Connettiti con Renovato 21

Civiltà

Elisabetta Frezza: Gioventù terminali, generazioni telecomandate, artificializzate, geneticamente modificate. Formare il ritorno degli uomini liberi

Pubblicato

il

 

 

 

Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno «Sapiens^3. Superare un’antropologia disumana», Centro Ad Gentes, Nemi (Roma), 4 luglio 2021

 

 

 

 

Gli antichi chiamavano specchio di Diana questo piccolo lago di Nemi in cui storia e mito si incontrano. Diana era la dea della caccia e dei giovani che si affacciavano all’età adulta.

 

Anche oggi, come allora, a suggellare questo passaggio ci sono dei riti di iniziazione. Dei quali è mutata la forma, perché si sono smaterializzati, e si risolvono nella apposizione di un marchio di Stato; ed è mutato lo stesso significato, per il fatto che l’età adulta non è altro che un prolungamento caricaturale dell’infanzia, in una società liquida e ormai svirilizzata.

 

C’è di mezzo qualche millennio tra l’ora presente e il tempo di Diana Nemorensis. C’erano, allora, altri eroi, altre armi e altre battaglie. A cui sbaglieremmo se smettessimo di guardare.

Dei riti di iniziazione è stata mutata la forma, perché si sono smaterializzati, e si risolvono nella apposizione di un marchio di Stato; ed è mutato lo stesso significato, per il fatto che l’età adulta non è altro che un prolungamento caricaturale dell’infanzia, in una società liquida e ormai svirilizzata

 

Se partiamo dal fondo, dall’ultimo anno e mezzo – dal «via» della nuova era post-COVID – salta all’occhio come le istituzioni, quelle centrali e a cascata quelle periferiche, si siano disvelate come braccio armato del Potere, ossia come sua emanazione diretta, non più mediata (nemmeno per finta) dal diritto; quel diritto che, figlio della Civiltà più che millenaria sbocciata in questa terra – fatalità è proprio il Rex Nemorensis la prima magistratura della storia di Roma – ha sviluppato nei secoli una funzione duplice e interdipendente: da un lato svolge una funzione essenzialmente ordinatrice per la società, secondo un ordine che deve rispondere a criteri oggettivi ispirati al bene comune e in primis a un’esigenza di conservazione; dall’altro incorpora una funzione di garanzia per il singolo cittadino e per le formazioni sociali (naturali, che significa pregiuridiche, in primo luogo la famiglia) in cui l’individuo nasce, cresce e forma la propria personalità: serve cioè, in questo senso, a fare da argine alle degenerazioni del potere, per porre il cittadino al riparo dall’arbitrio sia del legislatore sia del giudice.

 

Il diritto oggi è stato inghiottito dalla cosiddetta pandemia.

 

E il Potere, oggi, si presenta al pubblico sottoforma di auctoritas autoaccreditata dal mito scientista: infatti è decentrato dalla sua sede naturale e (almeno nominalmente) «democratica», e trasferito in capo a organismi tecnici (comitati tecnico-scientifici, task force, cabine di regia) che emettono gli ipse dixit soggetti, poi, a mera ratifica da parte degli organi della politica. Con il risultato che il sindacato di legittimità sopra gli atti, cui viene data la forma di provvedimenti legislativi o amministrativi, diventa pressoché impraticabile.

 

Perché questi atti sono blindati dentro un guscio tecnocratico che rende spuntata ogni forma di controllo giuridico. Ma pure, paradossalmente, ogni forma di controllo scientifico, sempre per l’ipse dixit di cui sopra.

Salta all’occhio come le istituzioni, quelle centrali e a cascata quelle periferiche, si siano disvelate come braccio armato del Potere, ossia come sua emanazione diretta, non più mediata (nemmeno per finta) dal diritto; quel diritto che, figlio della Civiltà più che millenaria sbocciata in questa terra

 

Dunque, il presidio rappresentato dall’ordinamento giuridico in uno Stato di diritto ne esce di fatto neutralizzato (resta, e solo in parte, come puro involucro onomastico), grazie anche alla acquiescenza, tacita ma eloquentissima, delle istituzioni che sarebbero incaricate di esserne custodi, specialmente in frangenti di crisi o di emergenza.

 

La politica, dal canto suo, relegata dal pretesto emergenziale in una posizione ancillare, sconta almeno altri due limiti propri:

1) sconta la annosa tara di essere, nella cosiddetta democrazia rappresentativa, ostaggio dell’arbitrio delle maggioranze, dove le maggioranze sono le masse psicomediaticamente pilotate. Sappiamo bene come la propaganda sia in grado di generare superstizioni inscalfibili, e come su queste si fondi la logica del consenso, che viene guadagnato soprattutto attraverso la manipolazione dei linguaggi e delle idee;

2) sconta un limite empirico, di cui non possiamo non prendere atto: sugli scranni parlamentari e governativi sono approdate schiere di abusivi della politica, cioè personaggi privi del senso stesso, e alto, del mestiere che fanno, e perciò capaci solo di screditarlo e di affossarlo.

 

Il diritto oggi è stato inghiottito dalla cosiddetta pandemia. E il Potere, oggi, si presenta al pubblico sottoforma di auctoritas autoaccreditata dal mito scientista: infatti è decentrato dalla sua sede naturale e (almeno nominalmente) «democratica», e trasferito in capo a organismi tecnici (comitati tecnico-scientifici, task force, cabine di regia) che emettono gli ipse dixit soggetti, poi, a mera ratifica da parte degli organi della politica. Con il risultato che il sindacato di legittimità sopra gli atti, cui viene data la forma di provvedimenti legislativi o amministrativi, diventa pressoché impraticabile

Al guinzaglio di avventurieri senza scrupoli che ne sfruttano l’ignoranza, l’ignavia o la stupidità, questi personaggi ottusi o ottusamente conniventi, poiché condizionano le maggioranze parlamentari, stanno producendo la distruzione di tutte le basi etiche, alcune conquistate a caro prezzo, di una società che aveva pensato se stessa come emancipata dai lacci delle tirannie e della arroganza di poteri incontrollati.

 

Nemmeno percepiscono, gli abusivi della politica, la gravità di quanto sfornano a getto continuo e nei più vari ambiti tematici. Giocano con il Lego, tolgono e spostano mattoncini – che si chiamano obblighi, diritti, libertà – senza rendersi conto, per una specie di incapacità metafisica, che, magari, qualcuno di questi mattoncini è la chiave di volta di una costruzione complessa, eretta con fatica, scrupolo, sacrifici, per reggere e proteggere la convivenza civile.

 

Pare del tutto estranea, a costoro, l’idea di avere per le mani un oggetto da maneggiare con cura e sapienza, la cui gestione implica una immensa responsabilità. L’ordinamento infatti è un sistema organico e strutturato di norme che risponde a principi generali fondamentali; si sostanzia di categorie tecniche – il diritto è una disciplina tecnica e parla un linguaggio proprio, non fungibile con parole in libertà – e, se si toccano quei principi, viene giù tutto, e ci si mette nulla a precipitare nella barbarie.

 

Un esempio eclatante della barbarie incipiente è l’obbligo inflitto al personale sanitario di sottoporsi alla somministrazione di un farmaco del tutto nuovo e tuttora in fase di sperimentazione, come dichiarano espressamente le stesse case produttrici: un obbligo assistito da sanzioni che incidono sul diritto del lavoro e al lavoro, fino a travolgerlo.

 

Col DL 44 si è materializzato un monstrum giuridico che disintegra con nonchalance, in un colpo solo, una serie di cardini dell’ordinamento costituzionale a partire nientemeno che dall’art. 1; ma, ancor prima, aggredisce quel nucleo inscalfibile di principi portanti inviolabili e inderogabili che nemmeno una legge di rango sopraordinato, come è la Costituzione, può intaccare, perché non può far altro che riconoscerli e garantirli. Altrimenti si spezza quel nesso tra nomos e dike che si radica nella consuetudine morale profonda e che, a partire da Antigone, tiene in piedi, puntella, non tanto e non solo un ordinamento positivo, ma una Civiltà.

 

Al guinzaglio di avventurieri senza scrupoli che ne sfruttano l’ignoranza, l’ignavia o la stupidità, questi personaggi ottusi o ottusamente conniventi, poiché condizionano le maggioranze parlamentari, stanno producendo la distruzione di tutte le basi etiche, alcune conquistate a caro prezzo, di una società che aveva pensato se stessa come emancipata dai lacci delle tirannie e della arroganza di poteri incontrollati

C’era una volta l’habeas corpus. E ci voleva un manipolo di individui eletti da nessuno per pensare di eliminarlo, dall’oggi al domani, con decretazione d’urgenza. D’altra parte, il progressismo scientista e positivista, percorso dal sacro fuoco ecologista, è tranquillamente disposto a riconoscere la dignità morale della zanzara, ma non si fa alcuno scrupolo a profanare con disinvoltura la bandiera della dignità umana che pure sventola da decenni, ad pompam, in tutte le carte, interne e sovranazionali, dei diritti.

 

E però, ridurre un qualunque essere umano ad oggetto di sperimentazione, travalicando la sua volontà che deve essere libera, attuale e informata, vuol dire reificarlo. E questo fatto impone a tutti noi, indistintamente, di ricordare cosa abbia potuto significare la sperimentazione sull’uomo nel tempo in cui era praticata – con il consenso politico – da un certo dottor Mengele, di cui ultimamente si sente parlare sempre meno.

 

A margine, vale la pena di sottolineare lo strabismo delle stesse maggioranze illuminate che, del tutto incuranti della contradditorietà delle proprie emissioni tossiche, avevano già stravolto in senso inverso (ma ideologicamente convergente) la ratio dell’art. 32 Cost. quando, a partire dal caso Englaro, hanno preteso che persino la somministrazione di cibo e di acqua necessari per assicurare la sopravvivenza di una persona disabile sia da considerare trattamento sanitario e, come tale, debba essere condizionato al consenso del paziente, consenso vero o (come è stato per Eluana) semplicemente presunto. Stravolgendo così, con una orchestrazione farisaica, il senso di una norma nata per salvare le vite da trattamenti invasivi arbitrari, e non certo per garantire la soppressione di un congiunto magari diventato scomodo. Eppure in questo modo è stato tirato fuori dal cilindro del legislatore il cosiddetto «testamento biologico».

 

Ora d’improvviso quel consenso, ritenuto imprescindibile persino per essere nutriti e idratati, diventa tranquillamente trascurabile se si tratta di imporre una pozione di magia genetica (fàrmakon nella etimologia greca significa medicina e anche veleno) preparata dagli apprendisti stregoni di stanza nelle multinazionali farmaceutiche per i loro esperimenti faustiani.

 

C’era una volta l’habeas corpus. E ci voleva un manipolo di individui eletti da nessuno per pensare di eliminarlo, dall’oggi al domani, con decretazione d’urgenza. D’altra parte, il progressismo scientista e positivista, percorso dal sacro fuoco ecologista, è tranquillamente disposto a riconoscere la dignità morale della zanzara, ma non si fa alcuno scrupolo a profanare con disinvoltura la bandiera della dignità umana che pure sventola da decenni, ad pompam, in tutte le carte, interne e sovranazionali, dei diritti

Fatto sta che, insomma, siamo scivolati rovinosamente nella giungla del sopruso istituzionalizzato in cui non vi è più alcun argine alla demenza fatta precetto, in un vortice di spregiudicatezza e di irresponsabilità dove il confine tra l’impostura, la malafede e la tragicomicità è diventato davvero difficile da identificare.

 

In questa giungla può trovare sfogo incontrastato la libidine di comando e di prevaricazione di quanti, privi di scrupoli e al servizio di interessi personali e contingenti, si trovino a vestire pro tempore la divisa della autorità, nei più diversi ordini di grandezza: dai dicasteri fino agli istituti scolastici, dagli enti territoriali ai condomini.

 

Dilaga ovunque la sindrome del kapò – di cui ciascuno di noi nei mesi trascorsi ha di sicuro fatto una qualche personale esperienza – che colpisce in misura direttamente proporzionale alla pusillanimità e alla frustrazione repressa di chi sia esposto al contagio per la posizione che riveste.

 

In questo virtuosismo di dissennatezza e prepotenza, la massa a trazione mediatica, acquisito definitivamente l’habitus del suddito mentalmente depresso e assuefatto, peraltro intimidita dal piglio autoritario del despota diffuso, è disposta a mettere da parte ogni reazione che il semplice buon senso – questo sconosciuto – dovrebbe suggerirle.

 

Ad alimentare la propensione alla obbedienza cieca e automatica – si può dire cadaverica – se in origine era effettivamente, e comprensibilmente, la paura di un virus sconosciuto, ora è per lo più un’altra paura primordiale, che se possibile lascia ancora meno spazio all’esercizio del pensiero: la paura della morte civile, ossia la paura di essere emarginati dal consesso sociale, altrimenti detto società civile, perché fatta di bravi cives, cioè – nella accezione aggiornata del termine – ominidi educati dalla culla alla tomba a conformarsi ai dogmi del nuovo evangelo civico (arricchito recentemente del corposo capitolo sanitario).

 

Siamo scivolati rovinosamente nella giungla del sopruso istituzionalizzato in cui non vi è più alcun argine alla demenza fatta precetto, in un vortice di spregiudicatezza e di irresponsabilità dove il confine tra l’impostura, la malafede e la tragicomicità è diventato davvero difficile da identificare

Quell’evangelo che è diventato nel frattempo persino una nuova supermateria obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dall’asilo (supermateria perché trasversale a tutte le altre e che quindi si comporta come una sorta di asso pigliatutto) e che va sotto l’etichetta rassicurante di «nuova educazione civica» – pareva brutto chiamarla direttamente Agenda 2030, ma di fatto quello è: i libri di testo, infatti, si intitolano proprio così – introdotta con l. 92/2019 ed entrata in vigore giusto giusto a partire dall’ultimo anno scolastico 2020/21. Guarda un po’ le combinazioni.

