano allestito, con sforzo non indifferente, un piccolo banchetto ricchissimo: diecine di capi, il banchetto, lo specchio, il mobile per i cappellacci, manichini, locandine, foto, registratore di cassa e bancomatto. Lo scrivente era lì per aiutare: come presidente della Civiltà del Tabarro mica posso esimermi dall’opera di evangelizzazione, cioè di tabarrizzazione del mondo: convertire le moltitudini del paganesimo giubbotto per portarle verso la luce della verità vestimentaria, del gusto immortale, della storia umana, della Civiltà, del Tabarro.
Sono stati due giorni di fatica impressionante. In piedi per una diecina e più di ore, interazioni con centinaia di persone (non sempre piacevoli: ci arriveremo), una caviglia dolente perché rottasi cadendo a settembre per le scale dell’Università di Scampia (un’altra storia, un’altra volta).
Già dopo qualche ora abbiamo cominciato a percepire che forse gli avventori della fiera non rappresentavano esattamente il nostro target, ma in fondo non era vero – c’era qualcosa di diverso, di più sottile, che ci turbava.
Accanto a noi, c’era, appena separato da una colonna e dai nostri appendi-abiti, il banchetto di un ragazzotto oltre i cinquanta, simpatico e gentile, che vendeva un unico prodotto specifico: copertine di lana. Tali copertine non incontravano, diciamo, il gusto nostro e dei nostri amici: fatte di lana grezza, con fiorelloni e altri motivi non irresistibili…. e poi, l’idea che quelle sembravano coperte, più che da letto, da ginocchia, da divano, cioè da televisione.
Non riuscivo ad immaginarne altro uso: uno che guarda la TV (immagine che dentro di me è quasi divenuta antica, come un bisnonno che si scalda un pentolone d’acqua per lavarsi) e che, nel culmine della narcosi catodica, vuole riscaldarsi le gambe, divenute inutili, proprio come accade agli astronauti in assenza di gravità: la televisione non prevede l’uso degli arti, trasforma i suoi utenti in tronchetti mutilati, quindi è normale che si senta la necessità di riscaldarsi davanti al fuoco freddo del palinsesto televisivo.
Eppure, il ragazzotto aveva lo stand pieno, strapieno. Sempre. Noi no. E quelle copertine, mica le vendeva a poco. La ressa attorno al suo banchetto era totale, continua. «Pare che venda gelati» dice il mio amico, che ha fatto il commerciante dagli anni Sessanta, e usa questa espressione spesso per dire che un negozio è pieno di clienti.
Il lettore avrà capito chi fossero gli infiniti clienti della copertineria. Erano, senza eccezione, tutti boomer. Un’esercito, un’armata, che sgomitava assiepata per comprarsi la calda copertina di lana. «Quanto costa questa»…? Altre domande non mi è parso di sentirne, anche perché probabilmente non era possibile farle. Il boomerro compra un prodotto monodimensionale, e l’unico dato con cui si misura davvero è il prezzo.
Da noi, tra i tabarri più belli del mondo, invece, poche persone. Sicuramente molte, molte meno del nostro vicino copertinista. Tuttavia, nelle interazioni che abbiamo avuto, ha cominciato a svilupparsi un pattern.
Entrava spesso qualche boomer, giubbottino di ordinanza, che in realtà era diretto poco più in là. Se avvicinava al punto al bancone che non era possibile registrarlo come semplice curioso: ti tocca, a quel punto alzarti (se sei riuscito a sederti un minuto), avvicinarti, salutare, ricevere, e fargli la domanda più cordiale che si possa fare: «vuole provare un tabarro?»
Risposta: «assolutamente no. Volevo solo dire che ce lo aveva mio padre». Tale replica è stata ottenuta praticamente identica in forse una dozzina di diversi occasioni – ripetiamo: è un pattern riconoscibile. Dicevano proprio: «assolutamente no». Assolutamente. Detto dalla generazione che l’assoluto lo ha perso per strada, è un bel segno di rifiuto, probabilmente non solo del tabarro.
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Subito dopo averci edotto del tabarro paterno, e averci fatto capire quando si sente diverso dal genitore, il boomer medio, rifiutato di provare il capo (nemmeno per fare qualcosa di particolare, ad una fiera), si dirige – indovinate, indovinate – a comprarsi la copertina lì a fianco. Lì spende, tocca, prova, è il suo prodotto. Con evidenza, ne vede l’utilità esistenziale: si immagina subito con il telo lanoso di fiorelloni variopinti steso sopra le gambette mentre guarda Rete 4.
