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Immigrazione

Immagini dall’inferno migratorio di Lampedusa

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L’isola di Lampedusa è al collasso. Migliaia di immigrati stanno sbarcando sulla costa italiana: alcuni sostengono che nelle ultime 24 ore sarebbero arrivati 6000 immigrati.

 

Lampedusa sta ad appena 60 miglia dalla costa tunisina, ed ha una popolazione di appena 6000 persone. Molti africani raggiungono l’isola con imbarcazioni che sono poco più di zattere. Secondo alcuni report ne sarebbero partite dall’Africa circa 160, in quello che ha l’aria di essere un fenomeno altamente organizzato e decisamente non casuale.

 

Si tratta, come noto, di una tipologia specifica di immigrato: maschi in età militare.

 

Secondo alcuni rapporti, altri 10.000 sarebbero in partenza.

 

Le cause di questo disastro potrebbero essere legate allo specifico utilizzo dell’«arma di immigrazione di massa» da parte dello Stato tunisino, che, esattamente come faceva il vicino Gheddafi e pure Erdogan, chiede all’Europa concessioni o aiuti economici in cambio dello stop all’ondata migratoria.

 

Di certo, la cosa sta accadendo sotto il governo di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, partito sedicente nazionalista che aveva venduto agli italiani l’idea del «blocco navale», e che ora si trova ad avere il doppio degli immigrati rispetto all’anno passato, quando a Palazzo Chigi c’era il tecnocrate cosmopolita Draghi.

 

Lampedusa sta per cadere, invasa da un’orda non sostenibile, non gestibile, inaffrontabile.

 

Queste sono alcune delle immagini che circolano in rete e che stanno sbalordendo, e impaurendo, il mondo intero.

 

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Vista la tensione, le forze dell’ordine hanno effettuato alcune cariche di alleggerimento al molo del porto Favaloro. Dire che gli agenti sono in minoranza numerica è, questo momento, un ridicolo eufemismo.

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Qualcuno, tuttavia, sembra divertirsi.

 

 

 

Il party, in realtà, inizia già in barca

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Immagine screenshot da YouTube

 

 

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Immigrazione

Gli immigrati saranno nostri guardiani e persecutori?

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Chi segue Renovatio 21, sa che semel in anno succede che racconti un qualche sogno capitatomi nottetempo. A volte questo sito ha pure scritto di sogni dei lettori stessi. I sogni sono, purtroppo, importanti.   Ultimamente odio sognare. Il carattere opaco e incontrollabile delle visioni notturne da qualche anno mi disturba. Nei momenti di cattivo umore finisco a chiedermi, in modo forse non cristiano, se l’esperienza dell’inferno non sia esattamente così: oscuro e irrazionale, illogico, inagibile, uno stato della mente che è una dimensione di punizione. I sogni sono anticipazioni degli inferi?   Ma no, a volte succede che si fanno i sogni memorabili, dove il significato è evidente quasi da subito, per poi divenire lampante, a tratti sconvolgente, man mano che si procede ad analizzare, a scendere nei livelli più profondi – inferi – della propria psiche.   Come ad esempio, il sogno con Mattarella e gli immigrati africani fatto l’altra sera.