 

Questa materia è un grande carro dentro cui vengono trasportati i macromotivi delle ideologie in voga, per addomesticare il suddito globale. In contemporanea il Vaticano, per non sfigurare, si è inventato una cosa che ha chiamato Global Compact on Education (c’era una volta il latino), con cui ha messo a tema anche lui la necessità di «ricostituire il patto educativo globale per costruire il futuro del pianeta», come da decalogo mondialista, quale risulta dal combinato disposto della Agenda ONU 2030 e della enciclica Laudato sì, che non sono altro che le due facce della stessa medaglia.

 

Così la teologia globalista, che si presenta al mondo in veste egualitaria, pacifista, ecologista (nel senso di Greta), scientista, genderista, omosessualista e ora terapeutica, diventa un programma congiunto contro-culturale (a-culturale) da imporre alle masse a uso e consumo del Potere; di qui discende la sua implacabile vocazione fondamentalista, nel senso che quanti non vi si convertano sono ipso facto rigettati dal consesso civile. Candidati alla nuova apartheid.

Ad alimentare la propensione alla obbedienza cieca e automatica – si può dire cadaverica – se in origine era effettivamente, e comprensibilmente, la paura di un virus sconosciuto, ora è per lo più un’altra paura primordiale, che se possibile lascia ancora meno spazio all’esercizio del pensiero: la paura della morte civile, ossia la paura di essere emarginati dal consesso sociale, altrimenti detto società civile, perché fatta di bravi cives, cioè – nella accezione aggiornata del termine – ominidi educati dalla culla alla tomba a conformarsi ai dogmi del nuovo evangelo civico (arricchito recentemente del corposo capitolo sanitario).

 

Questo pacchetto di dogmi è stato imbellettato con un cerone mistico e si è tramutato in un vero e proprio credo, elaborato nei templi delle tecnocrazie sovranazionali, sposato dalla chiesa postcattolica, e propagato in filodiffusione a reti unificate. Una religione con le sue formule, i suoi riti, i suoi sacramenti, i suoi ministri del culto.

 

L’apporto del cristianesimo – un cristianesimo evidentemente contraffatto, orizzontale, rivisto e corretto in salsa filantropica e umanitaria – è oltremodo utile a fornire alla manovra il respiro universale cui ambisce.

 

Nelle catechesi di massa, come è questa con cui abbiamo a che fare, torna comoda la struttura gerarchica del cattolicesimo romano, che incorpora in sé il germe dell’obbedienza, sfruttando l’equivoco madornale insito nella domanda che pochi si fanno, ma che è cruciale: obbedienza a chi? Alla verità rivelata, o alla istituzione pro tempore? A Cristo, o al suo vicario? Alla legge di Dio, o ai suoi interpreti estemporanei? Questa ambiguità sul senso dell’obbedienza lascia tutto lo spazio all’indottrinamento massivo, che fa leva su un duplice atavico bisogno delle persone: di avere una guida morale da seguire, e di sentirsi in pace con la coscienza.

 

A questo serve, e non è cosa da poco, la santa alleanza tra le tecnocrazie e la neochiesa, impegnate oggi nella stessa identica opera di proselitismo.

 

Da notare che chi aderisce a questa nuova religione ha il terrore di sottoporne i dogmi al vaglio della ragione, perché sa che questo vaglio potrebbe far crollare miseramente una impalcatura farlocca a cui ha finito per affidare tutto, per puro atto di fede, a partire dalla propria salute, la propria vita, la salute e la vita dei propri figli.

 

Ecco perché il devoto si aggrappa disperatamente ai mantra che i media di regime diramano per soffocare i fatti – che hanno il vizio di accadere nonostante la narrazione costruita a tavolino che tenta di soffocarli – e li ripete ipnoticamente, questi mantra, in cattedra, al bar, dal salumiere, nel sonno.

 

Ecco perché il devoto odia coloro che non si lasciano trascinare nel gorgo del conformismo ed esercitano ancora un discernimento critico (peraltro nemmeno troppo sofisticato, anzi piuttosto elementare). Questo nuovo uomo pio odia gli empi che disertano i rituali di massa, le orge scientificamente corrette, perché in qualche modo mettono in luce tutta la debolezza, l’abulia, l’apatia, di chi si lascia stregare dai suoni disarticolati della propaganda, per quanto siano palesemente stonati, grossolanamente contraddittori, ma non importa.

Ecco perché il devoto odia coloro che non si lasciano trascinare nel gorgo del conformismo ed esercitano ancora un discernimento critico (peraltro nemmeno troppo sofisticato, anzi piuttosto elementare).

 

Questo nuovo uomo pio odia gli empi che disertano i rituali di massa, le orge scientificamente corrette, perché in qualche modo mettono in luce tutta la debolezza, l’abulia, l’apatia, di chi si lascia stregare dai suoni disarticolati della propaganda, per quanto siano palesemente stonati, grossolanamente contraddittori, ma non importa.

 

La massa ovina non si pone troppi problemi: obbedisce in cambio di una brucata qua e là. E comunque, a rinsaldare e nobilitare questa modalità gregaria (cioè propria di chi è parte integrante del gregge) soccorre l’autoidentificazione con la figura del missionario, che incarna la più alta forma di altruismo caritatevole. Così che, appunto, anche la coscienza ne esce non solo pacificata, appagata, ma addirittura gonfiata con generoso autocompiacimento.

 

Alla luce di tutto questo, è evidente come da un anno e mezzo a questa parte noi non siamo di fronte a una operazione di carattere sanitario, ma semmai psicosociale e psicopolitico. L’adesione al piano terapeutico calato dall’alto è un referendum, una richiesta di consenso (non informato, perché fondato su un puro atto di fede).

 

Ebbene, il popolo eterodiretto ha votato: la maggioranza ha detto sì. Un voto estorto con l’inganno, in cambio del miraggio della restituzione di una finta libertà, come se la mia libertà fosse l’oggetto di una graziosa concessione altrui.

 

Particolarmente esposte a restare catturate nelle geometrie perverse e pervertite di questo potere ab-soluto (sciolto da ogni vincolo superiore) e nei suoi tentacoli mediatici, e soprattutto prone a subirne massimamente i danni, sono le nuove generazioni. Plasmabili per definizione e obbedienti per formazione.

 

Alla luce di tutto questo, è evidente come da un anno e mezzo a questa parte noi non siamo di fronte a una operazione di carattere sanitario, ma semmai psicosociale e psicopolitico. L’adesione al piano terapeutico calato dall’alto è un referendum, una richiesta di consenso (non informato, perché fondato su un puro atto di fede)

Il loro indottrinamento, già a buon punto grazie a un programma che parte da molto lontano, ha subito nell’ultimo anno e mezzo una accelerazione furibonda e un cambio di passo verso l’addestramento precoce della vita in schiavitù.

 

È stato inflitto loro un violento condizionamento psicofisico, fortemente potenziato dalla privazione protratta di tutti quegli spazi naturali, tempi naturali, modalità spontanee, legati indissolubilmente ai bisogni vitali di individui in crescita: la scuola, l’aggregazione, il movimento, l’aria aperta. Addirittura sono stati cancellati i volti, le espressioni; è stato inibito il contatto, il respiro, il sorriso e l’abbraccio. La vita.

 

Nelle parentesi elargite in presenza, momentaneamente scarcerati dalla famigerata DAD, gli scolari sono stati costretti a inscenare in modo continuato, come tante scimmiette ammaestrate, una serie di rituali di massa (distanziamenti, igienizzazioni, controlli, monitoraggi, sensi unici alternati, e chi più ne ha più ne metta): un incrocio tra un lager e un presidio sanitario, insomma. Queste azioni ritmate e ripetute, intimamente condizionanti, finiscono per cementare demenziali automatismi, per inculcare ipocondria, diffidenza verso i propri simili, subordinazione cieca agli ordini della sedicente autorità. L’obbedienza a ogni genere di imposizione, cui la massa è stata educata per tempo a scuola con mezzi subdoli quanto suggestivi, si radica così definitivamente legandosi pure al voto in pagella.

 

Ebbene, il deserto sensoriale e l’annientamento psicofisico sono stati la premessa ideale per completare un piano di conquista e di sottomissione di una generazione già pesantemente minata nel proprio sistema immunitario dalla dipendenza telematica (con tutti i suoi effetti degradanti sullo sviluppo delle facoltà superiori), oltre che da una scuola divenuta, da tempo, palestra di omologazione coatta: è stato fatto un lavoro implacabile e certosino nella scuola dei test a crocette, del mercato e delle soft skills, del successo formativo, dei crediti e dei debiti. Dell’alternanza con il lavoro, dei corsi alla sessualità e alla non violenza, all’inclusione, alla alimentazione e al codice della strada. Di tutto, insomma, fuorché della conoscenza, della cultura, della teoresi: ovvero dei fondamentali. La scuola è di fatto una fabbrica di invertebrati analfabeti, che devono essere svuotati di tutto e rimpinzati di contenuti ad alta carica ideologica.

 

Com’è intuitivo, ha un ruolo chiave nel processo di destrutturazione, liquefazione e riprogrammazione dell’essere umano, perché è lì che transitano tutti e che tutti si possono plasmare, come il pongo.

 

Particolarmente esposte a restare catturate nelle geometrie perverse e pervertite di questo potere ab-soluto (sciolto da ogni vincolo superiore) e nei suoi tentacoli mediatici, e soprattutto prone a subirne massimamente i danni, sono le nuove generazioni. Plasmabili per definizione e obbedienti per formazione.

La cattività protratta, e tutta la sofferenza che ne è scaturita, è stata il trampolino di lancio per l’ultimo ricatto e la soluzione finale che, attraverso i noti raggiri mediatici, ha indotto i nostri ragazzi ad assumere di slancio il ruolo di cavie inconsapevoli in una surreale, agghiacciante, transumanza. Messi in carcere per un anno e mezzo-due, sono diventati delle molle, hanno perso la capacità di guardare a un orizzonte che vada oltre la prospettiva asfittica della vacanzina estiva o della serata in discoteca. Hanno perso il senso del limite e il senso stesso della vita e, pur di riconquistarne una fettina, un pallido simulacro peraltro a scadenza, sono pronti a tutto.

 

Non bisogna dimenticare che la scuola dell’emergenza – un grottesco surrogato di scuola – era stato definito dall’UNESCO (propaggine ONU per l’educazione, la scienza e la cultura), come «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». Siamo, appunto, nell’era degli esperimenti di massa. Ce lo dicono a chiare lettere, ormai non c’è più nulla di nascosto, la fase carsica dell’esecuzione del piano egemonico è superata, ora è tutto alla luce del sole. Pornograficamente.

 

La cavia predestinata di questo esperimento era appunto l’alunno, ridotto a paziente, a terminale, a materiale di laboratorio, ostaggio fisso della macchina che gli è fornita in dotazione e che deve prendere il sopravvento su di lui, profilandolo e, poi, telepilotandolo. Nel fantastico mondo dei finti diritti e della finta democrazia, nella ubriacatura delle finte libertà, il controllo si fa sempre più penetrante e pervasivo e serve alla manipolazione, alla standardizzazione, alla robotizzazione sistematica. D’altra parte, il potere che ci sovrasta (e che si presenta oggi sotto la forma insidiosa del biopotere) è ossessionato dal controllo. Talmente ossessionato da fare irruzione fin dentro lo spazio sacro della sovranità famigliare e persino della sovranità biologica, genetica, molecolare. E di quella spirituale.

 

Ebbene, il deserto sensoriale e l’annientamento psicofisico sono stati la premessa ideale per completare un piano di conquista e di sottomissione di una generazione già pesantemente minata nel proprio sistema immunitario dalla dipendenza telematica (con tutti i suoi effetti degradanti sullo sviluppo delle facoltà superiori), oltre che da una scuola divenuta, da tempo, palestra di omologazione coatta. La scuola è di fatto una fabbrica di invertebrati analfabeti, che devono essere svuotati di tutto e rimpinzati di contenuti ad alta carica ideologica

Bene. Abbiamo il risultato (parziale) di questo bell’esperimento scolastico. Ce lo hanno fornito i dati, rilanciati pure senza vergogna dai giornaletti mainstream, che titolano: «I ragazzi come reduci di guerra». I primi sono stati i neuropsichiatri del Bambin Gesù, poi l’equipe del Gaslini, da ultimo l’istituto neurologico Mondino di Pavia, e molte altre sirene qualificate che hanno fatto suonare l’allarme rosso: il 79 per cento degli adolescenti manifesta sintomi riconducibili a un disturbo post traumatico da stress. Proprio come i reduci del Vietnam. Si impennano i suicidi, tentati e consumati.
È criminale che, dopo questa strage dichiarata, gli stessi cosiddetti “esperti” lascino che passi liscio liscio il messaggio becero che la vita, rapinata e insultata fino a quel punto, si ripari e si riconquisti attraverso un green pass, che sta diventando il patentino da esibire in società per farle credere (alla società) che sei un tipo emancipato. Quando invece è la plastica manifestazione del più beota asservimento.

 

Stiamo truffando e annientando una generazione intera. Ora lo stiamo facendo proprio fisicamente. Ma spiritualmente, moralmente, culturalmente il grosso del lavoro era già stato fatto e il terreno era ampiamente dissodato.

