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Memorie dal sottosuolo ebraico

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Anche quest’anno è giunto il «giorno della Memoria». Si chiama così, senza che sia specificato di cosa: gli altri dì dell’anno, forse sono senza memoria, pare il messaggio degli organizzatori. Oppure che questa è una memoria più importante delle altre?

 

È una memoria che non si può lavar via, che va fissata in mondo indelebile: le altre memorie sono RAM, mentre quella dell’«olocausto» – altra espressione generica assai, che sposta via tanti altri significati, compresi quelli della religione cristiana – è decisamente da hard disk.

 

Dal mio disco rigido quindi, quest’anno voglio estrarre un po’ di memorie assortite sull’argomento. Mi sblocco un po’ di ricordi personalissimi, così, per cercare di stare in linea, per una volta, con una giornata mondiale.

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Io ho memoria, innanzitutto, di una cosa accaduta ieri l’altro. Mio figlio, 8 anni, ha sentito in una conversazione l’espressione «campo di concentramento» e, pur non sapendo esattamente cosa volesse dire, mi ha chiesto di «Teresen. Teresin…».

 

«Theresienstadt...?» gli ho chiesto sbalordito.

 

«Sì, quello».

 

«E dove lo hai sentito?»

 

«A scuola…»

 

Scopro così che, dopo il lavaggio di cervello sul caso Cecchettin, qualcuno in classe ha parlato ai bambini dello sterminio degli ebrei, cosa del quale, almeno lui, ha potuto capire fino ad un certo punto. Come sappiamo, non è importante: quello che conta è che il discorso pubblico venga sfogato, e che qualche parola chiava («Theresien…» «Auschw…») entri nei giovani cervelli, e anche solo qualche sillaba va bene.

 

Scopro così che l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan ha inviato una lettera aperta alle scuole del Veneto:

 

«Vi invito, anche quest’anno, in occasione della Giornata della Memoria in ricordo delle vittime della Shoah, come comunità educante del nostro Veneto, a ricordare degnamente questa data simbolo della persecuzione dell’odio nei confronti degli ebrei. Purtroppo la battaglia all’antisemitismo non è ancora compiutamente vinta perché il seme dell’antisemitismo continua a riemergere con molte facce e strumenti diversi. È una battaglia che soprattutto nella scuola dobbiamo affrontare trovando la più ampia diffusione tra le nuove generazioni così da costruire gli anticorpi contro l’odio antisemita. L’odio, nei confronti del popolo ebraico e contro lo Stato di Israele, è un dramma che ancora oggi si perpetra nel mondo».

 

Sono parole che, scrive il messaggio, l’assessore aveva usato anche l’anno scorso, ma che ha copincollato anche quest’anno perché «purtroppo, ancora più attuale dopo i fatti del 7 ottobre 2023 da parte del terrorismo islamico con l’obiettivo di colpire lo Stato di Israele».

 

«Si assiste ad un dibattito pubblico acceso e polarizzante ed è quanto mai necessaria una riflessione in ordine ai pericoli di un rinnovato odio nei confronti degli ebrei, che si è caratterizzato recentemente per episodi di estrema violenza anche nel nostro territorio, come accaduto a Vicenza in occasione di un recente evento internazionale ove partecipavano degli espositori israeliani. Episodio esecrabile che ha visto la giusta condanna da parte di tutte le forze politiche e che non deve ripetersi grazie all’apporto culturale garantito dalle nostre scuole».

 

«Il 27 gennaio è ancora più importante difendere la democrazia e la libertà».

 

La democrazia e la libertà coincidono con lo Stato di Israele? Non è tanto questo, che colpisce il quivis de populo. Ma scusate, la Donazza non è quella che la sinistra accusava di revisionismo? Non è quella che avrebbe cantato «faccetta nera» per radio a La Zanzara? Insomma quella considerata di destra, tanto di destra?