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La trama, per quello che posso ricordare, può sembrare sconclusionata al punto giusto: trovatomi nella pasticceria dove spesso bevo il cappuccino – che per qualche ragione era come un condominio in costruzione, mi dicevano che, non ho capito perché, sarebbe stato il caso che passassi a salutare il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella. (Scrivo queste righe sperando che i sogni non infrangano l’art. 278 del Codice Penale, «Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica»: sappiamo che a difendere questa legge spesso ci vanno giù pesante)   Io non ero contrario all’idea, quindi mi portavano giù per una scala, dove c’era un garage – la tipica autorimessa di certe casette piccolo borghesi, una stanza situata appena sottoterra, con oggetti vari (attrezzi, bici) piazzati in qualche ordine alle pareti, scope e secchi in un contesto di pulizia, anche se con quella sensazione di incompiuto che sento tipicamente in certe case di provincia.   Nella stanzetta sottoterra che dava verso al garage c’era lui, il Mattarella –anzi, c’era lei: nel mio sogno il presidente aveva le fattezze della senatrice ebrea Liliana Segre, la quale anche nella vita da svegli molti ritengono assomigliare al capo dello Stato di origine sicula.   Il Mattarella-Segre, che indossava un grembiule da lavori domestici, salutava rapidamente me e i miei conoscenti ma era indaffarato con qualcosa, forse stava pulendo, ed era come se aspettasse qualcuno, come se non fosse davvero padrone del suo tempo, o dello stesso spazio in cui si trovava. A quel punto, un uomo nel garage diceva di sbrigarsi, perché stavano arrivando «loro» (loro chi?), che dovevano parlare con Mattarella, o fare delle cose nel garage: la differenza tra le due azioni era inesistente, mi rendevo conto.   Semplicemente, ci veniva fatto capire che dovevamo uscire dal garage: il saluto al presidente era finito. Così ci ritrovavamo in strada. A quel punto mi diveniva chiaro chi erano «loro».   Una macchina, una berlina lunga e scattante (forse una vecchia Alfa, ma tenuta bene) arrivava sgommando davanti a noi, nella corsia sbagliata. Dentro c’era un immigrato africano che dal posto del guidatore ci guardava intensamente. Aveva un basco rosso, e pareva di scorgere una divisa verde militare, ma questo era un dettaglio secondario.   Piazzatosi davanti a noi minacciosamente con la sua macchina, l’africano, finestrini abbassati, cominciò a berciare in tono duro. Non parlava l’italiano, ma il pidgin che sentiamo in tanti immigrati da Nigeria et similia, un flusso di fonemi africani dove ogni tanto riesci a captare una parola in inglese.   Cosa voleva? Nessuno di noi rispondeva. Non era una conversazione. Nessuno di noi capiva, ma l’incomprensione non lo fermava. Continuava a vomitare la sua parlata africana a tono altissimo, così che realizzavo: l’immigrato ci stava dando ordini. Voleva che ci muovessimo in una certa direzione, andassimo in un certo posto, facessimo qualcosa, forse dovevamo pure salire in macchina, anzi no, perché non eravamo degni, eravamo solo delle persone da comandare e nient’altro.   Ero stranito, offeso. Meditavo su cosa dovevo fare per oppormi, ma il sistema sembrava settato così: nessuno di coloro che era con me fiatava. Evidentemente, pensavo, quella era la norma.   Capivo, in quel momento, chi stava aspettando il presidente, perché stava pulendo: comandavano, con evidenza, anche lì, nel garage della Repubblica. (Mentre scrivo, mi rendo conto di quanto questo sogno sia chiaro, chiarissimo)   Insomma: ho visto in sogno la Repubblica Italiana totalmente sottomessa ad una mafia africana. Ho visto gli africani che ci comandavano, in un contesto in cui non sembra esserci alternativa possibile.

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Ma perché mai devo sognare una cosa del genere? Da dove viene questo film grottesco e distopico che la mia psiche mi ha proiettato di notte? Mi fermo, chiudo gli occhi, respiro, cerco di scendere ai piani inferiori di questo pensiero.   In realtà, ho già visto una cosa del genere, in una serie H+ (2012). Una bizzarra opera fatta di microepisodi visibili online che è oggi importante per vari punti di vista. Era stato fatto come esperimento di Hollywood (l’ideatore è il controverso, e talentuoso, regista Bryan Singer) per distribuire contenuti in rete, quando ancora non c’era del tutto lo streaming.   Nella narrazione, l’umanità di un futuro molto prossimo (di fatto identico al presente) si impianta in massa un chip di interfaccia internet-cervello. Un bel giorno, qualcuno manda un virus, che uccide la stragrande parte della popolazione. Un caso di Single Point Failure: se tutto il sistema è collegato ad un unico punto, e quel punto viene attaccato, l’intero sistema cade – cioè muoiono tutti. Tipo, avete presente, se facessero lo stesso vaccino a tutta la popolazione, e poi risultasse che esso ha effetti devastanti… ma questa è un’altra storia.   Nella storia di H+ c’era anche una propaggine italiana, dove un prete sopravviveva alla strage globale perché si era rifiutato di farsi impiantare il chip (l’impianto veniva fatto, significativo, con una semplice siringa…), mentre tutti i colleghi sacerdoti erano invece felicemente chippati. Una parte del plot vede il prete vagare per l’Italia meridionale, dove vi sono ovunque posti di blocco di soldataglia africana: scopriamo che masse di africani armati, senza che si tratti esattamente dell’esercito, hanno invaso l’Italia sterminata. Gli africani – esattamente come poi sarebbe avvenuto nella realtà del vaccino COVID – hanno rifiutato l’iniezione del chip.   Quindi: immagini hollywoodiane di africani che comandano in Italia. Ma il mio sogno era più preciso di così. Sento che posso scendere ancora di più.   Ecco che nella mia mente trovo un ulteriore strato che mi racconta la scena onirica di cui stiamo parlando: è Il mondo senza donne (1936) di Virgilio Martini (1903-1986). Romanzo introvabile, censurato ai tempi dei fascisti e poi ai tempi dei democristiani. L’autore, che poi riparò in Sud America, è considerabile come uno dei pochi veri scrittori di fantascienza italiani.   Nel libro di Martini l’umanità viene sterminata in modo molto selettivo: semplicemente, muoiono tutte le donne, a causa di un’arma biologica – una pandemia – lanciata da un gruppo di omosessuali. La sparizione delle femmine porta il collasso delle nazioni e delle società, finite preda di una violenza senza fine da parte dei maschi impazziti. Ad un certo punto, a risolvere tutto è un presidente-dittatore di un improbabile Stato africano – che ai tempi in cui è stato scritto il testo nemmeno esistevano, c’erano le colonie! – che con un messaggio alla radio convince tutti gli uomini a finire di uccidersi, divenendo quindi sul colpo imperatore planetario.   La storia va avanti, ma quest’idea – davvero preconizzante, in anticipo di decennio, forse di un secolo – secondo cui il crollo della società occidentale porta ad un dominio africano mi aveva sempre colpito nel romanzo di Martini.