 

Lo Stato, appropriandosi manu militari dei suoi sudditi in erba, li vuole crescere ligi, uguali e obbedienti. L’arma vincente, per ottenere la piena uniformità di vedute e comportamenti, ed evitare disertori, è la minaccia dell’esclusione dei non conformi dal gruppo dei pari.

 

In questo delirio collettivo, è sbocciata addirittura una nuova virtù civica, la delazione (che si è aggiunta alla lista dei comandamenti del bravo cittadino globale, allevato in batteria col becchime della Agenda ONU 2030). Il sicofante, prototipo del personaggio spregevole nella letteratura classica, è diventato un eroe nella nuova catechesi scolastica.

 

La scuola dell’emergenza – un grottesco surrogato di scuola – era stato definito dall’UNESCO (propaggine ONU per l’educazione, la scienza e la cultura), come «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». Siamo, appunto, nell’era degli esperimenti di massa. Ce lo dicono a chiare lettere, ormai non c’è più nulla di nascosto, la fase carsica dell’esecuzione del piano egemonico è superata, ora è tutto alla luce del sole. Pornograficamente

Si sa bene quanto la pressione del gruppo abbia il potere di conformare fino a intimamente persuadere, soprattutto chi fisiologicamente ha bisogno del gruppo per identificarsi e via via identificare se stesso, e per sbalzare fuori così la propria personalità. Sapevano di affondare il coltello nel burro. Li avevano già programmati per rispondere a un determinato segnale.

 

Ma di questo trattamento crudele e zootecnico in cui sono rimaste invischiate le nuove generazioni, e non da oggi, i primi responsabili ovviamente siamo noi, i loro ascendenti. Abbiamo assistito in questi mesi al film impietoso e grottesco di genitori storditi, e nonni teledipendenti, ripiegati tutti sul proprio travolgente egotismo, che non hanno fatto altro che avallare una narrazione drogata e rincarare ab intra le vessazioni inflitte a quei figli che, invece, avrebbero dovuto proteggere dagli abusi e armare con le armi della ragione, dell’autonomia, del coraggio.

 

Senza colpo ferire li hanno consegnati al leviatano, come vittime sacrificali. Nel senso letterale, perché in questi rituali si praticano anche sacrifici umani.

 

L’idea estrema che deve passare è che bisogna mettere nel conto anche i sacrifici umani, la gente deve imparare ad accettarli in nome del calcolo utilitarista: alcuni muoiono, magari tu stesso muori, ma siccome secondo la vulgata altri da queste morti trarrebbero beneficio, nel bilancio demenziale inculcato alle masse rintronate va bene così. In un clamoroso quanto devastante ribaltamento dei principi morali più elementari, della logica e, ancor prima, del primordiale istinto di conservazione.

 

Paradossalmente, la leva che ci ha portato fino a dover subire la schiavitù più feroce che sta umiliando le nostre vite è stata proprio l’ubriacatura della finta libertà.

 

L’uomo si è persuaso di potersi autodeterminare senza limiti nel suo brodo individualistico ed edonistico, fino al punto di sbarazzarsi persino della realtà, della natura e della stessa fisiologia. Ma l’uomo-misura di tutte le cose, quello che si dà le proprie leggi senza alcun parametro superiore, non può che approdare al proprio suicidio. Un po’ come la barca che perde il timoniere o gli strumenti di bordo e non vede più le stelle sopra di sé a darle l’orientamento. Ci siamo schiacciati rasoterra e ci siamo chiusi il cielo sopra di noi.

 

L’immanentizzazione della religione, completamente addomesticata alle logiche adulterate del mondo, è stata, in questo processo, decisiva.

Stiamo truffando e annientando una generazione intera. Ora lo stiamo facendo proprio fisicamente. Ma spiritualmente, moralmente, culturalmente

 

Non è un’iperbole paragonare i connotati dell’ora presente a quelli dell’universo concentrazionario, di cui la letteratura ci offre descrizioni mirabili, ma dalle quali non abbiamo tratto l’insegnamento che avremmo dovuto. Del resto, c’è un motivo per cui la storia non si insegna e non si impara più.
In Arcipelago Gulag, Solženicyn racconta la vita nelle centinaia di lager in cui, fra il 1930 e il 1953, sono transitati circa venti milioni di cittadini sovietici. Ogni lager era un’isola dell’Arcipelago.

 

A un certo punto della sua opera, l’autore elenca i veleni che, dal vasto mare dei lager, si propagarono in tutta la Russia, fino a deformare anche la cosiddetta «vita libera» di coloro che stavano oltre i reticolati. Questi veleni, diffusi come un gas tossico, dappertutto, erano: «costante paura, marchiatura, circospezione e diffidenza, generale ignoranza, delazione, corruzione, tradimento e menzogna come forma di esistenza, crudeltà, psicologia da schiavi».

 

Meno di un secolo dopo, ciascuna di queste componenti, nessuna esclusa, si ripropone e stende sulla società lo stesso reticolato invisibile. Anzi, l’insieme di questi elementi esce amplificato dalla potenza di fuoco, e dalla estensione senza confini territoriali, del progresso tecnologico, soprattutto biotecnologico. Il nostro è un lager planetario.

 

L’idea estrema che deve passare è che bisogna mettere nel conto anche i sacrifici umani, la gente deve imparare ad accettarli in nome del calcolo utilitarista: alcuni muoiono, magari tu stesso muori, ma siccome secondo la vulgata altri da queste morti trarrebbero beneficio, nel bilancio demenziale inculcato alle masse rintronate va bene così. In un clamoroso quanto devastante ribaltamento dei principi morali più elementari, della logica e, ancor prima, del primordiale istinto di conservazione

Ciò che davvero interessa i suoi tenutari non è l’egemonia economica o l’espansione geopolitica, ma è il dominio sull’uomo, nel corpo e nel pensiero: la sua umiliazione, la sua riduzione, secondo un piano antico, esplicito e ordinatissimo, che operativamente possiamo ricondurre al Club di Roma alla fine degli anni Sessanta, ma le cui radici teoriche risalgono al Malthus di qualche secolo prima. Era stato messo in fila da tempo tutto ciò che serve all’avvento del postumano e del transumano. Cioè, dell’anti-umano.

 

Ecco allora i piani di riduzione della popolazione, detti graziosamente di «pianificazione famigliare» (Planned Parenthood). Ecco la sterilizzazione generalizzata, chiamata con la formula più carina di «sviluppo sostenibile» (che è poi il titolo della Agenda 2030), ecco la decrescita più o meno felice. Ovvero la contrazione terminale del sistema tutto: delle libertà, della procreazione, del lavoro. In una parola, della Civiltà.

 

L’uomo, l’Imago Dei, va annientato.

 

Alla depopolazione, secondo il programma neomalthusiano che sta alla radice delle agende sovranazionali da qualche decennio a questa parte, si procede attraverso due direttrici interdipendenti: la sterilizzazione e l’eugenetica.

 

Il mondo nuovo è un mondo sterilizzato, in ogni senso possibile. Sia nel senso che l’umanità va resa sterile, cioè va messa in condizione di non riprodursi naturalmente, e va educata a essere sterile. Sia nel senso che deve nascere, vivere e morire in ambiente sterile: la fecondazione avviene in provetta e l’utero artificiale – si dice in ambienti sedicenti scientifici – sarebbe preferibile all’utero materno perché a differenza di questo è un ambiente sterile; allo scemare della qualità della vita – qualità misurata secondo il metro arbitrario di chi comanda – c’è l’eutanasia a garantire una dipartita pulita, anch’essa in ambiente sterile e sanificato; infine, la cremazione assicura l’igiene post mortem.

 

Ciò che davvero interessa i suoi tenutari non è l’egemonia economica o l’espansione geopolitica, ma è il dominio sull’uomo, nel corpo e nel pensiero: la sua umiliazione, la sua riduzione, secondo un piano antico, esplicito e ordinatissimo, che operativamente possiamo ricondurre al Club di Roma alla fine degli anni Sessanta, ma le cui radici teoriche risalgono al Malthus di qualche secolo prima. Era stato messo in fila da tempo tutto ciò che serve all’avvento del postumano e del transumano. Cioè, dell’anti-umano.

Tutto risponde a un disegno contronaturale, contro il logos (contro il bio-logos) che sovrintende al creato. Contro la carne e lo spirito.

 

L’uomo deve essere pian piano sostituito dal prodotto fabbricato in laboratorio, all’ultimo grido dell’ingegneria eugenetica. L’ultimo grido si chiama CRISPR. Il CRISPR è il procedimento biotecnologico di editing genetico, cioè di taglia e cuci molecolare, con cui nel DNA vengono sostituiti dei geni, i cosiddetti geni bersaglio, e poi viene ricucita la catena genetica.

 

Le tecniche connesse con la fecondazione in vitro (il grande affare della provetta) servono a programmare i connotati dell’essere umano nella fase che precede l’impianto dell’embrione. Ancora una volta, su modello zootecnico. Li abbiamo già, i bambini geneticamente modificati, tipo le famose gemelline cinesi, nate nel 2019 AIDS-free (immuni all’HIV) con la tecnica CRISPR.

 

Un co-scopritore del CRISPR ha detto a chiare lettere che «fare il bambino con il CRISPR sarà come vaccinarlo». La provetta cioè, di fatto, come cantiere prenatale della vita diventa una sorta di vaccino preventivo incorporato nel procedimento di fabbricazione del manufatto umano, in modo che il prodotto sottoforma di bambino possa essere consegnato all’aspirante genitore insieme al relativo certificato di garanzia: immune all’HIV, o un domani immune al Covid, ma anche, per esempio, dotato di ossa indistruttibili, o di orecchio assoluto, di intelligenza matematica.

 

Il genetista sir Richard Dawkins nel 2006 diceva che è lecito chiedersi, essendo ormai passati sessant’anni dalla morte di Hitler, quale sia la differenza morale tra la riproduzione di esseri con abilità musicali, e il costringere un bambino a prendere lezioni di musica. O tra l’allenare corridori veloci o saltatori in alto, e riprodurli.

L’uomo deve essere pian piano sostituito dal prodotto fabbricato in laboratorio, all’ultimo grido dell’ingegneria eugenetica. L’ultimo grido si chiama CRISPR. Il CRISPR è il procedimento biotecnologico di editing genetico, cioè di taglia e cuci molecolare, con cui nel DNA vengono sostituiti dei geni, i cosiddetti geni bersaglio, e poi viene ricucita la catena genetica

 

Cosa significa questo? Significa che, sotto la suggestione del miglioramento della progenie (il che dovrebbe ricordare qualcosa, ma di nuovo il non studiare più la storia serve anche a dimenticare gli orrori del passato), stiamo allegramente consegnando ai signori delle farmaceutiche il controllo di qualità e di quantità sulle nostre vite.

 

In cambio dell’illusione di ottenere il figlio perfetto, munito dei connotati scelti da catalogo, liberato a priori da una lista di malattie e affrancato dai rischi connessi alla lotteria della natura (una roulette russa, in fondo), in cambio di questa illusione, siamo disposti a cedere il rubinetto della vita alle multinazionali del farmaco e ai filantropi che le controllano, che potranno accenderlo o spegnerlo a piacimento, e possono condurre impuniti i loro esperimenti eugenetici.

 

Non ci vuole molto a capire come l’agenda segnata voglia che la procreazione, da naturale, debba diventare sintetica. Cioè de-sessualizzarsi (il sesso viene relegato a funzione ricreativa, ma sterile) e spostarsi verso il paradigma della “fertilizzazione”, come nella zootecnia (con relative selezioni e manipolazioni tecnologiche).

 

Il «padre» della prima bambina concepita in provetta nel 1978 – il prototipo Louise Brown – per la sua impresa conquistò nel 2010 il Nobel per la medicina. Nella motivazione del premio, si legge che, grazie a lui, «la fecondazione in vitro passa da visione a realtà, e comincia una nuova era della medicina». E lui, sir Robert Edwards, dichiarò, papale papale, di essere riuscito a dimostrare con successo di sapersi mettere al posto di Dio. E preconizzava compiaciuto che «presto sarà colpa dei genitori avere un bambino portatore di disordini genetici». Vale a dire che, nella sua testa, la normalizzazione della provetta doveva gradualmente portare verso la demonizzazione della generazione naturale.

 

Le tecniche connesse con la fecondazione in vitro (il grande affare della provetta) servono a programmare i connotati dell’essere umano nella fase che precede l’impianto dell’embrione. Ancora una volta, su modello zootecnico. Li abbiamo già, i bambini geneticamente modificati, tipo le famose gemelline cinesi, nate nel 2019 AIDS-free (immuni all’HIV) con la tecnica CRISPR

Ha fatto proseliti costui, perché il nostro ministero della salute qualche anno fa, in occasione del lancio dei cosiddetti Fertility Day (una bella trovata della Lorenzin acclamata dalla galassia cattolica), diceva che la FIVET, «nata come risposta terapeutica a condizioni di patologia specifiche e molto selezionate, sta forse assumendo il significato di un’alternativa fisiologica». Cioè, alla procreazione come madre natura l’ha pensata. Alternativa fisiologica è il passaggio che precede la «scelta obbligata» perché, in questo ordine di idee, la procreazione naturale, quella appunto affidata alla roulette russa della natura, deve diventare un rischio assurdo e correrlo una scelta irresponsabile, da persone civicamente ineducate e anche un po’ egoiste: oggi infatti il progresso offre la possibilità di eliminare gli imprevisti attraverso la riprogenetica, sterilizzata e selettiva, quella che produce e consegna designer babies su ordinazione, chiavi in mano e in garanzia.