 

A fine anni Ottanta, la Donazzana fu presidente provinciale vicentina del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del MSI. Qui si sblocca un ricordo dell’era almirantiana: com’è, che ad un certo punto, i missini – tra i quali nel 1979 si candidò anche il marito della senatrice sopravvissuta ad Auschwitz Liliana Segre – presero a difendere lo Stato Ebraico? Sì, è successo. Si disse: è perché l’URSS difende i palestinesi (certo: dopo essere stato il primo Paese a riconoscere Israele, e a tenersi in pancia e fuori caterve di ebrei russi). Anzi no: è perché Israele è uno stato militarista, uno stato etnico – il motivo per cui piace pure al Battaglione Azov, che lo dice ufficialmente (e non scherziamo).

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Sarà quello? Mboh. Intanto io sblocco quella memoria, così per capire come le «lettere aperte» istituzionali dalla fiamma arrivano fino alla mente di mio figlio.

 

Quello degli ebrei a scuola è un tema ciclico e risalente. Dall’hard disco personale ripesco un giorno di più di un quarto di secolo fa, un sabato pomeriggio, sono da solo in un bel bar dentro una rara casetta liberty, di solito andavo lì alla sera per gli amici e le ragazze ma il pomeriggio, quando non c’è nessuno, c’è grande pace, e lo spritz lo pagherò 1000 lire (fate voi i conti – comunque era un posto costoso, nel baretto successivo della via il prezzo era 500 lire).

 

I tizi del locale sono di sinistra: ecco che sul bancone spunta Repubblica, giornale che leggo con avidità. Mi colpisce un grande editoriale, un articolone, un’articolessa, si intitola «Io professore fallito». Mi fiondo a leggerlo, perché fiuto subito la voglia del quotidiano di vellicare questa parte consistente del suo pubblico, gli insegnanti di scuola, medie, elementari, superiori, università, che vuolesi ceto medio riflessivo ma è soprattutto casta statale sempre in cerca di qualcuno che riconosca quanto bravi, intelligenti sono – e soprattutto dire quanto, ancorché talvolta tristi ed incompresi, quanto sono necessari al Paese.

 

Il pezzo è tutto un racconto intimo di dettagli personali anche poco significanti (tipo l’articolo che state leggendo). L’autore racconta di aver portato i suoi studenti a vedere un film in un multisale di una città del Lazio. Si tratta di Train de vie, una pellicola sull’Olocausto però con allegra musichetta balcanica alla Bregovic (quella che, anni dopo, Elio e le Storie Tese dissero solennemente che «ci ha rotto i…»): «un film straordinario, geniale, capace di ribaltare da un’inquadratura all’altra ogni ruolo e di guardare alla tragedia della Shoa [sic] con uno sguardo obliquo, ironico, poetico, in modo diverso (perché diverso è lo stile) ma analogo (per una vicinanza poetica tra i due autori) a La vita è bella di Benigni» scrive il professore nella mirabile infilata iniziale.

 

«Io non l’avevo mai visto prima e mi sono emozionato, gli alunni in gran parte si sono annoiati. A un certo punto mi sono dovuto alzare per andare ad azzittire un gruppetto di ragazzi che dalle prime file continuava ad alzare grida di “Heil Hitler!”» racconta con amarezza.

 

«Nell’intervallo sono andato al bar, fuori dal cinema, a prendermi un caffè. Vicino a me c’era il proprietario del cinema. Io l’ho riconosciuto, lui no. È un uomo sulla sessantina, uno di quegli ex malandrini talmente narcisisti da non riuscire a memorizzare un solo volto. Ne ho conosciuti a migliaia. Sono talmente concentrati sulla loro vita che tutto il resto non solo lo ignorano, ma faticano a considerarne l’esistenza. Sono perfino comici, certe volte, perché a un occhio inesperto tanta pienezza di sé, e senso dell’esclusione, può confondersi facilmente con un rincoglionimento da macchietta».

 

Diciamo di non sapere se, dopo la pubblicazione, sia partita una denuncia per diffamazione: ci starebbe. Ma si va avanti:

 

«Il barista gli ha chiesto se nel cinema ci fossero i ragazzi della scuola, e lui ha riposto di sì con la testa, appoggiando la tazzina del caffè alle labbra protese. Poi l’altro si è informato sul film che stavano proiettando. Allora lui ha mandato giù il caffè inghiottendo sonoramente, ha fatto schioccare la lingua, ha infilato una mano in tasca, ne ha estratto un mazzo di biglietti di vario taglio, ha sfilato con la punta di indice e pollice una banconota da mille, l’ha allungata alla cassa e infine ha risposto: – Un treno per vivere, ‘n’antra stronzata sull’ebbrei».