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Scendo ancora più in basso nel cervello, dove riaffiora un ricordo imprevisto: un tizio (un poliziotto, a dire il vero) nero che mi urla ordini da una macchina, prendendomi di sorpresa, l’ho visto. L’ho vissuto. Davvero.   Mi capitò in una cittadina sperduta nelle pianure dello Zambia, una dozzina di anni fa, alle sei del mattino di una domenica d’estate: io, pensate un po’, cercavo di ricordare dove fosse la chiesa per andare a messa – ma ammetto che ci andavo anche per comprare la pizza eccezionale che facevano alla forneria della parrocchia, dove gli africani erano stati istruiti da una ridda di panificatori lombardi pensionati andati lì per insegnare il lavoro – la funzione religiosa era spesso incomprensibile, con magari il classico caso di donna africana posseduta, ma oramai il contesto lo conoscevo.   E invece: ecco che mi perdo in auto per le larghe, larghissime strade della cittadina nel nulla del bush, praticamente all’alba. Mi fermo col pickup sul ciglio della strada, che è enorme, è un telo di cemento vecchio e crepato senza linee segnaletiche da nessuna parte. Chiedo all’unica persona che vedo – dormivano davvero tutti, si vede – dove si trova la chiesa.   A quel punto, nella strada deserta, una macchina si appaia alla mia. Un uomo africano, dalla sua auto senza parabrezza, e con due misteriose donne silenti caricate sul retro, comincia a parlarmi con tono sostenuto, e vedendo che non capivo cosa volesse, si mette in testa un cappello da poliziotto, di modo da rivelare la sua autorità. Mi dice di seguirlo alla centrale di polizia, che è lì davanti, facendomi significativamente passare davanti alla gabbia dove tenevano gli arrestati del sabato sera (quelli ubriachi e facinorosi), i quali c’è da dire che vedendomi arrivare si illuminano di simpatico interesse.   Segue, nell’ufficio di polizia, quello che ritengo essere una richiesta di pagamento per una multa improbabile – vogliamo dire un tentativo di estorsione o giù di lì? Difficile capire la gente, in Africa: me lo hanno spiegato perfino i missionari, e lo ho imparato. Alla fine, pago nulla, ed esco dalla situazione – cioè, dalla galera zambiano – usando una parola magica che mia sorella, telefonata quando è ancora profondamente addormentata in una casa a chilometri di campi di canna da zuccherò più in là, mi suggerisce di proferire. Come dico la parola, il problema magicamente scompare. Però questa è un’altra storia, che racconterò solo qualora i lettori lo chiedessero.