 

Il punto è che la fecondazione artificiale, cioè la fabbricazione dell’uomo in laboratorio, è intimamente e inscindibilmente interconnessa alla eugenetica. Per una questione di logica invincibile. Se io ordino un bambino e, dopo tutta la filiera, mi viene consegnata una creatura con qualche patologia o senza gli optional richiesti è, tecnicamente, un aliud pro alio.

 

Lo stesso Edwards non ha mai fatto mistero né del proprio brutale orizzonte utilitarista, né del proprio credo eugenetico. «Quando la gente dice che la diagnosi preimpianto è costosa, rispondo sempre: qual è il prezzo di un bambino disabile che nasce? Qual è il costo che ognuno deve sopportare? È un prezzo terribile per tutti, e il costo economico è immenso. Per una diagnosi preimpianto, a confronto, servono davvero pochi soldi». L’eroe della scienza, vincitore del premio Nobel, portatore per definizione di un’alta vocazione umanitaria, colui che ha inaugurato una nuova era della medicina, può permettersi impunemente di parlare come un Mengele. Il grande innominato che ci ha lasciato in eredità un sacco di cloni in incognita.

 

Cosa significa questo? Significa che, sotto la suggestione del miglioramento della progenie (il che dovrebbe ricordare qualcosa, ma di nuovo il non studiare più la storia serve anche a dimenticare gli orrori del passato), stiamo allegramente consegnando ai signori delle farmaceutiche il controllo di qualità e di quantità sulle nostre vite

Quindi, alla base della legge 40/2004 («norme in materia di procreazione medicalmente assistita)» – per inciso legge voluta e scritta dal mondo cattolico e prolife – e poi alla base dell’ingresso della fecondazione artificiale nei LEA di Stato non vi è di certo la preoccupazione di incentivare le nascite, come qualcuno voleva farci credere, a partire appunto dai cattolici. Peraltro e per inciso, se c’era bisogno di una riprova di come tutti rispondano a un unico richiamo e a interessi convergenti, basti dire che oggi i cosiddetti prolife italiani sono tutti presi a promuovere la bontà dei cosiddetti «vaccini» OGM: e con questo è detto tutto.

 

La FIVET è subdola perché si presenta al pubblico sotto la maschera della vita (dietro il paravento caritatevole di fornire un bimbo in braccio a chi lo desideri e che, siccome ogni volontà desiderante oggi si tramuta magicamente in diritto, sarebbe titolare del cosiddetto «diritto alla genitorialità»). Ma il suo obiettivo, per chi vede la luna e non si ostina a guardare il dito, è tutt’altro e prevale su tutto: è appunto la desessualizzazione della procreazione, la sua artificializzazione, connessa con la selezione eugenetica della specie, in costanza di libera orgia, purché sterile.

 

La FIVET in quanto tale – omologa, eterologa, la sostanza non cambia – porta con sé la reificazione e la mercificazione dell’uomo. Esattamente a questo mirano i ministeri che si chiamano della salute, mira la neochiesa, mirano soprattutto le multinazionali del farmaco, i loro scagnozzi e i loro padroni.

 

E intanto l’uomo, nel silenzio generalizzato, si derubrica a manufatto di precisione, a prodotto industriale come un altro, soggetto alle regole del mercato e alla logica del profitto, diventa un codice a barre. Una monade senza identità, privata persino delle radici di un padre e di una madre, di un grembo e di una famiglia, al di fuori di quella catena che, da che mondo è mondo, lega insieme le generazioni. E che a tutti i costi si vuole spezzare, con conseguenze che nemmeno gli scienziati-stregoni sono in grado di prevedere. Fanno esperimenti, loro.

 

In cambio dell’illusione di ottenere il figlio perfetto, munito dei connotati scelti da catalogo, liberato a priori da una lista di malattie e affrancato dai rischi connessi alla lotteria della natura (una roulette russa, in fondo), in cambio di questa illusione, siamo disposti a cedere il rubinetto della vita alle multinazionali del farmaco e ai filantropi che le controllano, che potranno accenderlo o spegnerlo a piacimento, e possono condurre impuniti i loro esperimenti eugenetici

Ora la Francia, come sempre all’avanguardia, ha in dirittura di arrivo una legge che consentirà la ricerca senza limiti sulle cellule staminali embrionali umane, la creazione di gameti artificiali, copie di embrioni umani, embrioni chimerici ed embrioni transgenici. Cioè permetterà, di fatto, la trasformazione dell’uomo in un organismo geneticamente modificato, e l’attraversamento della barriera delle specie. Ovviamente, tutto dietro il paravento del progresso medico-scientifico e biotecnologico, per il bene dell’umanità. L’Italia, come sempre, seguirà a ruota.

 

Secondo una nota genetista francese, Henrion-Caude, c’è un rapporto diretto tra i trattamenti genici sperimentali di massa a mRNA, diffusi a seguito della pandemia da COVID-19, e gli orizzonti spalancati dalla nuova legge francese che liberalizza la manipolazione del DNA degli embrioni. Entrambe sono manovre di chiara matrice transumanista. Dove il transumanesimo diventa una operazione di massa.

 

Evidentemente, l’obiettivo è controllare il seme della stirpe dell’uomo, il suo codice genetico, il codice della vita.

 

Quello che stiamo vedendo e vivendo ora non è altro che l’esito cibernetico della hybris antica e il precipitato finale del non serviam, il binomio suicida con cui la creatura, disconoscendo il proprio statuto, addenta il frutto dell’albero della vita.

 

Il 12 febbraio 1974, giorno del suo arresto cui seguì l’espulsione dalla Russia, fu pubblicata la celebre esortazione di Solženicyn ai suoi compatrioti, intitolata Vivere senza menzogna.

 

La FIVET è subdola perché si presenta al pubblico sotto la maschera della vita (dietro il paravento caritatevole di fornire un bimbo in braccio a chi lo desideri e che, siccome ogni volontà desiderante oggi si tramuta magicamente in diritto, sarebbe titolare del cosiddetto «diritto alla genitorialità»). Ma il suo obiettivo, per chi vede la luna e non si ostina a guardare il dito, è tutt’altro e prevale su tutto: è appunto la desessualizzazione della procreazione, la sua artificializzazione, connessa con la selezione eugenetica della specie, in costanza di libera orgia, purché sterile.

«Stiamo ormai per toccare il fondo, su tutti noi incombe la più completa rovina spirituale, sta per divampare la morte fisica che incenerirà noi e i nostri figli, e, noi continuiamo a farfugliare con un pavido sorriso: Come potremmo impedirlo? Non ne abbiamo la forza. Siamo a tal punto disumanizzati, che per la modesta zuppa di oggi siamo disposti a sacrificare qualunque principio, la nostra anima, tutti gli sforzi di chi ci ha preceduto, ogni possibilità per i posteri, pur di non disturbare la nostra grama esistenza. Non abbiamo più nessun orgoglio, nessuna fermezza, nessun ardore nel cuore. (…) Davvero non c’è alcuna via d’uscita? E non ci resta se non attendere inerti che qualcosa accada da sé? Ciò che ci sta addosso non si staccherà mai da sé, se continueremo tutti ogni giorno ad accettarlo, ossequiarlo, consolidarlo, se non respingeremo almeno la cosa a cui più è sensibile. Se non respingeremo la menzogna. (…) Ed è proprio qui che si trova la chiave della nostra liberazione, una chiave che abbiamo trascurato e che pure è tanto semplice e accessibile: il rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna. Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini per opera mia! (…) Per i giovani che vorranno vivere secondo la verità, all’inizio l’esistenza si farà alquanto complicata: persino le lezioni che si apprendono a scuola sono infatti zeppe di menzogne… Ma per chi voglia essere onesto non c’è scappatoia…: mai, neanche nelle più innocue materie tecniche, si può evitare l’uno o l’altro dei passi che si son descritti, dalla parte della verità o dalla parte della menzogna: dalla parte dell’indipendenza spirituale o dalla parte della servitù dell’anima. E chi non avrà avuto neppure il coraggio di difendere la propria anima non ostenti le sue vedute d’avanguardia, non si vanti d’essere un accademico o un «artista del popolo» o un generale: si dica invece, semplicemente: sono una bestia da soma e un codardo, mi basta stare al caldo a pancia piena. Ma se ci facciamo vincere dalla paura, smettiamo di lamentarci che qualcuno non ci lascerebbe respirare: siamo noi stessi che non ce lo permettiamo. Pieghiamo la schiena ancora di più, aspettiamo dell’altro, e i nostri fratelli biologi faranno maturare i tempi in cui si potranno leggere i nostri pensieri e mutare i nostri geni. Se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: A che servono alle mandrie i doni della libertà?».

 

Solženicyn ha fatto conoscere al mondo i meandri maligni dell’Arcipelago Gulag; ma, insieme a questi, ha fatto conoscere anche i tanti ricoveri spirituali di cui l’arcipelago, nonostante tutto, era disseminato. Perché, proprio là dentro, gli uomini che intendevano mantenere integro il loro cuore potevano trovare la via della salvezza.

 

La FIVET in quanto tale – omologa, eterologa, la sostanza non cambia – porta con sé la reificazione e la mercificazione dell’uomo. Esattamente a questo mirano i ministeri che si chiamano della salute, mira la neochiesa, mirano soprattutto le multinazionali del farmaco, i loro scagnozzi e i loro padroni.

Non a caso egli titola L’anima e il reticolato la parte della sua opera dedicata alla rinascita spirituale sua e di tanti suoi compagni di prigionia.

 

Senza volerlo, i reticolati erano divenuti riparo di una terra benedetta, fecondata dai martiri, e fiorita di quel cristianesimo di cui la rivoluzione aveva cancellato sì le tracce, ma senza distruggere la semente.

 

Oggi i renitenti alla leva della menzogna sono chiamati, ancora una volta, ad uno sforzo che sembra sovrumano.

 

Ma la pillola rossa una volta inghiottita produce effetti irreversibili e dirompenti: fa saltare fuori dalla società anestetizzata. La cosa ostica e insieme tremenda da digerire è che lo Stato ti vuole male, che lo Stato, al quale tu peraltro versi le tasse, in realtà lavora per il tuo danno. Che la forza di gravità delle istituzioni non tende al bene comune, ma al male comune. Questa prospettiva genera una dissonanza cognitiva insostenibile, che i più rifiutano a priori, perché, per lo meno in prima battuta, getta nella sensazione terribile dell’abbandono.

 

La cosa ostica e insieme tremenda da digerire è che lo Stato ti vuole male, che lo Stato, al quale tu peraltro versi le tasse, in realtà lavora per il tuo danno. Che la forza di gravità delle istituzioni non tende al bene comune, ma al male comune. Questa prospettiva genera una dissonanza cognitiva insostenibile, che i più rifiutano a priori, perché, per lo meno in prima battuta, getta nella sensazione terribile dell’abbandono

Invece questa prova va affrontata con determinazione.

 

Innanzitutto con la consapevolezza che abbiamo a che fare con un’Idra dalle molte teste ma da un unico corpo, cioè tanti filoni in apparenza a se stanti fanno capo a un mostro ideologicamente compatto.
Poi con la certezza che la Verità non è quella creata da chi in un dato momento si è conquistato una posizione di supremazia, ma è qualcosa che ci precede e ci resiste, e non si definisce a colpi di maggioranze: la menzogna rimane menzogna anche se la maggioranza la professa e pretende di imporla a tutti come regola di vita.

 

A noi tocca ogni sforzo per far uscire i nostri figli da questo folle involucro di conformismo e pseudo sicurezza in cui li vogliono ingabbiare per disinnescare la loro vitalità, addestrandoli alla passività cadaverica, smerciando loro in cambio una libertà falsa, del tutto illusoria. In questa sterile sbornia libertaria va risvegliata l’esigenza della trasgressione, che dovrebbe essere peraltro una attitudine congeniale a chi si affaccia alla vita. Va stimolato l’esercizio dello spirito critico sopra ogni regola di cui è preteso il rispetto acritico attraverso un martellamento ossessivo di messaggi di morte e di terrore, e di ricatti e intimidazioni che creano un cupo rumore di fondo.

 

Dobbiamo fare ogni sforzo per tenere viva nelle nuove generazioni la capacità di elaborare e manifestare un pensiero libero, il che implica la capacità di reggere il dissenso, anche in condizioni di solitudine o di minoranza. Per far questo servono le energie culturali e serve la forza spirituale, interiore, per poter dire: non in mio nome.

 

Alla dittatura biosecuritaria e ai suoi farmaci transumanisti abbiamo qualcosa di grande da opporre: abbiamo il patrimonio spirituale e la forza del logos di una straordinaria Civiltà, germogliata e sedimentata in questa nostra terra, luogo dell’innesto del cristianesimo nella cultura e nel pensiero dei classici.

 

Alla dittatura biosecuritaria e ai suoi farmaci transumanisti abbiamo qualcosa di grande da opporre: abbiamo il patrimonio spirituale e la forza del logos di una straordinaria Civiltà, germogliata e sedimentata in questa nostra terra, luogo dell’innesto del cristianesimo nella cultura e nel pensiero dei classici.

Abbiamo l’orgoglio delle nostre radici e della nostra identità, un vincolo materiale, fatto di terra e di sangue, in cui riconoscerci. Abbiamo anche il legame fondato sull’idem sentire, un legame che si stringe nel momento della verità, ed è in grado di generare nuove e feconde alleanze. Abbiamo la nostra coscienza, un bene che nessuno potrà mai imprigionare tra i reticolati, e che dobbiamo tenacemente continuare a nutrire di vera libertà.

 

Per tutto questo insieme, e soprattutto per la responsabilità che non possiamo non sentire, enorme, verso chi ci succede, ci sarà dato infine anche il coraggio, un’arma grande e benedetta che rende sempre onore a chi la prende con sé.