 

Ecco: «‘n’antra stronzata sull’ebbrei». Scritto proprio così: «sull’ebbrei». La frase romanesca mi è rimasta impressa nella memoria per anni, e non manca di farmi ridere ancor’oggi.

 

Ricercando questo mirabile testo, ho appreso che l’autore non era solo un professore, ma anche uno scrittore – specie nota in Italia, i docenti di scuola pubblica che gliela fanno a farsi fare il giro in giostra con il grande editore, e conseguentemente con qualche saletta di libreria o circolo Arci riempita di loro simili e tesserati PCI-PDS-DS-PD che per una sera si fanno convincere ad uscire di casa rinunziando al film su Rete 4. Si chiama Sandro Onofri, purtroppo sarebbe morto poco dopo la pubblicazione dell’articolo per cancro al polmone.

 

Lo scrittore e poeta e insegnante, ci chiediamo, come si sarebbe sentito quando, sugli stessi canali della grande sinistra e dell’establishment che ospitavano il suo sdegno per la mancanza di devozione olocaustica, anni dopo sarebbero apparsi peana al battaglione Azov? Quando la sinistra mondiale e il suo padronato borghese slatentizzato avrebbero fischiettato davanti a svastiche e lettere runiche, e anche a certi video recenti di supposte persecuzioni degli ebrei in Est Europa?

 

Davanti a chi gli avrebbe mostrato l’orrore nazista vivo e vegeto, e armato e finanziato dal contribuente italiano, avrebbe detto: «‘n’antra stronzata su Hitleh»…?

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Sblocchiamo un ricordo più recente. Il lettore deve sapere che mesi fa, molto prima dell’efferata strage di Hamas del 7 ottobre, Renovatio 21 aveva in canna un editoriale che parlava della Finestra di Overton che si stava aprendo riguardo l’antisemitismo. Il pezzo non fu prodotto e pubblicato, e mal ce ne incolse: ci avevamo, come sempre, ragionissima, e poco dopo avremmo visto l’odio per gli ebrei divenire mostruosamente mainstream con il cortocircuito attuale, dove in USA università e giovani della Generazione Z (più o meno goscisti, ma tutti, comunque, «fluidi», woke e nichilisti) arrivano a giustificare e persino celebrare i massacri contro gli ebrei (e ad esaltare le epistole del Bin Laden).

 

L’articolo che volevamo scrivere partiva dalle sparate del rapper Kanye West, che di colpo aveva cominciato a fare discorsi sugli ebrei piuttosto puntuti. Intervistato da Tucker Carlson, l’uomo – che è bipolare e miliardario, e popolarissimo – si era contenuto.

 

Poi, presentatosi in Texas da Alex Jones vestito tipo lo «storpio» di Pulp Fiction (una maschera nera che gli copriva il viso che forse veniva dalle sue frequentazioni con Balenciaga, marchio con cui ha collaborato molto), aveva spalancato tutto: lodi a Hitler, responsabile anche dell’invenzione dei microfoni, e attacchi diretti, nome e cognome, a Ari Emanuel, figlio di un terrorista sionista dell’Irgun e uomo più potente di Hollywood (e della TV, e della UFC, e chissà di cos’altro), fratello del capo di Gabinetto di Obama Rahm Emanuel (ora controverso ambasciatore in Giappone) e pure di Ezekiel Emanuel, medico e ultravaccinista della Bioetica di governo che va oltre l’eutanasia per chiedere direttamente la rinuncia alle cure per le persone oltre i 75 anni.

 

 

L’intervista del Jones con questo tizio mascherato era a dir poco incredibile: i discorsi sugli ebrei che faceva Kanye, che per qualche ragione ora vuole contrarre il suo nome in «Ye» – erano semplicemente inauditi in pubblico.

 

Capiamo anche l’imbarazzo del caso: difficile dire che si tratta del peccato onnipresente della società americana, quel suprematismo bianco che ci devono convincere essere legato al voto a Trump, perché il Kanye è nero.