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Insomma: mi trovo a ricordare che il mio sogno mattarelliano con i neri che dettano ordini può perfino avere radici autobiografiche. Tuttavia, se faccio un altro respiro profondo, l’anamnesi mica finisce.   Se riemergo ad un livello di superficie, mi accorgo che c’è dell’altro: un’immagine più recente, e concreta. Eccomi, pochi giorni fa, ad una domenica senz’auto. Sì, l’idiozia che prima o poi sparirà speriamo: anche perché obbligare le donne a camminare al buio delle città divenute pericolose per loro — divenute pericolose chissà perché – non è una politica tollerabile, in teoria nemmeno per chi ha in casa l’altare con il feticcio del cambiamento climatico (e in tasca la tessera del PD).   Ho in macchina le due donne più importanti della mia vita, siamo al limite della città pedonalizzata per diktat ecofascista: mi fermo ad una transenna che hanno piazzato a sbarrare la via proprio sotto quella che è un’antica porta nelle mura medievali. Il portone non c’è, il Medio Evo neppure (in teoria), eppure non posso passare.   A controllare gli accessi, c’è, abbacchiato su un paracarro, un ragazzo africano con giubbino fluorescente da collaboratore pubblico – come i netturbini, gli «assistenti» della sosta, talvolta vigili etc. Osservo che sul bavero il ragazzotto nero ha stampato una mostrina: «volontario». Mi guarda, mi squadra. Sento che ha voglia di dirmi qualcosa, del resto ho fermato la macchina, per far scendere le ragazze, a pochi metri dal «suo» confine. Scendo per aprire le portiere. Vedo che desiste dal dirmi qualcosa, ficcando le mani ancora più a fondo nelle tasche.   Risalgo in macchina e parto: al varco successivo c’è un altro nero in uniforme arancione fluo. Così anche a quello dopo. Di lì capisco il pattern: l’autorità ha messo neri in uniforme a comandare sui cittadini.   Qualcuno lo può trovare come un livello umoristico della sostituzione etnica: stiamo importando non chi lavorerà con noi, ma chi ci comanderà, chi ci sorveglierà. Non stiamo facendo entrare, lo sappiamo bene, ingegneri e medici, ma nemmeno operai ed infermieri – stiamo importando chi in futuro servirà a dominarci e a reprimerci. Dietro l’immigrato dell’Africa nera, quindi, più che il netturbino o il lavoratore della conceria (i celeberrimi «lavori che gli italiani non vogliono più fare», come no), il poliziotto?   Se ci pensiamo, la meccanica sociale del fenomeno è pienamente comprensibile: è la realizzazione tecnica di uno stadio dell’anarco-tirannia, dell’inclusione del caos etnico e civile come strumento di potere verticale. Il potere stesso coopta elementi estranei – che, si suppone, potrebbero essere arrivati qui in maniera illegale – provenienti da contesti di civiltà implosa o mai esistita (è la scusa per dire che scappano, no?) per controllare, un domani reprimere, la popolazione, con la ferocia necessaria. Una ferocia di fatto difficilmente trovabili nei contesti dei Paesi occidentali, dove la società non è ancora del tutto collassata.   Gli immigrati diverranno nostri guardiani, nostri carcerieri: l’idea è stata lanciata da qualcuno negli ultimi anni di ondata migratoria. In Inghilterra qualcuno si è spinto a dire che vi sarebbe un programma, con addestramenti già effettuati, per far diventare le masse immigrate come le unità di repressione nel futuro lockdown.   John O’Looney, un uomo delle pompe funebri che rimase sconvolto dallo scoprire quei coaguli tentacolari, filamenti fibrosi simili ad un calamaro, che hanno preso ad ostruire il sistema circolatorio dei defunti da imbalsamare, lo ha detto all’imprenditore ed attivista Brexit Jim Ferguson: «posso dirti che questi sono soldati delle Nazioni Unite e saranno schierati dall’OMS quando annunciano il prossimo lockdown pandemico».   L’O’Looney, da quando ha lanciato l’allarme per i «calamari» comparsi improvvisamente nei cadaveri, raccoglie ogni sorta di confidenze. Qualcuno con entrature nelle cose dell’esercito gli ha raccontato in dettaglio questo piano allucinante: «questo è ciò che accadrà. Sono stati addestrati da soldati britannici. Sono stati addestrati dal reggimento Black Watch. Sono stati addestrati ad Adalia, in Turchia e nell’Ucraina orientale. Sono prevalentemente scesi al grado di sergente. Vengono poi spediti in Francia. Hanno firmato tutti l’Official Secrets Act, poi sono stati traghettati».   L’uomo parla di masse di immigrati che sarebbero stati di fatto militarizzati. Per essere schierati contro la popolazione autoctona.  