 

 

Elisabetta Frezza

 

 

Articolo previamente pubblicato sul sito dell’autrice.

 

 

PER APPROFONDIRE

In affiliazione Amazon

 

 

Continua a leggere

Arte

Leggere Dostoevskij per comprendere il presente (e anche il futuro)

Pubblicato

il

Da

Lo spettacolo indecoroso cui stiamo assistendo non è inedito, anche perché i suoi ingredienti fondamentali ne fanno solo una replica – con qualche sostituzione degli attori nelle parti secondarie – di quello a cui assisteva con sconsolata lucidità Dostoevskij, e che annotava nel suo Diario.

 

Aveva sotto gli occhi l’ingrossarsi come un fiume in piena della «questione d’Oriente». Quando cioè centinaia di migliaia di cristiani venivano massacrati nella indifferenza delle potenze occidentali concentrate nell’accaparramento di propri vantaggi territoriali dalla dissoluzione dell’impero turco, e quindi quasi ansiose che la pulizia etnico religiosa fosse portata a termine, quale arma di contenimento della Russia. Questa, infatti, una volta tolto di mezzo l’Impero Ottomano «si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà».

 

«Si mentiva spudoratamente su tutto, allo scopo di eccitare all’odio le masse del popolo non contro i massacratori musulmani, ma contro il presunto imminente nemico».

 

Così come oggi, per bocca di mentitori seriali televisivi, la guerra travestita e preparata dagli Stati Uniti su una terra di confine, per avviare la guerra contro la Russia, capovolge fatti e responsabilità.

 

«E per di più in Europa si negano i fatti», scriveva il nostro autore, «li si smentiscono nei Parlamenti, non si crede, si fa finta di non credere: no, non è successo, è esagerato, sono loro stessi, i bulgari, che hanno trucidato sessantamila dei loro per accusare i turchi». Forse prendendo spunto dal memorabile «Eccellenza, Lei si è frustata da sé» che si legge nell’Ispettore generale di Gogol’.

 

Lo stesso paradosso che non solo viene servito con imperturbabile sfrontatezza dai cucinieri occidentali e dai loro alleati ad est, ma anche digerito beotamente dalle moltitudini teleemancipate. Non per nulla, e per l’eterno ritorno dell’uguale, a queste, comprese forse anche quelle tedesche, è apparso subito evidente che, con straordinario slancio autopunitivo, anche i gasdotti siano stati messi fuori uso dai legittimi proprietari, come le popolazioni russofone del Donbass si siano state autoperseguitate e uccise nel corso di quasi un decennio. Tutti del resto conosciamo una vecchia metafora un po’ scabrosa su certe possibili vendette coniugali autolesioniste che è sconveniente citare per esteso.

 

In quei fatti Dostoevskij ravvisava «l’ultima parola di una civiltà dopo diciotto secoli di evoluzione, di tutta quella umanizzazione del genere umano per cui l’Europa ha distrutto il commercio dei negrieri e il dispotismo, ha proclamato i diritti dell’uomo, creato la scienza, celebrato l’anima umana con l’arte, promesso agli uomini giustizia e verità, per poi voltare le spalle ai cristiani massacrati per ordine del sultano».

 

Del resto, vale la pena di ricordare come qualche decennio dopo quei fatti, con lo stesso cinismo, gli evoluti occidentali abbiano voltato le spalle anche di fronte al genocidio armeno sul quale rimane steso a distanza di più di un secolo un imbarazzante e imbarazzato silenzio, a fronte del clamore attivato su quello hitleriano, almeno finché il suo ricordo è tornato utile. Infatti, ora anche Auschwitz rischia di tornare in penombra perché, se da un lato i tedeschi hanno interiorizzato la colpa fino a cambiare pelle, mettere da parte ogni orgoglio e memoria identitaria, per adattarsi infine anche alla nuova povertà energetica ed economica, dall’altro il nuovo nazismo ucraino a uso e consumo angloamericano viene alimentato e potenziato in vista di una nuova ma da sempre vagheggiata operazione Barbarossa.

 

È il nazismo esibito impunemente sul petto da un signore in visita al vescovo di Roma insieme a un plotone di commilitoni in tuta mimetica, secondo la nuovissima etichetta approvata dalla Segreteria di Stato Vaticana. Una aggiornata etichetta nazionalpopolare che ha esteso il bianco, riservato da secoli alle regine cattoliche in visita al pontefice, anche a quelle delle borgate romane rappresentate per competenza territoriale dalla disinvolta signora Giorgia.

 

Ma leggiamo ancora nel Diario«da che deriva tutto ciò? Perché non si vuol vedere, sentire, e si mente? perché si getta del fango su se stessi? È perché c’è di mezzo la Russia. Infatti, la Russia disturba, è colpevole di essere la Russia, che come un’orda barbarica si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà, quella civiltà, appunto, che ad un tratto si è rivela un bluff» 

 

Dunque, nulla pare cambiato da allora. E la civiltà è quella che è capace di sequestrare le opere d’arte dell’Hermitage in prestito alle gallerie occidentali. Di impossessarsi indebitamente dei beni privati e dei depositi bancari dei cittadini russi. Che ha sottoscritto trattati di pace solo allo scopo di ingannare strategicamente la controparte, trasgredendo la sola regola cogente vantata dal vantato diritto internazionale elaborato dalla civiltà occidentale, ovvero il pacta sunt servanda. Mentre questa stessa regola rimane «intangibile» per continuare a stringere al collo gli inermi sudditi europei imprigionati a Maastrichtt.

 

Ma occorre essere realisti. Ha vinto a tutto campo l’utilitarismo anglosassone, versione plebea e becera del fine che giustifica i mezzi adottato anche dagli ottusi abitatori continentali delle istituzioni europee, forniti o meno di titoli nobiliari o accademici che non impediscono di fare affari milionari privati con tutti i malfattori transatlantici, a spese dell’ignaro contribuente della stessa UE. Senza contare gli svizzeri che, dell’utilitarismo essendo i cultori assoluti, hanno messo l’armatura anche alla loro amata e proverbiale neutralità.

 

Del resto, la separazione tra politica ed etica, era problema antico e presente alla coscienza ben prima di Machiavelli che tuttavia, scriveva Croce, «scopre la necessità e l’autonomia della politica, che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta».

 

Anche se, aggiungeva, «quello che di solito non viene osservato, è l’acre amarezza con la quale il Machiavelli accompagna questa asserzione della politica e della sua necessità».

 

Infatti, in ogni caso, l’utilità del tranello e della strage di Senigallia ordita dal duca Valentino si iscrive, nelle intenzioni dell’autore, nell’utile ma non certo nell’onore.

 

Come nel caso di Remirro de Orco, luogotenente del duca, che pacificata la regione per mezzo di inaudite efferatezze, fu messo una mattina sulla piazza di Cesena «in due parti con un coltello sanguinoso a lato sicché i cittadini rimasero satisfatti e stupidi».

 

Possiamo inoltre osservare come la stessa politica internazionale abbia uno statuto «etico» a sua volta differenziato anche rispetto a quello della politica interna. Si tratta di una diversità venuta a formarsi spontaneamente per la diversità degli interessi e degli obiettivi in gioco, che sono, anzi dovrebbero essere, in una visione ideale, la pacifica convivenza fra i popoli da un lato, e il bene della comunità nazionale dall’altro.

 

Ma anche questa differenza cade, quando, come oggi, le nazioni europee, non più indipendenti e sovrane, non godono più di autonomia politica perché in stato di vassallaggio rispetto gli Stati Uniti, non solo dal punto di vista militare, ma anche, tramite l’UE che ne è la longa manus, per le direttive educative, culturali, economiche e «ideologiche». Sicché neppure di vassallaggio è corretto parlare, quanto di totale, mortificante asservimento.

 

Ma Dostoevskij, a partire dalla autonomia di fatto riconosciuta proprio della politica internazionale, fa un passo ulteriore. Egli non era di certo un ingenuo e sprovveduto idealista incapace di afferrare il problema filosofico della doppia moralità che segna rispettivamente il proprium della politica e della vita individuale.

 

Tuttavia, si chiede: «Dove sono le verità conquistate con tante sofferenze? Basta una causa pratica, e tutto vola via?».

 

Infatti, aveva ben presente quello che Machiavelli non poteva ancora prendere in considerazione perché venuto dopo di lui. Tutto il lavorio di pensiero, tutta quella riflessione sulla realtà della politica, e tutti quei fatti storici che avevano portato, attraverso un travaglio interconnesso di eventi e di idee, alla concezione dello stato moderno e alle altre conquiste di cui si fregia il pensiero politico della cosiddetta civiltà occidentale.

 

Quella approdata poi malamente alla vuota retorica sui diritti, sulla democrazia, sulla coesistenza pacifica, sulla libertà e l’uguaglianza, sullo stato di diritto, sulla protezione delle minoranze, e chi più ne ha più ne metta, ovvero su tutta una congerie di parole prive di senso vero che servono a mascherare l’involuzione verso il rinnegamento di quello che era stato venduto, ma anche sentito dalle masse, come progresso.

 

Così leggiamo ancora nel Diario:

 

«Tuttavia non è neppure giustificato rimanere attestati sul piano brutale del doppio binario e non elevarsi ad un piano speculativo più alto e convincente. Infatti, con questo riconoscimento della santità degli interessi correnti, del guadagno diretto e immediato, del diritto di sputare sull’onore e la coscienza pur di strappare per sé un fiocco di lana, si può andare di certo molto lontani. Ma solo i vantaggi pratici, solo i guadagni correnti rappresentano il vantaggio vero di una nazione e la sua politica “alta”? Al contrario, non è per una grande nazione proprio questa politica dell’onore, della magnanimità e della giustizia la migliore politica, anche se apparentemente in contrasto, ma in realtà non in contrasto, con i suoi interessi? La politica del disinteresse e dell’onore, ovvero le idee grandi e oneste sono quelle che trionfano alla fine nei popoli e nelle nazioni. La politica dell’onore e del disinteresse non è soltanto la più nobile ma forse anche la più vantaggiosa per una grande nazione, appunto perché nobile… mentre il continuo gettarsi di qua e di là, dove è più vantaggioso, riduce uno stato alla meschinità, alla interiore impotenza».

 

Non avrebbe dovuto essere questo il nuovo traguardo della civilizzazione almeno per l’Europa?

 

E ripudiare quelle leggi belluine per cui anche Machiavelli sentiva disgusto? Dopo gli esiti osceni di una rivoluzione approdata nella follia e nelle rapine napoleoniche, dopo le guerre fratricide e i crimini del colonialismo?

 

Ma quell’auspicio era utopistico e la contraddizione è risultata ben più paradossale, perché siamo approdati ad un grado allora inimmaginabile di dissennata disumanizzazione, con le immani tragedie e le oscenità in cui è sfociato nel Novecento il miraggio e la presunzione del progresso dell’umanità, nella degenerazione e nella contraddizione delle idee che avrebbe dovuto assicurarlo.

 

L’Europa è stata risucchiata dentro la egemonia tentacolare statunitense in cambio della distruzione materiale subita, mentre la sbandierata democrazia indigena o di importazione si è trasformata nel dispotismo formalmente autorizzato, modello 1933. E sempre in virtù di un trasformismo indisturbato, ora, dopo ottant’anni di pacifismo di facciata, interrotto senza remore ogni volta che un potere egemone lo ha deciso, dopo ogni tipo di inganno perpetrato ai danni della popolazione inerme in balia delle oligarchie anglosassoni, si getta a capofitto nella guerra che queste hanno programmato ad hoc.

 

Oligarchie tentacolari e aperte ad ogni corruttela, guidate dall’utilitarismo e dalla volontà di potenza che possono sfoggiare impunemente in ogni sorta di menzogna, in ogni rovesciamento di principi prima sbandierati, in ogni falsa morale e farisaica decisione, ogni tradimento e ogni meschinità, ogni intento distruttivo senza pudore e senza assunzione di responsabilità, dietro varie maschere di scena.

 

Come quelle andate a commemorare senza ritegno le vittime della bomba atomica insieme a chi quella bomba non si vergogna di averla sganciata e di quell’orrore non si è mai pentito. Un quadro desolante che sembrava impensabile, quello dei due tristi figuri, l’europea e l’americano insieme, in mezzo ad altrettanti tristi e meschini figuranti. Di cartapesta, si dirà, eppure in grado di muovere indisturbati i destini di infinite e irripetibili vite perché il gregge da cui traggono esistenza è stato debitamente narcotizzato e svirilizzato.

 

Le oligarchie dominanti hanno preso in mano il potere politico grazie alle degenerazioni del sistema democratico e rappresentativo, ma soprattutto alla riduzione preventiva delle capacità di comprensione e reazione dei sudditi. Di uomini a una dimensione, figurine piatte incollate nell’album della storia da burattinai capaci di tutto perché mancanti della coscienza propria degli uomini veri.

 

I politicanti e le politicanti che pullulano oggi nel prestigioso mondo occidentale, ovvero nel giardino fiorito di Borrell, di qua e di là dell’Oceano, prefigurano i pericolosi automi progettati per sollevare l’umanità residuale del futuro dalla fatica di vivere umanamente e di pensare.

 

Non per nulla quelle che erano un tempo le arti della diplomazia, disciplina troppo impegnativa per essere coltivata dalle menti deboli di automi semianalfabeti, sono state soppresse e sostituite da un vaniloquio che oscilla minacciosamente fra tracotanza, stupidità, e menzogna. Cosa che scopre la pericolosità di costoro e degli apparati in cui essi sono annidati.

