Stato
Kennedy: «Stiamo andando verso un sistema in cui le élite scelgono la nostra leadership». In realtà ci siamo arrivati da un pezzo
Il candidato presidenziale indipendente americano Robert F. Kennedy jr. ha commentato l’incredibile vicenda della Corte Suprema del Colorado che ha di fatto ordinato che il nome del candidato alle primarie repubblicane Trump fosse tolto dalle schede elettorali.
Il Kennedy, che il 9 ottobre aveva annunciato che si sarebbe candidato alla presidenza nel 2024 come indipendente invece che come democratico perché il Comitato nazionale democratico stava «truccando le primarie», ha espresso più volte la sua disapprovazione per la decisione del massimo tribunale coloradiano.
«La sentenza della Corte Suprema del Colorado fa sembrare l’America una repubblica delle banane. Perché tutti gli americani non capiscono che se possono fare questo a un ex presidente degli Stati Uniti, TUTTI sono vulnerabili alla punizione per crimini per i quali non sono mai stati condannati. La democrazia sarebbe un disastro totale» ha scritto Kennedy su Twitter.
«Se Trump viene tenuto fuori dall’incarico per decisione giudiziaria anziché essere sconfitto in elezioni corrette, i suoi sostenitori non ne accetteranno mai il risultato. Questo Paese diventerà ingovernabile» ha continuato in un altro post.
La testata americana Epoch Times ha intervistato Kennedy sull’argomento ottenendone un commento secco e preoccupante: «penso che stiamo assistendo sempre di più a questa tendenza sinistra e preoccupante verso il declassamento della democrazia. Stiamo andando verso un sistema in cui le élite scelgono la nostra leadership», ha detto Kennedy.
«È come nella vecchia Unione Sovietica, dove i leader dei partiti scelgono la leadership. Le agenzie federali sono state utilizzate come armi politiche contro il pubblico americano per impedire a chiunque di candidarsi tranne i leader scelti».
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«Non sono un fan di Trump, ma voglio che sia il popolo americano a decidere chi lo rappresenta, e voglio vincere in condizioni di parità e in una lotta leale, non con un intervento giudiziario che entra e si sbarazza della gente non gli piace».
Kennedy si è anche opposto al fatto che il tenente governatore della California (lo Stato in cui risiede) Eleni Kounalakis avesse ordinato la settimana scorsa al segretario di Stato Shirley Weber di esplorare «ogni opzione legale» per rimuovere il presidente Trump dal ballottaggio.
«Qualcuno deve spiegare al vicegovernatore Kounalakis che in democrazia scegliamo i candidati VOTANDO. Non con manovre legali per escluderli dalla votazione», ha scritto Kennedy. «Kounalakis ha stretti legami con Gavin Newsom (ovviamente), Kamala Harris e Nancy Pelosi. Non è solo un individuo con un programma. È profondamente inserita nell’establishment del partito democratico».
Kennedy sta scoprendo l’arcano dello Stato moderno: la democrazia, dove etimologicamente comanda il popolo, di fatto non esiste, vi è invece l’illusione della democrazia proiettata da un oligarcato mendace, corrotto e spietato.
In Italia il fenomeno dei politici scelti dalle élite sono una realtà incontrovertibile da anni – pensiamo ai deputati PD che sono «intellettuali» pompati sulle pagine del gruppo Espresso, prima di proprietà del finanziere Carlo De Benedetti, ora degli Agnelli-Elkanni, ma non solo a loro. L’impressione che i leader, a sinistra come a destra, siano scelti con una logica di «casting» può assalire varie volte nel corso dell’anno il cittadino elettore contribuente.
Il ruolo delle élite più o meno occulte nel creare e disfare il discorso politico secondo i loro interessi è alla luce del sole: la notizia, semmai, è il fatto che tale giuoco viene fatto senza più pudore alcuno. Ciò è vero specie dopo la pandemia, che è stato un momento di ridefinizione totale del paradigma dello Stato e del cittadino: non più lo Stato come espressione del cittadino, ma la sottomissione del cittadino allo Stato – anche se ciò significa calpestare la stessa Carta Costituzionale che dovrebbe costituire la base dello Stato. Non più, quindi, lo Stato di diritto, ma la schiavitù del popolo secondo l’arbitrio dei vertici e dei loro eventuali pupari.
Silvio Berlusconi e Donald Trump possono rappresentare una eccezione alla tendenza: sono infatti, almeno sulla carta, personaggi contigui per danari e conoscenze alle élite, ma che non dipendevano da esse, ricevendo quindi l’accusa di «populismo».
Il precedente storico spesso citato in questo caso è quello del settimo presidente americano Andrew Jackson (1767-1845), che, pure membro dell’alta casta washingtoniana, si rivoltò contro di essa inaugurando la corrente «populista» della politica americana. Con Trump, è stato notato, Jackson condivide la passione per una capigliatura estremamente caratteristica.
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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)
Necrocultura
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Famiglia
L’Irlanda vota per mantenere il linguaggio «sessista» nella sua Costituzione
Gli elettori irlandesi hanno respinto a stragrande maggioranza la proposta di rivedere la definizione di famiglia nella Costituzione del Paese e di rimuovere la menzione dei «doveri domestici» delle donne. Sia il governo che i partiti di opposizione hanno sostenuto che il testo attuale contiene un linguaggio antiquato e sessista sulle donne e sul loro ruolo nella società.
Venerdì si è svolto il referendum in materia, in significativa concomitanza con la Giornata internazionale della donna.
Agli elettori è stata offerta la possibilità di espandere la tutela costituzionale delle famiglie per includere quelle fondate su «relazioni durevoli» diverse dal matrimonio. È stato anche proposto loro di eliminare la clausola sul dovere dello Stato di «garantire che le madri non siano costrette, per necessità economica, a impegnarsi nel lavoro trascurando i loro doveri domestici».
Secondo i risultati ufficiali diffusi sabato sera, il 67,7% ha votato contro la ridefinizione della famiglia, mentre quasi il 74% ha respinto la rimozione della clausola dei «doveri domestici».
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«Penso che sia chiaro in questa fase che i referendum sull’emendamento sulla famiglia e sull’emendamento sull’assistenza sono stati sconfitti», ha detto sabato il primo ministro di origine indiana Leo Varadkar, il primo premier irlandese gay dichiarato, in una conferenza stampa a Dublino, ammettendo che le autorità non sono riuscite a convincere la maggioranza dell’opinione pubblica.
In precedenza aveva sostenuto che il voto per il «no» sarebbe stato «un passo indietro» per i diritti delle donne e aveva criticato «il linguaggio molto antiquato e molto sessista» della costituzione. Anche il vice primo ministro Micheal Martin ha espresso la sua frustrazione per i risultati, ma ha sottolineato che il governo li «rispetta pienamente».
Secondo i media irlandesi, la formulazione vaga degli emendamenti, i problemi di comunicazione e la campagna poco brillante sono stati tra i motivi per cui la gente ha votato «no».
Adottata nel 1937, la costituzione irlandese è stata fortemente influenzata dalla Chiesa cattolica e, secondo i critici, riflette posizioni conservatrici sulle questioni sociali.
Nell’ultimo decennio, tuttavia, il Paese ha legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso e ha abrogato il divieto quasi totale di aborto, dopo una campagna finanziata ampiamente da potentati economici internazionali interessati per qualche ragione a introdurre il figlicidio anche nella terra di San Patrizio.
Come riportato da Renovatio 21, ora il 95% delle donne irlandesi uccide il proprio figlio nel grembo materno se i test indicano che il bambino potrebbe avere la sindrome di Down.
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Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia
Pensiero
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