 

E quindi: le critiche ferali sui potentati ebraici stavano diventando mainstream…? Certi discorsi, erano relegati all’underground dei lunatici.

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Un attimo, mi si sta bloccando un altro ricordo: sono a Nagasaki, la città più bella del mondo, tanti anni fa. Vicino alla stazione dei treni, tra la baia e i monti verdi, dopo un grande ballatoio che ti fa camminare sopra le strade, c’è un imperdibile negozio di libri usati. Il mio povero giapponese non mi consente la lettura di testi in presenza di troppi ideogrammi kanji, ma è uno spasso vero per il bibliofilo ammirare l’arte libraria nipponica: la tipografia, la consistenza della carta, il design delle copertine… anni dopo, alla Fiera di Francoforte, mi sarei fatto amico produttori di libri locali solo per sentire la passione con cui descrivono questo lavoro.

 

Tra i libri che sfoglio nella città del mio pellegrinaggio atomico, uno attira la mia attenzione: si chiama «Zionist Underground Conspiracy», o qualcosa del genere, ma non credo che parli davvero di complotti sionisti del sottosuolo: forse è un libro che parla di jazz, o di avanguardia letteraria, non lo ricordo, non lo so, perché, da mòna, lo sfogliai e non lo comprai.

 

Epperò è vero che c’è da chiedersi come i giapponesi vivano ‘sto «Giorno della Memoria». Messi giapponesi partecipavano alle «conferenze» razziali nella Germania nazista, dove cercavano di convincere tutti che i cinesi sono gli ebrei d’Oriente: ne parlava anche molto scandalizzato, Julius Evola nei suoi racconti di quegli eventi.

 

Ecco che scatta la voglia di rammentare il Fugukeikaku, l’«operazione fugu»: a forza di sentire i tedeschi lamentare delle incredibili capacità di controllo economico degli ebrei, i giapponesi, molto pragmaticamente, si erano detti: ma scusate, ma perché non sfruttiamo questa loro competenza? Pianificarono quindi di portare quantità di ebrei in Manciukuò, lo Stato fantoccio che il Giappone Imperiale aveva creato in Manciuria (lo potete vedere nel film L’Ultimo Imperatore).

 

Il fugu è una pietanza nota ai lettori di Renovatio 21: il pesce palla è cibo prelibato, che ha ucciso, vogliamo rammentarlo spesso, Bando Mitsugoro VIII (1906-1975), un attore che aveva il titolo di Ningen Kokuho, «tesoro nazionale vivente». Il pesce va preparato con una cura assoluta, perché varie parti sono velenose, quindi se finiscono, anche solo in parte in bocca al cliente del ristorante (che deva avere una licenza speciale per offrirlo nel menu), c’è la morte. L’attore patrimonio vivente morì dopo averne mangiato una quantità, una sfida al fato stile roulette russa ittico-venefica.

 

Ebbene, quei capoccia militari nipponici che idearono il Piano Fugu riconoscevano che l’importazione di ebrei poteva essere fatale al Paese. Per capire la situazione necessitiamo di una certa dose di elasticità, che è quella che serve spesso a contatto con le mentalità orientali. Cionondimeno, alcuni trovano la cosa talmente bizzarra da essere divertente.

 

Secondo alcuni, l’operazione fugu permise a molti ebrei di salvarsi dallo sterminio cui andavano incontro in Europa: il fugu come Schindler, come Perlasca. Tuttavia, non ci sembra che nemmeno quest’anno, nella pletora di contenuti olocaustici piombati per il «giorno della memoria», il pesce palla abbia trovato il suo posto. Ricordiamo pure, en passant, che in quello stesso 1934 Stalin creò ai confini della Manciuria l’oblast’ degli ebrei, una provincia autonoma estremo-orientale solo per giudei, che è peraltro ancora esistente. Anche il baffone… aveva concepito un suo piano fugu?

 

Vabbè, rimane il fatto che questo «underground sionista» di cui parlava quella copertina di libro a Nagasaki non ho capito cosa sia.