 

Basti pensare alle dichiarazioni del sempre querulo Stoltenberg, che non perde mai nessuna occasione per mostrare la propria caratura. Esemplare il discorso recentissimo sull’avvicinamento ad una applicazione estensiva dell’articolo 5 del trattato della NATO.

 

Un capolavoro di ipocrisia farisaica per dire in soldoni che sulla lettera della norma prevarrà manu militari l’interpretazione, sicché tutti i firmatari saranno obbligati a partecipare anche con i propri eserciti alla guerra accanto alla Ucraina, anche se questa non fa parte della alleanza. Ovvero ha fatto balenare nella nebulosa truffaldina delle parole l’istituzione di fatto di una belligeranza diretta obbligatoria.

 

Più esplicito, nella volgarità della sua violenza primigenia, il ministro ucraino che dopo l’attentato di Lugansk dice: se non ci darete le armi che chiediamo, anche voi dovrete aspettarvi degli attentati. Cosa che penalmente parlando si chiama minaccia, ma la cui abnormità e volgarità sembrano non arrivare ad essere percepite come tali neppure da quanti dovrebbero avere dimestichezza, diretta o attraverso la filmografia, con il codice comunicativo e operativo delle varie cose nostre, gloria nazionale universalmente conosciuta ed esportata.

 

Ora, a proposito di tante manifestazioni eloquenti di un degrado generalizzato, di strumenti truffaldini della politica sempre più sfacciatamente ostentati, c’è da osservare che, a giustificare ogni aporia in nome della ragion di Stato, nell’epoca dell’azzeramento mediatico di ogni coscienza critica, la massa finisce per assorbire l’idea della normalità di quell’etica e di poterla fare propria anche nella vita quotidiana.

 

Se non si percepiscono più come tali la menzogna o il tradimento, il discorso truffaldino e il ricatto, l’obiettivo distruttivo nascosto o la falsificazione della realtà, anche perché genericamente normalizzati e dunque genericamente legittimati; se non li si inseriscono più neppure nel recinto chiuso di una politica che obbedisce ad un codice proprio e particolare, il passaggio verso l’assorbimento di quell’habitus nella morale corrente è quasi obbligato. Quell’etica deviata e particolare di cui non si vedono più la genesi e le articolazioni finisce per diventare moneta corrente anche al di fuori del recinto della politica e anzi diventa un modello accettabile per i rapporti privati arrivando a pervertire la coscienza individuale.

 

Dunque, inutile dire come, in un momento storico al quale non sappiamo neppure se ne potrà seguire realmente un altro, l’auspicio di Dostoevskij di una politica «alta», suoni inattuale. Quanto mai lontana e utopistica appare la possibilità della messa a frutto della ricchezza di storia accumulata dal pensiero occidentale, insieme ad una ininterrotta riflessione filosofica, e al patrimonio della spiritualità cristiana prima della sua contaminazione. Sembra impossibile in questo sfascio culturale, la sublimazione con cui la vita matura controlla gli eventi guardando al di là di ciò che è meschino e particolare, fasullo e insignificante da un orizzonte più ampio ed elevato.

 

Questo è il momento degli sciacalli e delle iene, o forse dei marabunta. E nell’avvento di animali superiori pare quasi impossibile anche poter sperare.

 

Tuttavia, non bisogna neppure dimenticare che anche i figuranti di cartapesta, per quanto nefasti, al pari del terribile giudice Morton nemico di Roger Rabbit, con un po’ di impegno e tanta fortuna potrebbero essere dissolti nel nulla proprio grazie alla loro reale inconsistenza.

 

Almeno in questo dobbiamo tornare a sperare, forse… anche al di là di ogni ragionevole dubbio!?

 

 

Patrizia Fermani

 

 

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

 

 

Continua a leggere

Civiltà

Perché oggi non dovremmo dirci occidentali

Pubblicato

il

Da

«Dico che la fine di una civiltà è per l’uomo la scena più satura di malinconia. La possibilità che una civiltà muoia duplica la nostra mortalità».

Ortega y Gasset

 

 

Non è un caso che l’interesse per il «tramonto dell’Occidente» si sia riacceso in modo particolare negli ultimi tempi di fronte a fenomeni straordinari come il dissolvimento della democrazia, o le degenerazioni del capitalismo, emersi ormai in tutta la loro impietosa realtà.

 

Infatti, la crisi ingloriosa della prima e certe conseguenze devastanti del secondo, dopo avere impegnato il pensiero politico e la filosofia della storia, sono risaliti con prepotenza anche alla coscienza comune perché è impossibile ignorarne la portata e le conseguenze.

 

Tuttavia, è anche fuorviante fissare l’attenzione soltanto su fenomeni, pur tanto significativi, che però si inseriscono in una ben più ampia crisi di civiltà, che vede lo stravolgimento della legge naturale e dei canoni più elementari e irrinunciabili dell’etica.

 

L’Occidente, erede della Civiltà antica, che dopo secoli di oblio rinacque forgiando una nuova Civiltà europea e modelli di valore universale, ha fatto perno sul cristianesimo ed è approdato poi all’illuminismo. E sulle conquiste e sui lasciti di tutta quella storia pregressa va misurata la gravità di una decadenza, che infatti si è presentata sia come deterioramento della dottrina e della morale cristiana, sia come degenerazione dei sistemi politici economici e sociali di cui il razionalismo illuministico aveva vantato la paternità.

 

Ma non si è trattato di parabole parallele, separate tra loro. Anche un pensatore laico, come Huizinga vedeva alla base di questo decadimento anzitutto quell’oblio delle norme morali derivato dall’«amoralismo filosofico», frutto estremo dell’illuminismo che «con la negazione della morale cristiana indusse anche la negazione della morale borghese». Era quanto, con esemplare chiarezza di pensiero e di parole, aveva avvertito e presagito Pio X nella Pascendi, prima che fosse lanciato al mondo l’annuncio nichilistico della morte di Dio.

 

Poi due guerre di annientamento diedero forma tragica al tramonto dell’Occidente che emerse con il volto definitivamente sfigurato dalle macerie di tali immani catastrofi. Tuttavia, anche allora non mancarono quelli ancora convinti che una Civiltà tanto ricca di tradizione e di capacità creative, avrebbe potuto ritrovare, «oltre la linea» estrema del degrado, una nuova aurora.

 

Invece, consumate le illusioni tratte dal nuovo benessere, il decadimento morale, culturale, politico, economico e religioso ha subito in pochi decenni una tale accelerazione da far apparire il processo come ormai inarrestabile.

 

Questa volta però ad oscurare un nuovo orizzonte non sono stati soltanto i persistenti fattori interni di decadenza culturale e morale, il male oscuro contenuto nella nuova civiltà della tecnica temuto e predetto da tempo, o le fatali ansie di «aggiornamento» del cattolicesimo romano.

 

Sull’Occidente europeo si è andata stendendo sempre più l’ombra e la mano di un altro Occidente, transatlantico, munito di diversi codici morali, di disinibite visioni di potere, di illimitata fiducia nei vantaggi della distruzione «creativa» da applicare anzitutto, ma non solo, in via militare, nel mito della guerra quale fonte primaria di arricchimento.

 

Questo diverso «Occidente», all’Italia in particolare, sottomessa con la firma del Dettato di pace che tanto aveva sconfortato Benedetto Croce, aveva messo al collo il cappio che si stringe automaticamente ad ogni minimo tentativo di fuga. Ma siccome anche le corde possono essere tagliate e i trattati disattesi, come insegna la più moderna etica internazionale, occorreva una prova d’amore siglata col sangue.

 

Così, pochi anni dopo l’atto di sottomissione, un governo italiano, che oggi pare giganteggiare al confronto con i nani insediati democraticamente in tutti i palazzi del potere, consentì l’installazione di basi militari munite di adeguato corredo atomico a due passi da tutte le più vantate bellezze italiche che da quella vicinanza traggono indiscutibile vantaggio.

 

Una volta diventati definitivamente «servi in casa nostra», siccome secondo la migliore pedagogia penitenziaria i prigionieri vanno anche rieducati, ci sono state elargite a titolo gratuito anche le più innovative dottrine in tema di morale famigliare, di aborto, eutanasia, fino alle più recenti geniali declinazioni dell’omo e transessualismo genderista, ora propagandato anche dalla prestigiosa ditta Disney.

 

Non solo. Poiché da che mondo è mondo i figli degli schiavi appartengono al padrone, la nuova pedagogia «creativa» è stata portata nelle scuole di ogni ordine e grado, sotto l’alto patrocinio dell’ONU, dell’OMS, e dell’UE, cioè di tutti i falsari dell’Occidente democratico a trazione transatlantica, impegnati a trafficare con i «diritti» e lo «stato di diritto», tutte cose che mantengono, specie tra i più acculturati, una certa esoterica suggestione.

 

Attraverso una egemonia politico economica, nuovi fattori di disfacimento culturale sono penetrati dunque nelle maglie larghe della crisi morale e culturale di un’Europa già in balia dei nuovi venti di dottrina e resa incapace di reagire anche grazie all’indottrinamento mediatico imposto da un padrone illuminato. Sulla base della distinzione aristotelica tra animali non parlanti e animali muniti di voce come gli schiavi, qualunque iniziativa culturale a beneficio della popolazione schiavile addomesticata è destinata ad avere successo.

 

Tuttavia, l’Occidente europeo è un suddito non solo da domare, ma anche da combattere come concorrente. Perché lo schiavo può diventare per bravura anche potente, come capitava a certi liberti di genio della Roma antica, e magari arrivare a ribellarsi mettendo in discussione il principio di autorità. In questi casi, gli ostacoli vanno neutralizzati con ogni mezzo, l’omicidio, il ricatto, il taglio di un gasdotto, una sommossa telecomandata e via discorrendo.

 

Il quadro appena tracciato non contiene di certo nulla di originale, ma deve essere tenuto a mente anzitutto quando si parla di declino dell’Occidente, per ricordare che lo straordinario decadimento politico, intellettuale ed etico, che ha alimentato anche le degenerazioni della democrazia e del capitalismo, non è affatto tutta farina del sacco europeo.

 

La decadenza di questa Civiltà va valutata alla luce di fattori legati di certo alla sua storia e alla sua cultura. Ma su questi si è andata innestando, grazie ad una intervenuta sudditanza politica, una degenerazione culturale di importazione.

 

Molto deve il declino della Civiltà europea al contributo americano in termini di canoni morali, dottrine politiche, costumi, filosofia di vita, dottrina economica, etica sociale e di politica internazionale, mentre il militarismo più sfrenato è stato premiato con il Nobel della pace. Però troppo spesso di questa matrice poco si è tenuto conto.

 

Così le aberrazioni genderiste, ad esempio, hanno potuto insinuarsi senza tanto clamore, perché considerate spesso come un fenomeno marginale, quasi modaiolo, di cui si è ignorata la matrice politica e la forza dirompente, funzionale alla destabilizzazione socioculturale programmata dall’imperialismo globalizzante che ha bisogno di sudditi sradicati anche dalla legge naturale. Non per nulla nella caserma romana degli schiavi era inibita la formazione della famiglia.

 

In questa prospettiva è allora necessario e urgente ridefinire un concetto indebitamente distorto di Occidente che ha prodotto e produce conseguenze pratiche molto pericolose, anche sul piano della nostra falsa coscienza.

 

Infatti, attraverso una manipolazione terminologica non innocente, da troppo tempo questo termine viene usato arbitrariamente per indicare una unica realtà politico culturale, che abbraccia l’Occidente europeo e insieme quello atlantico o statunitense che dir si voglia.

 

La conseguenza diretta è evidente: la potenza considerata egemone ritiene di dover parlare a nome di quanti vengono definiti geograficamente occidentali, ovvero di quelli che essa decide debbano essere considerati politicamente e «ideologicamente» occidentali.

 

Ma l’assimilazione tra concetto geografico e concetto culturale e la sua trasposizione allo spazio transatlantico induce alla sovrapposizione e assimilazione di spazi non solo culturalmente estranei, ma persino antitetici e in conflitto di interessi, e ed è dunque doppiamente incongrua e arbitraria.

 

Infatti, anzitutto dovrebbe essere evidente che una «civiltà americana» ha a che fare con quella europea quanto il prestigioso Gugghenheim veneziano in cemento armato ha a che fare con la vista sul Canal Grande. Mentre fare del concetto geografico un concetto politico è in questo caso come riconoscere a Cesare e Vercingetorige interessi comuni.

 

Gli Stati uniti sono stati portatori di una nuova antropologia, e hanno sentito precocemente la propria autonomia e originalità tanto da guardare al Continente Europeo prima come ad un modello, poi come ad una terra di conquista, oggi come a un suddito di cui disporre a piacimento e all’occorrenza, da distruggere.

 

Con il pragmatismo ereditato dalla radice anglosassone, si sono guardati fin dall’inizio e durante tutta la loro storia, dall’osservare i principi che bene o male disciplinavano il diritto internazionale europeo, secondo la precoce inattaccabile diagnosi schmittiana.

 

Quel nuovo modo di considerare i rapporti internazionali, avallato dal crescente potere economico e militare, ha finito per contaminare tutto un sistema politico e diplomatico e stravolgere le più elementari regole della convivenza tra stati sovrani comunemente riconosciute. La deregulation alla base della nuova economia di mercato è stata trasferita sul piano dei rapporti internazionali dove tutto diventa plausibile se corrisponde a disegni strategici, peraltro spesso anche fallimentari, orientati a un espansionismo ossessivo perché creduto economicamente irrinunciabile.