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Non c’è modo di pensare che programmi simili, se esistono, siano pensati solo per la Gran Bretagna. E del resto, guardiamo in casa, e vediamo che immigrazione e forze militari non sembrano delle realtà incompatibili. Abbiamo in testa le camionette verdi, con dentro e fuori soldati armati, nei dintorni delle stazioni ferroviarie italiane: gli immigrati le considerano un deterrente? Smettono, in quell’area, di rubare, spacciare, picchiarsi? No: evidentemente non ne hanno paura.   Gli stranieri – e attendiamo chi ci può smentire – non hanno più paura di polizia e carabinieri. Un tempo forse quando vedevano una voltante si nascondevano, avessero o no i documenti. Ora invece vediamo le questure semplicemente invase da extracomunitari: sono gli immigrati, di fatto, il principale cliente di tanti uffici pubblici.   L’immigrato afro-islamico… come alleato delle forze dell’ordine? Possibile: ripetiamo, la formula nel Nuovo Ordine prevede la fusione di legge e caos – ordo ab chao. Quanti, in questi anni, hanno a loro volta notato che, più che donne, vecchi e bambini (quelli che di solito «scappano dalle guerre»), abbiamo importato giovani maschi atletici in età militare? Tutti.   Di qui può sorgere l’illuminazione: ecco perché le questure ad alcuni possono sembrare oramai istituti per l’accoglienza degli immigrati, più che per i servizi ai cittadini. Se dovete fare una denuncia, potreste aspettare sei, sette ore. Gli extracomunitari, invece, in questi anni hanno visto moltiplicarsi gli uffici a loro dedicati.   E quindi, quando in qualche servizio TV la borseggiatrice dell’autobus dice «lasciatemi stare, se rubo non interessa nemmeno alla polizia», cosa significa davvero?   E quando sentiamo storie di ragazzini immigrati bulli che spadroneggiano, contro compagni e pure insegnanti, alle elementari, medie, superiori? Che significato ha questo fenomeno?   Quando minorenni «etnici» creano rivolte violente (o anche solo festeggiamenti per il calcio o il nuovo anno), attaccando la polizia, minacciando i cittadini, quando invadono intere località turistiche di fatto cancellando il potere dello Stato italiano, abbiamo capito cosa sta succedendo?   Sta succedendo che, con ogni probabilità stiamo diventando persone senza diritti, senza rispetto, a cui poter urlare ordini incomprensibili: in una parola, schiavi. Il ribaltamento tanto agognato è servito: europei schiavi degli africani.   Quindi quanto manca alla nostra sottomissione definitiva?   Lasceremo che questo accada?   Lasceremo ai nostri figli questo osceno futuro di schiavitù e persecuzione?   Lasceremo ai nostri figli, più che i nostri sogni, un Paese da incubo?   Roberto Dal Bosco

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Controllo delle nascite

Crolla la natalità in UE, ma la popolazione aumenta a causa dell’immigrazione

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Il numero di bambini nati negli stati dell’UE è sceso a un minimo storico lo scorso anno, secondo gli ultimi dati dell’ufficio statistico del blocco (Eurostat). Nonostante ciò, la popolazione totale è in aumento a causa dell’immigrazione di massa.

 

Le nascite nei 27 stati membri dell’UE sono state pari a 3.665.000 nel 2023, un calo del 5,5% su base annua, secondo i dati di Eurostat. I tassi di natalità sono in calo costante in tutta l’UE dal 2008.

 

Lo scorso anno il numero di nascite è stato il più basso nei paesi dell’UE da quando sono stati raccolti per la prima volta dati comparabili nel 1961, e il calo annuale è il più grande mai registrato, riporta il Financial Times.

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I cali più marcati delle nascite nell’ultimo decennio sono stati registrati in Italia, Spagna, Grecia, Polonia, Finlandia e nei Paesi baltici.

 

Gli esperti demografici intervistati dal FT ritengono che la tendenza di lunga data degli europei ad avere meno figli possa essere stata esacerbata dalle preoccupazioni relative alle tensioni economiche e politiche a livello internazionale, alla peggiore impennata dell’inflazione in una generazione, al cambiamento climatico e alla pandemia di Covid-19.

 

Secondo un rapporto recente, il tasso di fecondità totale si è dimezzato, passando da 3,3 figli per donna nel 1960 a 1,5 nel 2022 nei 38 paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), tra cui 22 stati membri dell’UE, più Australia, Canada, Giappone, Corea del Sud e altri.

 

Secondo Eurostat, tutte le regioni dell’UE hanno tassi di fecondità inferiori al livello di sostituzione di 2,1 nati vivi per donna.

 

Tuttavia, la popolazione dell’UE è in aumento nell’ultimo decennio, ad eccezione dell’anno pandemico del 2021. Il balzo più notevole è stato registrato nel 2023, secondo i dati Eurostat.