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Un attimo, si sblocca un ulteriore ricordo, recentissimo. È un altro articolo che non siamo riusciti a scrivere, forse per mancanza di tempo, forse perché inebetiti dalla questione, che toglie il fiato e le parole pure…

 

Sapete cosa è successo a Brooklyn. Avete visto nitidamente quelle immagini sconvolgenti… sotto una sinagoga degli Chabad Lubavitcher (avete presente: sono quelli con la barbona, i riccioletti palandrano, il capellazzo a tutte le stagioni, quelli che sarebbero dietro a Milei, anzi davanti, perché mica la cosa è più nascosta), hanno trovato dei tunnel sotterranei, scavati dagli stessi ebrei ortodossi.

 

 

I giornali mainstream americani, quelli filoisraeliani, magari pure con famiglie ebree come editori, hanno dovuto titolare proprio così: «Jewish Tunnel in New York City».

 

Ci siamo stropicciati gli occhi diverse volte, e dato tanti pizzicotti. La faccenda è che ci sono le immagini, che sono semplicemente pazzesche. La polizia che scopre i tunnel, o cerca di murarli, e la torma di ebrei hassidici – tutti uguali identici – che scatenano la rivolta: lasciateci le nostre strutture segrete sotterranee.

 

 

Il podcaster Tim Pool la ha detta giusta. Mostrando il filmato che mostra incontrovertibilmente un signore ebreo che esce da un tombino in strada (!?!) ha considerato: «pensa di essere senza il video, e dover descrivere questa scena a qualcuno».

 

 

Effettivamente, il racconto di tale realtà fotografica in Italia potrebbe essere materia da legge Mancino.

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Ebrei che operano nel sottosuolo? Ebrei che costruiscono tunnel sotto le città? Credo che nell’antisemitismo a cavallo tra XIX e XX secolo fosse venuta fuori pure una storia del tipo che gli ebrei erano dietro la costruzione della metropolitana, perché da sotto terra sarebbe stato più facile, poi, farle cadere a suon di terrorismo (non ricordo dove ho letto questa cosa, ma immagino la facilità con cui il complottaro antisemita ottocentesco poteva arrivare a simili idee).

 

Bisogna capire che il sotterraneo è la proiezione psicospaziale del complottista di bassa lega: se sentite qualcuno che improvvisamente vi parla di tunnel segreti sotto la vostra città, qualsiasi essa sia, siete in presenza spesso di cospirazionista domofugo, cioè scappato di casa, cioè inattendibile e perdigiorno: perché chi vuole sempre credere ad un lato occulto della realtà, se pensa a dove vive, ci proietta subito una parte invisibile, che non può che essere sottoterra.

 

Poi però arrivano queste immagini.

 

Scusate, ma cosa sono quei materassi? È vero che sono materassi delle dimensioni dei letti da bambini? E cosa sono quelle macchie? E quel seggiolone…?

 

 

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Risposte che mica arrivano con facilità. Tuttavia vari media hanno tentato di spegnere il fuoco con getti di teorie rassicuranti: va tutto bene, i tunnel erano per allargare la sinagoga. Allargare la sinagoga, sottoterra?

 

Ma no, i tunnel servivano a collegare la sinagoga con altre sinagoghe, o centri, o case, della zona. Ma perché scavare una galleria sotterranea illegale per farlo?

 

Ma no, tutto OK, in verità sappiamo che gli ebrei di Nuova York si erano opposti eroicamente al lockdown COVID del sindaco e del governatore, servivano quello… ma scusate, non è stato detto che i tunnel sono stati fatti l’anno scorso o poco prima, a restrizioni pandemiche morte?

 

Ma no, si tratta di mikvah, bagni rituali, quelli che si usano ritualmente per le donne ebree quando hanno il mestruo, solo che qui sono fatti per gli uomini… ma scusate, gli uomini hanno le mestruazioni? In USA anche sì, tuttavia è difficile che siano gli ebrei ortodossi a crederlo. Quindi: mikve rituali per purificare i futuri rabbini dal loro ciclo? Machedaverodavero?