 

Anzi, proprio nel campo dei rapporti internazionali anche la contaminazione «culturale» è ormai tanto avanti, grazie alla poderosa macchina propagandistica appaltata agli agenti pubblicitari europei, che ogni operazione disonorevole come quella dei famigerati accordi di Minsk non smuove le assopite coscienze dei sudditi europei, come ogni intervento moralmente ripugnante è messo al riparo, per assuefazione, dal dissenso interno.

 

Brutalità, cinismo, menzogna ed ipocrisia sono le regole di comportamento valide sia in pace che in guerra sotto la guida suprema dell’utile. Vale per tutto il criterio che presiede la guerra aerea condotta con la regola del bombardamento a tappeto sulle città, già sperimentato con successo in Europa e che comporta il massimo risultato col minimo sacrificio umano proprio.

 

Metodo perfezionato definitivamente contro la Serbia, che non aveva dichiarato guerra a nessuno, ma era stata eletta a nemico di turno necessario per far girare la preziosa industria militare made in USA. Vi furono sganciate eroicamente 300.000 bombe in poche settimane, e nessun soldato «occidentale» rimase sul campo. Ma era stata inaugurata una nuova serie di altre eroiche imprese, del cui orrore è meglio tacere. Ogni europeo dovrebbe finalmente chiedersi che cosa ha a che fare con tutto ciò l’Europa che da quasi un secolo si straccia le vesti per la barbarie nazista.

 

Ora dovrebbe risultare evidente che la formula geografica serve a creare, oltre ad una falsa assimilazione culturale, anche la suggestione di una assimilazione politica data per scontata come ineludibile, al pari della monacazione di Gertrude.

 

In conclusione, poiché l’Occidente europeo è cosa storicamente e culturalmente e ideologicamente diversa dall’Occidente americano, e i rapporti di forza determinano tra i diversi soggetti politici condizioni totalmente squilibrate, l’allargamento del concetto di Civiltà occidentale dai confini europei allo spazio transatlantico, comporta una assimilazione artificiosa, incongrua e soprattutto pericolosa per le sue conseguenze imbarazzanti quanto indesiderabili, e il problema stesso della crisi della Civiltà europea ne viene totalmente viene sviato.

 

Questo uso estensivo di «Occidente» avalla cioè una pretesa continuità culturale e politica che condiziona non solo modi di pensare e scelte irrazionali, ma soprattutto decisioni aberranti come l’attuale bellicismo ad ampio spettro parlamentare.

 

È vero che un allargamento del concetto di Civiltà occidentale dai confini europei allo spazio transatlantico era avvenuto sia in virtù del credito acquistato dagli Stati Uniti con la leggendaria dichiarazione di indipendenza e poi grazie ai due interventi «liberatori» dell’Europa, sicché per molto tempo la distanza sempre crescente tra le due entità geopolitiche non è stata adeguatamente avvertita.

 

Non per nulla lo stesso Spengler, parlando di Occidente, faceva letteralmente riferimento a quello europeo e americano insieme, anche se la Civiltà occidentale di cui si occupava misurandone la senescenza era essenzialmente quella centroeuropea.

 

Perfino Guénon, nel 1927, a quasi dieci anni dalla fine della prima guerra mondiale, dava per scontato che Occidente fosse l’Europa e l’America insieme. Ma si trattava di una assimilazione superficiale quanto improvvida, laddove Schmitt aveva già misurato perfettamente anche la forza distruttiva della mentalità della politica e della cultura americana sull’indebolito spirito europeo oggi capace soltanto di reazioni scomposte e di votarsi all’autoannientamento.

 

Insomma, quella assimilazione terminologica deve essere esorcizzata e respinta con forza perché più minacciosa che impropria. Perché, anche al di là delle fasulle vicinanze culturali, falsifica un insanabile conflitto di interessi le cui conseguenze inquietanti dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti. Perché dà corpo ad una follia collettiva che ha messo fuori uso la ragione e la capacità di vedere e capire la realtà.

 

L’Europa come Pinocchio, in balia della propria stoltezza, è entrata nelle fauci di un Occidente più grande, ovvero della balena che minaccia ora di digerire il burattino da un momento all’altro, anche per interposta guerra provocata ad hoc.

 

 

Patrizia Fermani

 

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

 

 

 

Continua a leggere

Civiltà

Vivere liberi lontani dal mondo moderno, restando in Italia. Intervista a Gipi dei Malvisi

Pubblicato

il

Da

In tanti ci chiedono, di fronte alle notizie apocalittiche che Renovatio 21 fornisce ad abundantiam ogni dì, se mai ci sia un posto sulla Terra, un Paese straniero, in cui migrare per evitare l’orrore onnipervadente del mondo moderno che, slatentizzato, diviene sempre più sorveglianza e sottomissione, prigione tecnologica, incubo biologico ed alimentare.

 

Tuttavia, conosciamo qualcuno che da anni è riuscito a disconnettersi dal mondo delle macchine restando in Italia, prendendo dimora in un antico borgo disperso fra i boschi degli Appennini, dove c’è tutto quello che serve: il campo da arare con i buoi, la stalla per le mucche, la corte per le capre e gli asinelli, le oche e il gallo, il vitello e il pipistrello, la casetta con la stufa e il gatto, l’orto di immane generosità, il ruscello per sciacquare i panni.

 

Si chiama Villa Melesi, o comunità contadina dei Melesi. L’ha fondata lui. Sta sui monti a cavallo tra Parma e Piacenza, comune di Vernasca.

 

Gipi dei Malvisi è un personaggio piuttosto incredibile, che avevamo conosciuto nella scena pan-italiana degli appassionati del tabarro, dove la sua originalità torreggiava (e, considerando la galleria di personaggi che si intabarrano, capite che si tratta di tanta roba). Artigiano e artista – sono incredibili, e ben vendute, le sue sculture in fil di ferro – il dei Malvisi è oggi un uomo che ha appreso tecniche agricole antiche, ottocentesche, medievali, persino neolitiche, con le quali condurre questa vita lontana dal mondo tossico inflitto alla popolazione occidentale e non solo a quella.

 

Comunità contadina dei Melesi

 

Parlare con lui è trovarsi affogati in un vortice di racconti biografici, erudite citazioni e pensieri abissali espressi in una lingua euro-sincretica diacronica che all’italiano aggiunge parole – preposizioni, lemmi, espressioni, tutto – in francese, tedesco, spagnuolo, latino, inglese, italiano aulico… e giuriamo che parla davvero così, con questo eloquio antico e proteiforme, irresistibile.

 

Se il lettore ha problemi a comprendere, in fondo Gipi è stato così gentile da darci i suoi recapiti. Così che magari, qualche lettore curioso, può organizzarsi per andare a trovarlo. E toccare di prima mano la libertà di cui qui andiamo a parlare.

 

 

Signor dei Malvisi, è vero che questo non è il suo nome?

Primieramente yo non sono «signore» bensì contadino. Nel mio dialetto, un’isola di accento emiliano tra quello ebraico y quello ligure, il «siur» indica un benestante che non si sporca le mani. Sulle mie braghe di fustagno porto tre bottoni: antico segno del possedere un po’ di terra tuttavia non sufficiente per poter guatare gli altri lavorarla. C’est vrai: il mio cognome deriva da un guardiano delle oche astigiano. Da quando però sono ritornato ai siti aviti l’ho sostituito con la mia provenienza geografica: i Malvisi sono un villaggio della montagna piacentina dove i miei antenati vivono da 600 anni. Una volta era d’uso: Guido da Verona, Tommaso d’Aquino… Gipi era il nome di battaglia di un chirurgo partigiano, affibbiatomi da mio padre al primo vagito.

 

 

Ora dove vive?

Più che vivere, ahimè, sopravvivo: a me stesso. Purtroppo la banalità del male (i.e. una zia apparentemente affettuosa, circuita da un bieco figuro, ha venduto i miei sogni per un piatto di lenticchie) mi ha travolto ed ho dovuto abbandonare la mia terra per divenire un vagabondo. Il carico di ricordi, lo strazio per la Patria si’ bella e perduta non mi abbandonano mai. Fuggo dunque: senza posa né requie, evangelicamente pensando alla volpe provvista di una tana a me negata. Il viaggio è la mia droga quotidiana: terminato l’effetto del trip (sic), la giostra deve ripartire. Bergson definì quello ebraico «popolo ospite»; parimenti la mia magione è quella di colui che mi accoglie. Ben conscio peraltro che il mio puzzo ammorberebbe l’aere dopo tre di’ più del carducciano Cruciato, tolgo gli ormeggi sordo a qualsivoglia richiamo di sirena entro quel termine.

 

L’orto della comunità contadina

 

Come vive? Lei dice: «vivo nell’Ottocento»…

Vivevo nell’800, tra manze mugghianti, cani da caccia, gatti e polli. Una casa di pietra, nel tetto pure, con il fuoco che scaldava pentole ma più ancora animi. Una bottega di falegnameria del Trisnonno, la più antica funzionante della provincia. La spesa nell’orto e nel frutteto ed il surplus venduto tramite amici o passaparola. Una cavalla, facente funzione di automobile, che anche con temperature abbondantemente sotto lo 0 partiva imperterrita, senza antigelo. Non rifiutai la corrente elettrica similmente al mio bisnonno che, tornato da Boston nel 1911, nel ’29 fu tra i primi a volerla in casa (ho ancora le bollette, si sa mai che mi contestino il mancato pagamento). Avevo infatti un frigo (che morì, dato che il freddo della cucina era troppo intenso) ed una radio per le nuove. Oggi mi sposto per insegnare quelle nozioni così faticosamente apprese dagli ultimi che potevano insegnarmele, legate al mondo che fu. Una panda a metano che percorre 70.000 km all’anno con aspirazioni opposte. Talvolta formato Tir, sovraccarica di opere artigianali e banchi da lavoro ed esposizione per gli eventi cui prendo parte. Talaltra in veste di macchina formula 1, superando i 180 km/h, onde spostarmi dal Manzanarre al Reno con celerità superiore al pensiero (anche se il filosofo sarebbe contrario). Un equilibrio sûrement non perfetto tuttavia con una idea molto chiara, continuamente corroborata nel passare dei lustri: la mia libertà è bene imprescindibile.

 

Villa Melesi

 

Come è arrivato a questo amore per la vita di un tempo?

Allorché arrivai ai monti sorgenti dal piano padano, finiti con mio sollievo (e dei miei docenti pure) gli studi classici, avevo perfettamente chiari i miei intenti: praticare una esistenza immersa nella natura (quasi) incontaminata della mia valle. Eravamo allora nel pieno dell’edonismo reaganiano e ben pochi erano quelli che credevano in un mondo altro, diverso. Passavo (molti lo pensano ancora) per un lavdator temporis acti, lodatore del tempo passato, per posa o per ignoranza oppure per protesta. In realtà la mia decisione si è rafforzata crescendo: a 4 anni dissi, e seriamente, ai miei genitori: «vado a vivere lassù». L’imprinting del nonno, incosciente del seme immesso nel mio giovanile corazón, ha travolto irrefrenabile qualunque ostacolo. Furono lui e tutti quelli della sua generazione, nati tra fine ‘800 e primo’ 900, a stimolare la curiosità e a farmi approfondire vieppiù quel contesto che andava repentinamente scomparendo. Conoscevo il virgiliano Tityro e l’Arcadia tuttavia quei richiami non potevano che apparire frutto della fantasia del poeta, dell’interpretazione distaccata ergo finta dello scrittore. Non c’erano ombre fresche sui flautini bensì lezzo di sudore e falci fruscianti e paura delle carestie in quelle parole pronunciate nelle vespertine veglie. Potevo non innamorarmi di una storia scritta da giganti? E quanto mi apparivano sconcerie da nani gli agi milanesi?

 

Il vicino ruscello

 

Ci ha detto che conosce tecniche che «vengono direttamente dal Neolitico»…

C’est vrai. Mi sovviene un paragone, affatto iperbolico a mio modesto avviso. La differenza di movimento tra le legioni di Cesare e la Grand Armée del piccolo Corso non è così significativa. Ambedue usavano equini e bovini da trasporto, con conseguente notevole lentezza negli spostamenti e penuria di sussistenza. Intendo dire che in certi ambiti le evoluzioni sono state modeste se non addirittura nulle. Le persone che ho avuto la fortuna di incontrare avevano appreso tecniche dai loro padri, nonni, compaesani, che permettevano loro di vincere la natura feroce ed i duri materiali, migliorando così la propria condizione di vita, già grama. Due esempi. Senza seghe, so ricavare da un tronco quattro travetti, bastando i cunei di ferro da infilare nella corteccia: i nostri antenati, privi di altro, usavano sassi appuntiti, a tagliola, battuti da un ramo, parimenti una rudimentale mazza. Il tramezzo: pareti interne (delle case) o esterne (delle cascine) composte da pali verticali ed un intreccio di rami forti, poi intonacate con letame fresco (in Africa si usa tuttora). Un sistema che è alla base della cesteria e della tessitura e che ebbe l’ultimo colpo di coda massiccio nelle trincee della Grande Guerra (ci costruirono anche finti cannoni atti ad ingannare la ricognizione aerea avversaria!).

 

Gipi dei Malvisi. Si noti lo zoccolo ligneo e il tabarro appeso

 

Cosa pensa della situazione del mondo pandemico?

