Storia
Il maqâm di «Simon Pietro» e i patrimoni a rischio nella guerra fra Israele ed Hezbollah
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Gli attacchi dello Stato Ebraico al «partito di Dio» hanno danneggiato un castello medievale e un sito sciita a Chameh, villaggio vicino a Tiro. Il luogo è dedicato a Chmoun el-Safa, che altri non è che il primo pontefice della cristianità, di cui conserva le tracce di una cappella. Per verificare se al suo interno vi sono reliquie risalenti al I secolo bisogna attendere il ritiro dell’esercito israeliano.
L’intero Libano ha tremato quando i colpi israeliani che hanno caratterizzato la guerra tra Israele e Hezbollah si sono avvicinati ad alcuni dei suoi siti archeologici più importanti; fra questi vi è in particolare all’area di Baalbeck, l’Eliopoli dell’antichità romana, famosa quanto il Partenone greco o il Colosseo a Roma.
Il Paese dei cedri ha invocato con urgenza e ottenuto la doppia protezione dell’Unesco per 34 dei suoi siti. Tuttavia, i combattimenti di novembre tra il partito di Dio filo-iraniano e l’esercito dello Stato Ebraico hanno minato questa protezione nel caso del castello medievale di Chameh, vicino a Tiro, e del «maqâm» di Chmoun el-Safa che ospita.
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La cittadella e il santuario, situati circa 25 km a sud-est di Tiro, sono stati colpiti, ma la portata dei danneggiamenti non è nota poiché i militari con la stella di David non si sono ancora ritirati dal sito.
L’area storica e archeologica si trova su una splendida collina che si affaccia sul mare, come è consuetudine per i maqâm, i luoghi di preghiera eretti dagli sciiti per i quali, in mancanza di moschee, vengono scelte le località e i paesaggi più belli.
Il maqâm di Chmoun as-Safa, le cui pietre risalgono al I secolo, ha un valore storico unico, perché per gli arabi cristiani Chmoun es-Safa non è altro che Semaan el-Safa o Simon Pietro. Infatti, in arabo, Chmoun diventa Semaan (Simone) e Safa è semplicemente la contrazione araba del soprannome “Cefa” dato da Gesù al suo apostolo.
Il maqâm è così speciale soprattutto perché questi santuari sono generalmente dedicati o a ulema la cui vita è stata esemplare, o a figure il cui nome compare nel Corano e nell’Antico Testamento, come Noè, Giobbe o Giosuè. In particolare, quello di Chameh è costituito da una cripta, una sorta di camera funeraria sotterranea, a cui si accede attraverso un’apertura circolare coperta da un involucro di legno. Il tutto è racchiuso in una ricca sala porticata sormontata da quattro cupole, mentre al di sotto vi è il pavimento che costituisce anche la parte più sacra.
Secondo Haïdar Hawila, un abitante di Chameh che ha avuto l’opportunità di avvicinarsi al sito, l’esercito israeliano sembra aver prelevato dei campioni dall’interno della cripta, il cui involucro è stato spostato anche se nel farlo sarebbe stata usata «grande attenzione». L’informazione è tanto più credibile, se si considera che Hezbollah ha ucciso un archeologo israeliano a Chameh, il 71enne Zeev Urlich, entrato con l’esercito israeliano «senza le necessarie autorizzazioni» nella zona e vestito in abiti militari.
Secondo Ali Badaoui, archeologo responsabile dei resti a Tiro presso il ministero libanese della Cultura, se gli israeliani avessero effettivamente esaminato il pavimento del maqam, avrebbero effettuato un lavoro che i libanesi stessi avevano trascurato di fare. Una mancanza, aggiunge, legata alla «usanza» tipicamente «orientale» in tema di «rispetto per i morti».
Detto questo, come si spiega il fatto che un monumento funerario sciita, un ramo dell’islam che risale all’ottavo secolo e in perenne contrapposizione con la maggioranza musulmana sunnita, sia dedicato all’apostolo san Pietro, morto come martire a Roma nel 64 d.C.? La risposta a questa domanda è fornita dalla tradizione orale di Chameh, secondo la quale, per la comunità sciita, Chmoun el-Safa figura nella lista genealogica degli antenati dell’imam Al-Mahdi, la cui madre era cristiana prima di abbracciare l’islam. «Occultata», questa figura escatologica dovrebbe riapparire alla «Fine dei Tempi».
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Ma è possibile che il maqam contenesse reliquie del primo vescovo di Roma, e quali? È un’ipotesi fantasiosa, si chiedono studiosi, storici e analisti. O il maqam è semplicemente una tomba vuota? Non è detto, perché l’archeologo Ali Badaoui fa notare che nei pressi del sito sono state individuate le fondamenta di una cappella, a dimostrazione che il luogo era già consacrato prima dell’avvento dell’islam nel 632. Quindi, risalendo all’antichità cristiana, il maqâm di Chameh potrebbe riservare qualche sorpresa ai ricercatori. Se non è troppo tardi, perché è andato distrutto o gravemente danneggiato per la guerra.