 

Un comico su YouTube fa la battuta: il segno davvero apocalittico della situazione è il fatto che si sono visti dei giovani maschi ebrei ortodossi fare lavori manuali. Umorismo tutto neoeboraceno, dove è noto che di queste centinaia di aspiranti, solo il 2% diverranno rabbini, e gli altri saranno sistemati in qualche lavoro avulso dal lavoro materiale come la tratta dei diamanti in triangolazione con Anversa, Tel Aviv e forse qualche parente piazzato sopra una remota miniera africana.

 

Un altro dice: dopo questa cosa, la nostra vita è in discesa. Come faranno a chiamarci ancora complottisti? A deridere chi dice che la realtà, forse, non è quella che vediamo in superficie?

 

Qualcuno del giro QAnonista tira fuori dei disegni di artisti che, dicono, sarebbero nelle collezioni artistiche dei fratelli Podesta, che non capiamo bene come possano c’entrare qualcosa qui, ma sono inevitabili rigurgiti del Pizzagate.

 

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Altri ricordano più concretamente una pagina del sito internet dell’ADL. L’Anti Defamation League è il potente ente creato per combattere i discorsi antisemiti, anche schedando chiunque possa produrne anche solo echi lontani.

 

Nata – e collegata, secondo E. Michael Jones, al giro della mafia ebraica – per contrastare una fiammata di antisemitismo quando una 13enne di Atlanta fu trovata morta stuprata, l’ADL negli anni è passata a tacciare quantità impressionanti di persone di razzismo e di deviazione dai dogmi del politicamente corretto, arrivando di recente ad attaccare persino Elon Musk.

 

Il lavoro certosino di censimento di ogni possibile idea eterodossa da condannare perché pericolosa, aveva portato l’ADL a scrivere anche di una credenza detta «Mole/tunnel children», circolante fra i gruppi QAnon.

 

«Durante i primi mesi della pandemia di COVID-19, il governo ha allestito un ospedale improvvisato nel Central Park di New York. Allo stesso tempo, la Marina degli Stati Uniti ha inviato volontariamente in città la nave ospedale USNS Mercy per aiutare gli ospedali traboccanti» scrive il sito dell’ente di censura ebraico. «QAnon ha affermato che le tende a Central Park erano lì per nascondere buchi nel terreno che sarebbero stati utilizzati per salvare i numerosi bambini presumibilmente trafficati nei tunnel sotto il parco. Questi bambini salvati sarebbero stati portati alla USNS Mercy. Questa teoria ha guadagnato ulteriore popolarità perché la linea Q della metropolitana corre sotto il parco».

 

Diciamo che questa scheda che deride chi crede in tunnel segreti e traffici di bambini è invecchiata male – specie considerando che proviene da un’organizzazione, l’ADL, fondata nel 1913 dall’ordine giudeo-massonico B’nai B’rith.

 

E quindi… quei tunnel cosa sono? L’FBI, che ha programmi per infiltrare i pericolosi cattolici della messa in latino, sta indagando?

 

Non è che avremo risposta, lo sappiamo. Ci rimane l’immagine degli ebrei che escono dalle fogne, come le tartarughe ninja mutanti del vecchio cartone che un trentennio fa impazzava negli USA e anche un po’ in Italia.

 

Tuttavia, sblocchiamo un altro ricordo nel giorno memoria personale.

 

Sono in India, è il tardo autunno 2005. Sono ad Auroville, una stramba cittadina dove abitano in larga parte occidentali seguaci del filosofo e attivista separatista indiano Sri Aurobindo, delle cui stranezze magari parliamo un’altra volta. La mitica Marta, l’amica che ci ospita ci porta ad una sorta di festicciola sulla spiaggia, è notte, e l’Oceano Indiano scroscia nel buio più totale. Ad un tavolo ci sono dei ragazzi che mi presentano. Uno ha la pelle ambrata, il volto simpatico, ed è intento a prepararsi una sigaretta esotica. Capisco subito che si tratta di un israeli chilum smoker, espressione con cui gli indigeni indiani definiscono la massa di giovani israeliani che si abbattono costantemente sul subcontinente.