Il mio pensiero non può che andare ai nostri vecchi, scomparsi con il sospetto che il mondo che avevano contribuito a creare non fosse migliore di quello che stavano lasciando. Gente che di apocalissi (usando un’espressione di Paolo Caccia Dominioni) ne aveva vissute parecchie. Gente che era usa alle fatiche, alla fame, al dolore, forse rassegnata ma mai doma. Questi hanno affrontato la Spagnola e i virus degli anni ’50 e del’ 69 ricordando benissimo i racconti dei loro nonni circa l’ondata di colera del 1855. Ebbene c’era lo spavento della guerra, giammai quello della malattia. Strano, nevvero? Il morbo veniva affrontato con una serenità di fondo. Alla base di questa solidità d’animo c’erano una fede che vince la morte ed una società costruita su relazioni familiari e sociali strette. Noi al contrario siamo monaci senza vocazione alcuna e, per giunta, senza noviziato di prova. Investiti dal «labora» (la nostra non è forse una Costituzione basata sul lavoro piuttosto che sul valore della persona ergo sulle braccia invece che sull’anima che vive di «ora» pure?), travagliamo senza pensare, come direbbe quel cattivo maestro di Sartre. Ritirandoci poi nella nostra personale cella, pardon: l’abitazione, dove ci attendono i panem et circenses promessi. Orbene: in un tessuto siffatto la presunta pandemia non poteva che accelerare il processo di distacco, alterando completamente il senso del rapporto umano. Questa influenza dai numeri troppo esigui ha spinto a dividerci ulteriormente, quasi appartenga più al campo dell’ideologia che non a quello – scontato? – della salute. Posso dirlo apertis verbis: ad oggi rivolgo la mia attenzione non tanto alla scaturigine della malattia quanto alle conseguenze che sta subendo il mondo, con ripercussioni a livello politico, economico e massimamente sociale.

Lampo e Tuono, i buoi da aratura di Gipi

 

Ha comperato dei buoi in previsione di un vaccino obbligatorio per la patente?

I buoi, devo ammetterlo, sono sempre stati tra i miei desiderata. Appartengono alla storia dell’agricoltura: tra le incisioni rupestri camune se ne riconosce perfettamente una coppia aggiogata che tira l’aratro. Yo ho ben conservati todos gli attrezzi: carro, carretto a due ruote, erpice, slitta… Mancavano solo i trattori ruminanti e non potevano che essere dell’antica razza (qualcuno dice portata dai Longobardi; ipotesi simpatica ma difficilmente suffragabile) «montana», diffusa tra Parma et Genova. Estinta nel mio Ducato, rimane qualche capo nell’Oltrepò ed in Liguria ma sapevo chi poteva avere ciò che cercavo, conoscendo (oltre che artigiani) contadini ed allevatori in tutta Italia. Allorché cominciò il blocco, capii che era giunto il momento e, seguendo il consiglio di Orazio, colsi l’attimo aggiudicandomi due bestie giovani e domate da lavoro nei campi. Può sembrare una follia, certo, eppure la tendenza generale è quella di stringere un cappio intorno alla nostra libertà. Lo stesso ricatto posto ai genitori, ovverosia di portare a scuola solo bimbi vaccinati, domani potrebbe essere posto a chi guida. Personalmente, di fronte all’alternativa di perire tra i flutti o di costruire un’arca, preferisco, di gran lunga, la seconda.

 

 

La mucca Luna

 

È vero che per un periodo si è spostato a cavallo?

Naturlich! A differenza di tanti rodomonti nostrani, ho tratto logiche e severe conseguenze dalle lunghe e vespertine discussioni con amici e dalle solitarie meditazioni circa la salvaguardia dell’ambiente. Coerentemente con altre decisioni prese sul mio stile di vita, per 11 anni sono andato a piedi per tragitti fino ai 15 km, diversamente in corriera y treno. Un incontro inaspettato mi ha portato infine a scegliere Stella, una cavalla bardigiana (1,47 al garrese, razza rustica e robusta, talvolta nevrile ma in genere docile). Una automobile perfetta: si muoveva in tutte le stagioni, mantenimento a costo 0, niente balzelli sul mero possesso. In più mi sfornava un puledro da vendere all’anno: una meraviglia! Il fatto più divertente era andare in posta, banca o in comune e parcheggiare davanti: la gente stupita usciva dai bar per vedermi e, mentre sbrigavo le mie faccenduole, l’equino rasava il prato antistante. Comodo invero per tutti, no?

 

 

Perché ora ha comprato dei muli?

In realtà è una: Julia, tre anni, figlia di una cavalla bardigiana. Nata in un pascolo d’alta quota nella montagna piacentina e sopravvissuta ai lupi, è stata domata da sella e tiro. Nell’ottica di un restringimento delle libertà individuali mi sono deciso a cercare e comprare un mulo in quanto mezzo di trasporto ideale per le condizioni del territorio in cui vorrei o dovrò vivere. Una bestia siffatta può agevolmente portare 120 kg di legna o frutta con il basto e le ceste: niente di meglio dunque per salvaguardare la mia schiena ed arrivare in posti impervi. Non solo: percepisce il pericolo, come tanta aneddotica militare racconta.

 

 

Cosa pensa del nuovo ecologismo?
È uno dei frutti amari, terribili financo, di questo mondo moderno. Una mia amica carissima, anni fa, mi definì l’ultimo degli umanisti, riferendosi all’ immagine vitruviana dell’uomo al centro dell’ universo. Oggi invece c’è l’animale e non parmi un guadagno. Nemmanco i pagani avrebbero posto una bestia sull’ara, se non per sacrificarla (mi sovvengono, ad esempio, i suovetaurilia). Hanno classificato la religione quale superstizione invocando la ragione (gente come Massimo D’Azeglio, salvo poi passare le sere ad invocare gli spiriti e far ballare i tavolini con un medium) ed ora, in nome della stessa, adorano chi ne è privo. Sento spesso dire che siamo il cancro del pianeta ed è un’affermazione che mi fa primieramente sobbalzare indi mi ferisce. A coloro che lo sostengono porgo invariabilmente un invito: andare a Pienza ed affacciarsi dalle mura in direzione dell’Amiata. Il paesaggio è straordinario, da sindrome di Stendhal. Campi e boschi, siepi e calaie: tutto ha un ordine calibrato. C’è un perfetto equilibrio tra uomo e natura, creato dal lavoro millenario di etruschi, romani, medievali per giungere fino a noi. È la mano del contadino che pianta sapientemente il vigneto, l’oliveto e lo difende dalle infestanti e dai selvatici. Il mondo occidentale era ecologico perché dotato di buon senso. Certo, alcune montagne sono state disboscate per fini commerciali, produttivi, tuttavia fino all’arrivo della casta di rapaci individui (parola di un Gramsci) l’insieme era stato preservato. Tornando al nostro presente, quella coscienza propagandata dalla ragazzina svedese mi appare ideologica, ipocrita, inutile. Ciò che stiamo ottenendo (mi fermo al caso italiano) è la distruzione totale della nostra agricoltura in favore della creazione di un ambiente dicotomico e in egual misura caotico: agglomerati urbani più o meno grandi e foreste selvagge. Uno scenario folle che solo la discendente di un popolo barbaro può volere. I latini tagliavano per seminare e creavano giardini, di là del Reno si guardavano bene dal ferire troppe piante. Aridatece i monaci di Camaldoli, primi compilatori di un manuale di silvicoltura, o quelli di Chiaravalle e le loro marcite, altro che Greta!

 

La manza Circe

 

Che rapporto ha con la tecnologia? Per esempio come usa lo smartphone?

Ogniqualvolta ho un colloquio con gli organizzatori di manifestazioni cui desidero prendere parte, mi scuso anticipatamente per la mia scarsa dimestichezza con la tecnologia. La frase tipica, tra serio e faceto, è: «sono un uomo dell’800». In effetti non so nemmeno accendere un computer… Guardo stupito gli altri che fanno, brigano, disfano, muovono: ne colgo l’utilità ma non mi appartiene. Per poco meno di 10 anni ho avuto il telefono fisso in casa e mi sembrava di non inficiare la coerenza: come affermava orgoglioso il mio bisnonno, erano stati personaggi nati come lui nel XIX secolo ad inventare certe faccenduole come la lampadina e la radio! Quando sono partito per l’esilio perpetuo gli amici mi hanno regalato uno smartphone (che yo chiamo acutofono) e mi hanno, bontà loro, insegnato ad usarlo. I contatti, per me che vivo di relazioni ed ho sodali sparsi da Aosta a Ragusa, sono fondamentali. La funzione telefono è surely la più gettonata, passando almeno 5 ore al giorno in comunicazione con qualcuno! Whatsapp l’ho trovata di grande aiuto per le immagini: poter inviare la foto di un pezzo di ciliegio per indicare senza fraintendimenti un colore preciso non ha prezzo. Faccialibro lo uso poco o punto. Trovo che uno dei termini più abusati oggi sia «amicizia». A mio modesto avviso ci deve essere una corrispondenza tra ciò che vivo nel reale, nel quotidiano, e quello che passa nel virtuale, in rete. Non è possibile sostituire lo sguardo, un abbraccio, il tono della voce e, magari, le gambe sotto al tavolo: antico sono. Last but not least la mia garzona ha creato un profilo Instagram per poter pubblicizzare le mie opere tuttavia, almeno per ora, il passaparola vince incontrastato nella classifica di motore di vendita.

 

 

Lei è un grande sostenitore del tabarro…

Chi mi incontra senza conoscermi di primo acchito immagina yo sia un teatrante, un eccentrico, nel peggiore dei casi un picchiatello. Li capisco, per carità: rara avis vedere un tabarro. A maggior ragione se accoppiato ad un bustino (o gilet, che dir si voglia) con la catenella della cipolla. Ancor più se le braghe sono in fustagno e con tre bottoni finali (avendo un po’ di terra, i miei vecchi hanno acquisito il diritto a portarli. Un mezzadro non ne aveva affatto mentre un ricco poteva esibirne un fottio: un codice antico come quello dei ventagli e irrimediabilmente perduto): le stesse che nell’ iconografia classica porta Renzo Tramaglino. Tornando alla nera ruota: come potrei non portarlo, dato che non ho ombrelli e nemmanco cappotti? Da 20 anni mi copro con quello: in caso di pioggia anche il 15 agosto. Ne sono orgogliosissimo, me lo sento addosso come una seconda pelle ed è un biglietto da visita che mi fa identificare da lontano. I miei valori, la mia cultura si presentano visivamente, esteticamente: l’ho compreso nel tempo. No, non potrei farne a meno (ci dormo pure dentro, avvolto come in un bozzolo).

 

Un pizzico di Wuhano padano

 

 

E il camminare scalzo? Ci racconta qualcosa…

Ho iniziato a Giugno di 30 anni fa, quasi timidamente. Il caldo rendeva i miei scarponi (utili per andare a falciare) opprimenti e l’istinto mi disse: ya basta! Prima solo durante i mesi estivi, successivamente ci presi gusto, allungando vieppiù la resistenza al cuoio. Ora da metà marzo a metà novembre cammino scalzo. È un fatto di salute, certamente, ma sarebbe riduttivo credere sia solo quella la motivazione. Intanto è tradizione: una volta i poveri giravano costantemente senza scarpe, le quali venivano riservate alla messa, alla festa (per me neppure quella: sono un pellegrino). In secvndis i piedi sono senzienti, similmente alle mani. Un piacere senza pari è il percepire la carezza dell’erba, il fresco del marmo, le asperità del granito, il massaggio del selciato di fiume. Mi è capitato più e più volte di affrontare la pioggia in città o di attraversare un corso d’ acqua: et voilà, il tempo di un amen e sono asciutto, diversamente le calzature bagnate. Viaggio con un occhio vigile nel guatare vetri e spine onde bellamente evitarli ma è dopotutto un piccolo prezzo che pago volentieri per il senso massimo di libertà che mi regala.

 

Gallo il cui nome non è pervenuto

 

Parliamo della sua arte…

Nella mia famiglia sono più di 200 anni che c’è un falegname: ogni generazione ne ha espresso uno. Fin da piccino ho sempre sentito una forte attrazione per il legno: colori, profumi, alterazioni. Iniziai con riproduzioni di armi dell’ultima guerra per le manovre campali con gli amici poi la mia attenzione si riversò verso la scultura. Dopo aver recuperato la bottega in casa (che già fu del trisnonno) andai a garzone dal mio maestro (dopo 27 anni mi reco ancora da lui: non si finisce giammai di imparare) e dopo un anno potevo menar vanto di essere diventato un ebanista. Scelgo accuratamente i tronchi nei miei boschi, li sego e li lascio riposare in una lenta essicazione naturale. Dalle assi mature ricavo mobili scolpiti ed intarsiati, cornici in stile, taglieri, attrezzi da cucina e contadini, giuocattoli. Finisco con olio d’oliva extra vergine e di lino, gommalacca e sandracca. Il bisnonno, carpentiere negli Stati Uniti, sapeva usare il fil di ferro ed yo ho voluto fortissimamente, come Alfieri, imparare da autodidatta. Et voilà: cesteria (in tecnica mista con essenze legnose o puro), complementi di arredo, manichini, lampade, bugie con meccanismo di risalita, porta-bottiglie e porta-vasi pensili. Costruisco muri in pietra a secco, erigo tramezzi (le antiche pareti) e copro le case in lastre di arenaria. Infine, da appassionato cultore di tutto ciò che è tradizione, insegno (oltre a tutte le tecniche sunnominate) danza popolare, con coreografie supportate da un repertorio musicale più o meno antico ed abbastanza ben conservato.

 

Questa intervista genererà interesse e richieste di contatto da parte dei nostri lettori. Possiamo dare la sua mail e il suo numero di telefono a chi ce lo chiederà?

Claro que sì! Il mio recapito telefonico è 3335347433 (ed ha, incredibile dictv, Whatsapp) ed il mio indirizzo di posta elettronica è: gipi.malvisi@gmail.com.

 

Grazie signor dei Malvisi. Grazie per la testimonianza e l’esempio che ci dà.

 

 

 

Continua a leggere

Più popolari