Vi è tuttavia un ulteriore pattern che dà speranza, e completa l’analisi. L’avventore volontario, entusiasta, che chiede del tabarro, lo tocca, lo prova, si guarda e riguarda allo specchio mentre lo indossa in tutte le sue varianti (aperto, chiuso, intabarrato a destra, intabarrato a sinistra, colletto su, colletto giù), gli vedi che in testa gli macina l’immaginazione: come sarebbe uscire con gli amici con il tabarro? Senti, talvolta, delle domande sussurrate: «ma quanto figo sono, così?».
Il giovane aspirante tabarrista ascolta ammirato il suono dell’intabarrata, l’atto di coprirsi con il tabarro – unico indumento che ha un suo effetto sonoro, romantico e notturno come nient’altro. Il ragazzo, la ragazza rimirano ammirati e riproducono estasiati la sequenza di gesti classici per la vestizione: tabarro preso a rovescio dinanzi a sé, colpo d’anca, il manto che gira dietro le spalle… più fluido e raffinato di un kata di un’arte marziale giapponese.
E quando gli dici che il tabarro è per sempre, perché non solo non passerà di moda, ma potrà essere trasmesso ai propri figli, nipoti, pronipoti – ad una conferenza di Renovatio 21 a Modena sei anni fa uno mi si presentò con un tabarro la cui etichetta diceva 1907! – ai giovani brillano gli occhi, sia che la prole la abbiano o sia che non la abbiano ancora. Quei pochi che ne hanno memoria famigliare – del nonno, bisnonno, o persino più indietro – non ne parlano come un ricordo da cui separarsi: il nonno, il bisnonno, il trisavolo, riconoscono i giovani, avevano una dignità superiore alla nostra, una dimensione esistenziale fatta di sacrificio e semplicità, di compostezza e determinazione cui non è possibile non anelare.
Quando ai ragazzi dici il prezzo – certamente più di un giubbino di Decathlon, epperò assai meno di un giubbotto parafirmato, di un Moncler, di qualsiasi brand tiri per qualche ragione quest’anno – non si scompongono. Li vedi calcolare a mente come fare per permetterselo: aspettare il prossimo stipendio, sfruttare il Natale o il compleanno, rompere il porcellino che da qualche in parte è in casa.
Il ragazzo veniva, provava, e si lanciava con il pensiero: questa cosa se la metteva addosso per uscire, non per chiudersi in casa. Per portare fuori la morosa, per trovarsi con le amiche o per (caso di una serie di signorine che, senza che si conoscessero, sono capitate tutte da noi) per andare a cavallo. Il tabarro come catapulta dell’essere, veicolo per incontrare, nella materia, le persone, il mondo.
Capite da voi cosa invece rappresentino le copertine boomer: la contrazione nel non-essere del tinello televisivo, la chiusura verso la realtà della gente, del consorzio umano, del proprio corpo. La copertina è l’addobbo per l’essere umano che ha abdicato alla sua dignità di creatura vivente e creatrice, che ha appaltato la gestione del cervello a qualcun altro, che ha accettato per decadi la propria mummificazione catodica.
È, in tutta chiarezza, uno scontro metafisico, ontologico, apocalittico: l’espansione contro la contrazione, l’essere contro il non-essere… la vita contro la morte.
Una volta realizzato questo, bisogna andare avanti con la disamina, e considerare i concreti effetti sociopolitici di quanto stiamo notando.
Nonostante il loro lavoro, non tutti i giovani che volevano acquistare un tabarro avevano i danari per farlo. Al contrario, tutti i boomer che sono entrati per rifiutarsi di indossare il tabarro i soldi per il tabarro li avevano, accumulati nell’età dell’oro dell’economia mondiale, quando era possibile, senza essere imprenditori d’alto bordo, farsi una casa, una seconda casa, la macchina e pure mettere via qualche soldo in banca.
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Tutti i boomer che finiscono ricoperti a guardare Barbara D’Urso e Mentana hanno conti in banca che permettono loro di vivere benissimo, e pensioni che moltiplicano tale benessere. Ecco quindi la settimana in crociera, il weekend alle terme, il sole a Sharm el-Sheik, il giretto in Nepal, la vacanzetta all’isola d’Elba, etc. Tutti questi non hanno avuto problemi a cambiare l’auto – di più, non hanno avuto necessità di farlo, ma senza problemi si sono presi l’ultima Toyota, Audi, Hyundai, FIAT, etc.