 

In pratica funziona così: in Israele fai tre anni di naja tremenda, dove di fatto non è che ti annoi in caserma, vai praticamente in guerra. I ragazzi (e le ragazze) sono talmente distrutti dall’esperienza che l’immediata reazione, già durante il servizio, è quella di convertirsi alla musica elettronica di tipo trance e all’uso di droghe sintetiche – insomma, il mondo dei rave, che ha fatto da teatro alla strage iniziale del 7 ottobre, con i parapendii motorizzati di Hamas a planare sul festival del ferale massacro nel deserto.

 

Finito il militare, ai giovani israeliani non bastano più i festoni locali – cercano uno spazio di decompressione in terre lontane per continuare a drogarsi ed ascoltare musiche para-spiritualiste, almeno per un po’, almeno prima di entrare finalmente all’università. L’India è la meta favorita per questo tipo di lavoro: qui trovano un certo senso di libertà, una qualche cifra spirituale orientale (che magari non intacca il loro ebraismo, secolare o no che sia, ma che è presente) e magari pure la cannabis che cresce in ogni angolo.

 

Quella sera avevo voglia di saperne di più. Il ragazzo stava davanti a me, e quindi sono partito con le domanda.

 

«Quanti passaporti hai?». Due. Uno era di un Paese UE che non avrei detto.

 

«Hai fatto il militare?». Sì, tre anni. L’ha fatto tutto. Ora stava decidendo dove, nel mondo, andare all’università.

 

«Hai mai ucciso un uomo?» chiedo a bruciapelo.

 

Lui, noto, cerca di non reagire d’istinto. Solo per un secondo, ferma il rollaggio.

 

«Sì» mi dice facendo come un sorriso, che però non è un sorriso. I suoi occhi dicono altro. Poi il sorriso finisce, lo sguardo gli diventa più controllato, razionale.

 

«Stavo in un carrarmato. Di notte, ho visto sullo schermo uno che scendeva dal muro. Una volta a terra, a cominciato a camminare così, come per non essere visto… combat walking»

 

«Ho chiesto al mio superiore se sparare. Lui mi ha detto di sì. L’ho fatto. In seguito sono stato premiato».

 

A questo punto il ragazzo israeliano accende. È chiaro che ci ha pensato mille volte. È chiaro che vuole dimenticare. È altrettanto chiaro, tuttavia, che non sa ancora cosa pensare, come sentirsi. O almeno, sa di non poterlo esprimere, forse nemmeno a se stesso: sia dentro stia venendo macinato, sia abbia invece il nulla.

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Ultimo ricordo di ebrei dal sottosuolo della mia mente, sempre con ambientazione indica, questa volta più leggero.

 

Estate 2010, sono a Dharamsala, la capitale del governo tibetano in esilio, residenza del Dalai Lama, eterna meta di pellegrinaggio di buddisti e divorziate a go-go. Sono con un gruppo di amici, cinque italiani e cinque indiani e indiane; abbiamo appena attraversato l’Himalaya in moto, siamo all’ultima tappa prima di tornare a Delhi.

 

Siamo esausti: in un passo a 5000 metri di altitudine metà della ciurma è caduta vittima del mal di montagna, e attorno a noi c’era il nulla, il deserto himalayano per chilometri di burroni sulla strada più pericolosa del mondo. A Leh, città più a Nord dell’India, avevamo visto come l’altitudine arrivi nei polmoni impedendoti quasi di fare le rampa di scale. A Lamayuru, un luogo sperduto vicino ad un monastero lamaista, eravamo finiti in un Overlook Hotel dove una ragazza finlandese sembrava intrattenere indiani a caso, in un contesto spettrale raccapricciante. A Sri Nagar, in Kashmir, sembrava che ci potessimo riposare: ed ecco invece che, di notte, viene nella nostra stupenda house boat che galleggia intarsiata sul lago Dal la polizia con il tizio che ce l’ha affittata, e ci dicono, apertis verbis, che è meglio se prendiamo le moto e fuggiamo via, perché per l’indomani era prevista una rivolta musulmana, cosa a cui qualcuno di noi pure pensava perché arrivando c’erano soldati armati di kalashnikov ogni cinquanta metri: ecco che sgommiamo impanicati, mentre prima dell’alba partono dai minareti suoni che si mischiano in un rumore che domina la valle e che sembra sul serio uscito dall’inferno.