Nel frattempo, quello che si può dire è che siti come questo in tutto il Libano sono un prezioso reliquiario. E proprio per questo andrebbero meglio consolidati e conservati, a partire da quello del Maqâm di Semaan el-Safa a Chameh, perché potrebbero trasmettere alle nuove e nascenti generazioni di studenti libanesi una incomparabile apertura mentale.
Una peculiarità che non deve essere inquadrata necessariamente come una sorta di relativismo; al contrario, essa rappresenta una forma di visione lucida riguardo alla diversità delle proprie radici e la loro maggiore o minore importanza nella cultura e nella mentalità popolare.
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Immagine da AsiaNews
Intelligence
Harvey contro Philby, storie di spie e lotte intestine agli albori della CIA
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Intelligence
Conflitti nell’Intelligence americana: la storia dell’OSS contro l’FBI e la creazione della CIA
Con la fine della guerra e il profilarsi della futura suddivisione del pianeta in due mondi, la questione di chi avrebbe dovuto prendersi in carico la gestione dell’Intelligence nel dopoguerra prese il sopravvento negli alti piani dirigenziali americani. Nell’estate del 1947 la cosiddetta Red Scare, paura dei rossi comunisti, aveva preso piede negli States.
Secondo Joseph J. Trento nel suo The Secret History of the CIA l’America si stava chiedendo quale fosse la direzione intrapresa dal governo a stelle e strisce. In Cina i Nazionalisti di Chiang Kai-shek, sostenuti dall’intelligence americana, stavano perdendo terreno a favore dei comunisti di Mao, i sovietici non dimostravano nessuna intenzione a lasciare la Germania ed era di pubblico dominio come Mosca fosse riuscita a sottrarre documenti segreti del Progetto Manhattan. Voci di corridoio dicevano che Hoover, direttore dell’FBI, non fosse contento.
J. Edgar Hoover fu uno degli uomini più potenti d’America per un lungo periodo di tempo. A ventiquattro anni nel 1919 gli venne assegnata la carica di capo della nuova General Intelligence Division del BOI (Bureau of Investigation), la cosiddetta Radical Division perché aveva come obiettivo principale quello di ricercare e distruggere le cellule di radicali presenti nell’intera repubblica federale nord-americana. Era entrato a far parte del BOI già nel 1921, nel 1924 ne era diventato il direttore.
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Nel 1935 il BOI divenne FBI e fino all’inizio della guerra rappresentò il più importante servizio di intelligence nel suolo americano. Famoso il suo lavoro sulla banca dati di impronte digitali e l’implementazione di laboratori per studiare le prove dei diversi casi. Notissimi anche i suoi rapporti con la malavita americana e i metodi affini alle sue frequentazioni sotterranee.
Con l’inizio della guerra, il capo della sezione dei servizi inglesi negli Stati Uniti, BSC (British Security Coordination), William Stephenson, aveva ricevuto l’ordine da Stewart Menzies, direttore del MI6, di connettersi al più alto livello possibile dei servizi americani, in quel momento rappresentati dall’FBI di Hoover.
La ricercatrice Whitney Webb raconta nel suo One Nation Under Blackmail come la BSC avesse consegnato a Hoover oltre centomila rapporti confidenziali in cambio di resoconti sui movimenti marittimi tedeschi. I rapporti tra i due però si ruppero definitivamente nel 1941 all’alba dell’entrata in guerra, da quel momento in avanti Stephenson cominciò a coltivare William «Wild Bill» Donovan.
Donovan era un famoso avvocato della grande mela, veterano della Grande guerra, il classico e consumato membro della «Eastern Establishment», la classe dirigenziale della costa levantina americana che comprendeva soggetti come Thomas E. Dewey o i fratelli Allen e John Foster Dulles. Venne nominato da Roosevelt a capo della COI (Office of the Coordinator of the Information) l’embrione da cui scaturì in seguito l’OSS, Office of Strategic Service, che Donovan diresse fino alla fine del conflitto.
Sempre secondo varie fonti citate nel testo della Webb, quando «Wild Bill» venne nominato a capo della COI, nacque una forte tensione con l’altra faccia della medaglia del controllo americano, Hoover e i suoi alleati. Questa lotta intestina portò Donovan a utilizzare i suoi contatti con la malavita, come Meyer Lansky, per colpire Hoover. Donovan lo ricattò grazie a delle foto recuperate da Lansky mentre si trovava in atteggiamenti intimi con l’FBI deputy director Clyde Tolson.