Il giovane, al contrario, non ha i soldi per niente di tutto questo, e l’auto, o la vacanza, o il tabarro, devono essere calcolati a dovere in un paradigma che è l’opposto di quello della generazione precedente: non più abbondanza, ma carenza, scarsità anche negli ambiti più basilari. Quanti, della generazione dei boomer, hanno avuto problemi a riscaldare la propria casa? Per quanti il costo del gas o della benzina sono stati un problema tale da indurre rinunzie drastiche, come quella di lasciare mezza casa, o una casa intera, al freddo?
È chiaro, quindi, il blocco storico del presente: tutte le risorse sono in mano ad una generazione vecchia, sterile, priva di valori che non siano di consumo continuo e distruttivo. Le generazioni successive, che pure hanno dalla loro la spinta della vita che non ancora sono riusciti a spegnere, hanno niente o poco più – e di fatto pagano per le gozzoviglie degli anziani parassiti. I mezzi economici sono concentrati su una fetta della popolazione votata allo spreco e – in ultima analisi – alla morte e alla sua cultura. A chi manda avanti la società, a chi continua la vita, invece non è lasciato nulla. Non ci è chiaro quanto questa situazione sarà considerata tollerabile, di certo i suoi effetti sono già visibili e devastanti.
Secondariamente, c’è il rilievo psico-sociale: se compri una coperta per il divano e non un mantello per uscire e vivere stai di fatto amalgamando il tuo essere al programma del potere costituito che è, lo abbiamo visto con i nostri occhi col lockdown, chiuderti in casa. In casa sei controllabile in ogni modo possibile, in casa non creerai mai alcun problema, in casa ti puoi spegnere senza sporcare, levarti di torno senza che nemmeno si oda il tuo lamento – il vertice della piramide vede il tuo appartamento come luogo di esistenza pre-tombale a bassa intensità.
Qui, nel loculo domestico, non puoi far altro che ricevere gli ordini che ti arrivano dalla TV (o dai grandi canali internet, che abbiamo visto essere manipolati dagli stessi poteri che producevano la psicopolizia dei palinsesti televisivi). Chi si mette al calduccio per guardare il televisore accetta di farsi lavare il cervello, e quindi divenire servitore dell’agenda mondialista.
Sì, l’esistenza stessa di un fenomeno come quello della pandemia COVID parte proprio dai divani di una generazione stravaccata e satolla che si è fatta indottrinare nel modo più rivoltante, accettando la clausura, la siringa genica obbligatoria, le ore quotidiane di odio verso i no-vax… Di lì avanti, ancora, la stessa gente ha accettato di pagare bollette folli e rischiare una guerra termonucleare globale perché la TV gli ha detto è ripetuto che Putin è cattivo.
La società, la geopolitica mondiale, la storia presente sono impattate da questo blocco umano immenso, e in maniera presente.
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È stata consentita qualsiasi cosa, ai boomer, perfino l’essere gustibus soluti: il loro schifo non è solo metafisico e morale, è pure estetico. Il giubbino in piuma d’oca, il cappottino peloso, sono lì a testimoniarcelo con più forze del nano da giardino.
La rivolta contro il boomer moderno passa, quindi, da dimensioni come quella del tabarro, che ti avvolge spingendo in faccia agli aridi e narcisi il loro essere senza bellezza e senza radice.
Renovatio 21 si offre di dare una mano a coloro che vorranno partecipare a questa riscossa cosmica. Se volete un tabarro, non avete che da comunicarcelo.
Non siete soli. Il network della resistenza è più grande di quello che potete pensare. E contiene, ovvio, pure vari boomer anagrafici non piegati ai diktat entropici del sistema.
Un tabarro alla volta, rovesceremo l’impero delle copertine di lana. Chi scrive già da anni opera in questo senso.
Riscriveremo l’etica del secolo passando per l’estetica, e non poteva che essere così. Dimenticandoci una volta per tutti di quelli che hanno vissuto con indolenza distruttiva, offendendo la meraviglia della Vita e della Civiltà.
Roberto Dal Bosco
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Foto di Silvano Pupella; modificata
Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax — The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Civiltà
Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica
Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.
Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.
Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.
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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.
Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.
Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.
Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.
Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.
O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.
Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.
Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.
Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».
Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.
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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.
Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.
Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.
Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.
Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.
Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.
la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.
La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.
Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.
Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.
Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.
Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.
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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.
Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.
Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.
Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».
E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.
Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.
Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.
Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.
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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.
Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.
Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.
Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.
Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.
Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.
Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.
Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.
Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.
Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.
Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».
Patrizia Fermani
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Immagine screenshot da YouTube
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