 

Quindi, siamo a Dharamsala, qui bisogna riposarsi. Ce lo meritiamo. E se non trovi pace nella capitale del buddismo internazionale (almeno secondo Hollywood), dove la vuoi trovare? Gli israeli chilum smokers ci sono anche qui, ma ci sono tanti altri foreigner. La presenza israeliana era stata una costante in tutto il viaggio. Li avevamo visti a Manali, cittadina montana da cui si parte, dove negozi e call center hanno cartelli in hindi e in ebraico, skippando in alcuni casi del tutto l’inglese ed i caratteri latini. Nella valle di Numbra, posto remoto e magico con yak e cammelli d’alta quota da cui l’Himalaya guarda al Karakorum, ne avevamo incontrati una torma, tutti altamente disinteressati a fare amicizia con noi, anche se eravamo gli unici esseri viventi in tutta la zona.

 

Ecco che esce una rischiosa idea per il meritato relax: da qualche parte, dispersa nelle colline attorno a Dharamsala, c’è… una pizzeria. Proprio così: pur sapendo che stiamo andando incontro all’orrore puro, decidiamo unanimemente di partire alla sua cerca. Non ci si arriva in macchina e nemmeno in moto: bisogna camminare su un sentiero a piedi, dalla fine di un paesino, dove ancora si vede qualche stall, qualche localino dove notiamo lo spalmo di ulteriore presenza israeliana, poi avanti, nel buio, tra le colline. Alla fine, si giunge a questo posto sperduto povero ed indefinibile come la cosa che ci danno da mangiare, ma che ci importa, siamo qui, siamo in compagnia, siamo vivi, siamo sopravvissuti a tutto, siamo sopravvissuti all’Himalaya.

 

È stato camminando sul sentiero di ritorno che si è manifestata la scena con cui voglio chiudere questo scritto.

 

«Robi… Robi… vieni…. guarda!»

 

L’amico mi chiama da distante, ma come sussurrando, agitando le mani in aria. Pure nella tenebra, vedo che sta ridendosela di gusto. Lo raggiungo. Lui mi indica un punto sotto il sentiero, e continua a sganasciare sommessamente.

 

Allungo gli occhi: nel mezzo del niente, c’era una sorta di piccola struttura residenziale, quasi un condominio, tutto avvolto nell’oscurità. Tutte le finestre mostravano però che dentro c’era vita, le luci erano accese, forse si poteva sentire pure qualcuno parlare, e un lieve tunza-tunza della musica techno-trance in sottofondo.

 

«Guarda, Robi, guarda in quella finestra!»

 

A questo punto, vedo: nel caldo paratropicale indiano, nella capitale dei tibetani esiliati, nella notte più cupa ai piedi dell’Himalaya… ci sono, dentro un appartamento, due ragazzi ebrei ortodossi, riccioli, barba, cappello, palandrano, occhiali a fondo di bottiglia – proprio come quelli che a Nuova York scavano i misteriosi tunnel con dentro i materassi. Erano lì che parlavano, chiacchieravano uno metteva la mano sulla spalla dell’altro, sembravano sereni… felici.

 

Forse a leggerlo non fa effetto, ma assicuro che il cortocircuito di senso – tizi stile video Rock The Casbah dei Clash nell’oscurità asiatica – sul momento mi sconvolse, e non ricordo se risi o piansi, di dolore o di gioia (anche questo, in quel viaggio pazzesco, dovevo vedere).

 

Ci penso, in questo giorno della memoria, voglio ricordarlo: una delle prove che in effetti gli ebrei, dalla scuola elementare di mio figlio ai sotterranei americani, sono davvero un po’ dappertutto, sono un po’ in ogni cosa, e in modo paradossale – nel momento in cui si parla dei tunnel di Hamas, saltano fuori i tunnel ebraici di Brooklyn, nel giorno indetto per la memoria dello sterminio nazista, vengono accusati di genocidio all’Aia.

 

Rimane il dubbio: non sappiamo fino a che punto sia lecito, legale, tenere a mente queste cose, e pure scriverle.

 

Per cui, con le memorie dal sottosuolo ebraico, fermiamoci qua.

 

Roberto Dal Bosco

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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