La Webb descrive l’OSS come un associazione vista spesso e volentieri come un club. Nonostante nelle sue fila operassero un elevato numero di ufficiali militari provenienti da varie agenzie governative, il comando era saldamente in mano ai figli delle più facoltose famiglie americane. I migliori ruoli degli uffici di Londra, Madrid, Parigi o Ginevra erano tenuti dai rampolli dei Mellon, dei Morgan, dei Du Pont o dei Vanderbilt.
Una volta terminata la guerra, negli Stati Uniti, una rete di spie comuniste sembrava operare indisturbata. Hoover, nel pieno di questa fobia rossa, cercava un colpo sensazionale per guadagnarsi il merito nei confronti del presidente Truman e depennare l’OSS dalla lista dei suoi nemici. L’agente William King Harvey, considerato il migliore da Hoover, aveva raccolto ventisette nomi dalle interrogazioni con Elizabeth Bentley, che aveva confessato di essere un corriere sovietico. Secondo la Bentley, tutti loro lavoravano per il governo e ben 5 facevano parte dell’OSS.
Hoover, intravedendo il colpo gobbo contro Dulles e Donovan inviò un messaggio segreto e personale al presidente Truman. Nonostante appena un anno prima avesse assolutamente negato ogni possibilità che vi potesse essere una rete comunista nel suolo americano, non resistette e si giocò tutto sulla questione dei rossi.
Harvey lavorò incessantemente sul caso per i successivi due anni senza riuscire a cavarne fuori una singola prova che potesse convincere un giudice a formulare un arresto.
La fiducia di Truman versò Hoover terminò in quel momento assieme a qualsiasi possibilità di diventare il nuovo gestore dei futuri servizi segreti americani. A quel punto Truman prese tempo e decise di lasciare la futura nascita dell’apparato nelle mani del dipartimento di stato e dei militari. Fu in questo momento che la figura di Allen Dulles fece capolino nella storia.
Come racconta Douglas Waller in Disciples, Allen Dulles coltivava il sogno di diventare segretario di Stato proprio come suo nonno e suo zio. Entrò a far parte del Council on Foreign Relations (CFR), scrivendo pezzi per il suo giornale Foreign Affairs. Frequentava il circolo chiamato amichevolmente dai suoi habitué «The Room», un appartamento dove si incontravano per una chiacchiera informale i finanzieri di New York di ritorno dai loro viaggi in giro per il mondo. Venne assunto dal Dipartimento di Stato nel 1927 come consulente legale, situazione che sarebbe impossibile oggi per via del palese conflitto di interessi con il suo lavoro.
Dulles non voleva lasciare il futuro dei servizi in mano al Congresso o al presidente e decise di crearne uno privato. Voleva creare la struttura e al momento opportuno presentarla al presidente che a quel punto l’avrebbe riconosciuta come fatto compiuto e assorbita all’interno degli apparati statali. Utilizzando il CFR come sua base aveva organizzato un strategia in tre parti, formare un agenzia privata e nascosta, piazzare nel governo suoi uomini fedeli alla causa, plasmare l’opinione pubblica attraverso il potere che esercitava sui media. Non soddisfatto concorse a esasperare il terrore dell’avanzamento dei sovietici in Europa e in Cina.
Truman soverchiato dalla situazione non vide altra soluzione che agire in fretta e furia e si adagiò comodamente nel solco creato da Dulles. Secondo Trento nel suo The Secret History of the CIA, la combinazione tra la spinta della propaganda organizzata da Dulles e la reale situazione mondiale accelerò l’approvazione della struttura da parte del presidente.
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Nel gennaio 1946 Truman creò temporaneamente la CIG Central Intelligence Group, che non avendo il permesso di portare avanti operazioni coperte però non aveva ancora ereditato il grosso dell’OSS. Fu Dulles che con la sua organizzazione ereditò il controllo del segmento nascosto.
Nel 1947 Truman con il National Security Act diede vita alla CIA (Central Intelligence Agency) e al NSC (National Security Council). Micheal H. Hunt nella sua opera The American Ascendancy descrive l’obiettivo della nascita del NSC come corpo centrale di coordinamento sotto il controllo del presidente dedito alla formulazione della politica nazionale e al supporto delle decisioni presidenziali.
Il presidente non volendo partecipare pubblicamente alle operazioni clandestine, adottò in toto lo schema proposto da Dulles, dando la possibilità di operare con istituzioni private di carità e fondazioni. Dulles divenne inizialmente l’uomo ombra dei servizi americani per poi assurgere a direttore della CIA nel 1953 sotto Eisenhower.
Di fatto fu l’uomo che gestì i servizi segreti americani dal dopoguerra in avanti fino all’arrivo di JFK e del disastro della Baia dei Porci nel 1961 dove venne costretto a rassegnare le dimissioni.
Marco Dolcetta Capuzzo
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Immagine: Il capo dell’FBI Edgar J. Hoover consegna i diplomi ai diplomati della National Police Academy. Washington, 2 aprile 1938.
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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