 

«Il cambiamento naturale negativo (più decessi che nascite) è stato superato numericamente dalla migrazione netta positiva», ha affermato l’agenzia in un comunicato di luglio.

 

Eurostat ha attribuito la crescita della popolazione all’aumento delle migrazioni dopo la pandemia e all’afflusso di immigrati dall’Ucraina che hanno ottenuto lo status di protezione temporanea nell’UE.

 

Come riportato da Renovatio 21, vari Paesi europei hanno registrato tassi di natalità ai minimi storici dalla Seconda Guerra Mondiale.

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Nel corso di questi anni, è stata avanzata la domanda se i vaccini mRNA COVID abbiano in qualche modo influenzato i tassi di natalità.

 

Nel 2022 uno studio del governo tedesco aveva trovato «forte associazioni» tra il programma di vaccinazione COVID e il calo della fertilità.

 

I vaccini mRNA hanno dato prova di poter avere effetti devastanti su maschi e femmine.

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Immigrazione

Quasi la metà dei bambini della prima elementare di Vienna non sa parlare tedesco

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Il 44,6% di bambini di prima elementare nelle scuole elementari pubbliche di Vienna non possiede le competenze linguistiche necessarie per seguire le lezioni. Lo riporta il quotidiano austriaco Der Standard.   Dato possibilmente ancora più scioccante, ancora più scioccante, solo due anni fa la cifra era del 36%.   Secondo gli osservatori la cifra, la capacità dello Stato austriaco di integrare adeguatamente gli immigrati nella società e mette in luce anche come le politiche pro-immigrazione degli ultimi decenni abbiano finito per trasformare il Paese dell’Europa centrale.

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I dati, pubblicati dal consiglio comunale di Vienna, mostrano che la percentuale di alunni che hanno difficoltà a parlare o capire il tedesco è particolarmente alta nei distretti con un’alta percentuale di migranti. Nel distretto di Margareten, ad esempio, dove la percentuale di persone di origine straniera era superiore al 52% lo scorso anno, il 73,8% degli alunni della prima elementare non parla abbastanza tedesco.   Come riporta Der Standard, il 61% dei bambini che hanno difficoltà con il tedesco sono nati in Austria e il 24% ha la cittadinanza austriaca, il che significa che non sono stati ostacolati dal fatto di aver vissuto all’estero per molti anni.   L’incapacità di parlare correttamente il tedesco in giovane età ha un effetto negativo a lungo termine sull’istruzione dei ragazzi: secondo i test internazionali PISA, i quindicenni e i sedicenni con un background migratorio sono indietro in matematica, lettura e scienze.   Il partito di centro-destra dell’opposizione viennese, il Partito Popolare Austriaco (ÖVP), ha proposto che all’età di tre anni tutti i bambini di Vienna vengano sottoposti a una valutazione del livello di lingua e che coloro che non possiedono competenze linguistiche in tedesco siano costretti a frequentare la scuola materna per un periodo più lungo rispetto all’attuale anno obbligatorio.   Sotto la guida dei socialdemocratici, Vienna è diventata un rifugio per i migranti: quasi la metà dei residenti di Vienna (49,7%) sono migranti o sono nati da genitori migranti.   Polemiche recentemente emerse hanno accusano che la capitale austriaca di distribuire generosi sussidi ai migranti. La rivelazione finita sui media che una famiglia siriana con sette figli riceve 4.600 euro al mese ha suscitato enorme indignazione.   Secondo un nuovo rapporto, l’anno scorso la metà di tutti i migranti che vivevano in altre parti dell’Austria e le cui domande di asilo erano state accettate si siano poi trasferiti a Vienna.

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«Quando impari in Siria e in Afghanistan che come famiglia allargata puoi ricevere 4.600 euro dai soli sussidi sociali viennesi senza fare nulla, allora non devi sorprenderti se queste persone vengono tutte a Vienna», ha affermato Dominik Nepp del partito anti-immigrazione FPÖ.   L’Austria non è l’unico Paese europeo dove scuola ed istruzione sono state travolte dall’immigrazione.   Come riportato da Renovatio 21, secondo previsioni statistiche, il numero di analfabeti in Svezia supererà le 800.000 unità nell’inverno di quest’anno, mentre i ricercatori ritengono che presto raggiungerà quota 1 milione, in gran parte a causa dell’immigrazione di massa.  

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Immagine di Ank Kumar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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