Connettiti con Renovato 21

Geopolitica

Come fermare la spirale verso la guerra

Pubblicato

il

Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Il conflitto ucraino si sta trasformando in guerra fra Occidente da un lato, Russia e Cina dall’altro. Entrambe le parti sono persuase che l’una voglia la rovina dell’altra. Ma la paura è cattiva consigliera. Si potrà preservare la pace solo se ognuno dei contendenti riconoscerà i propri errori. C’è bisogno di una svolta radicale, perché oggi né la linea di condotta occidentale né le azioni della Russia corrispondono alla realtà.

 

 

Nessun responsabile politico desidera la guerra nel proprio Paese. Le guerre sono in genere frutto della paura. Ogni campo teme, a torto o a ragione, l’altro. Ovviamente non mancano mai soggetti che spingono verso la catastrofe, ma sono solo dei fanatici estremamente minoritari.

 

Questa è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi. La Russia è convinta, a torto o a ragione, che l’Occidente voglia distruggerla; l’Occidente è altrettanto fortemente convinto che la Russia persegua fini imperialisti e voglia distruggerne le libertà. Nell’ombra, un esiguo gruppo, gli straussiani, auspica lo scontro.

 

Per fugare i malintesi dobbiamo ascoltare le narrazioni di entrambi i campi.

 

Mosca ritiene che il rovesciamento del presidente democraticamente eletto Viktor Yanukovich fu un colpo di Stato orchestrato dagli Stati Uniti. È la prima divergenza. Gli Stati Uniti infatti interpretano i fatti del 2014 come una «rivoluzione», la rivoluzione dell’Euromaidan o della Dignità. Otto anni dopo, molte testimonianze occidentali comprovano l’implicazione del dipartimento di Stato USA, della CIA, della NED [National Endowment for Democracy], della Polonia, del Canada, nonché della NATO.

 

Le popolazioni della Crimea e del Donbass rifiutarono di riconoscere la legittimità della nuova classe al potere, formata anche da molti nazionalisti integralisti, discendenti degli sconfitti della seconda guerra mondiale.

 

La Crimea – che al momento della dissoluzione dell’URSS aveva già votato per referendum l’annessione alla nascente Russia indipendente – sei mesi prima che la restante parte della Repubblica sovietica d’Ucraina si pronunciasse per l’indipendenza, si espresse con un nuovo referendum.

 

Per quattro anni la Crimea fu rivendicata sia dalla Russia sia dall’Ucraina. Mosca faceva valere il fatto di aver pagato tra il 1991 e il 1995 al posto di Kiev le pensioni e gli stipendi ai funzionari della Crimea. La Crimea continuava di fatto a essere russa, sebbene la si considerasse territorio ucraino. Alla fine il presidente russo Boris Eltsin, mentre in Russia imperversava una crisi economica gravissima, risolse il contenzioso consegnando la Crimea a Kiev.

 

La Crimea votò però una Costituzione che le riconosceva l’autonomia in seno all’Ucraina, ma Kiev non la riconobbe. Con il secondo referendum, quello del 2014, la popolazione di Crimea proclamò a larghissima maggioranza l’indipendenza. Il parlamento di Crimea chiese allora l’annessione alla Federazione di Russia, che però non acconsentì. Per rafforzare la continuità del proprio territorio, la Russia ha costruito, senza consultare l’Ucraina, un gigantesco ponte sul Mar d’Azov che collega il territorio metropolitano alla penisola di Crimea, privatizzando di fatto il piccolo mare.

 

In Crimea c’è il porto di Sebastopoli, indispensabile alla marina militare russa che, praticamente inesistente nel 1990, nel 2014 è tornata a essere una potenza.

 

Gli Occidentali hanno riconosciuto il referendum sovietico in Ucraina del 1990, ma non quello del 2014. Ma il diritto all’autodeterminazione dei popoli vale anche per gli abitanti della Crimea. Gli Occidentali asseriscono che, durante le operazioni di voto, sul posto c’erano molti soldati russi senza uniforme. È vero, ma i risultati dei referendum del 1990 e del 2014 sono simili. Non c’è ragione di sospettare la frode.

 

Gli Occidentali, per sottolineare che non accettavano l’«annessione», hanno adottato sanzioni collettive contro la Russia, senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Queste sanzioni violano la Carta delle Nazioni Unite, che attribuisce questo potere esclusivamente al Consiglio di Sicurezza.

 

Anche le oblast’ di Donetsk e di Lugansk si sono rifiutate di riconoscere la legittimità del governo uscito dal colpo di Stato del 2014: hanno proclamato la propria autonomia, definendosi resistenti contro i «nazisti» di Kiev. Equiparare i nazionalisti integralisti ai nazisti è storicamente giustificato, ma impedisce ai non-ucraini di capire gli avvenimenti.

 

Il nazionalismo integralista fu creato in Ucraina nei primi anni del XX secolo da Dmytro Dontsov, originariamente filosofo di sinistra, passato gradualmente all’estrema destra. Durante la prima guerra mondiale fu un agente al soldo del secondo Reich, poi partecipò al governo ucraino di Symon Petljura, nato in seguito alla Rivoluzione russa del 1917. Partecipò alla Conferenza di pace di Parigi e accettò il Trattato di Versailles.

 

Nel periodo fra le due guerre Dontsov esercitò il proprio magistero sulla gioventù ucraina, facendosi promotore del fascismo e in seguito del nazismo. Divenne violentemente antisemita, sostenendo il massacro degli ebrei molto prima delle autorità naziste, che fino al 1942 parlarono solo di espulsione.

 

Durante la seconda guerra mondiale Dontsov rifiutò di assumere la direzione dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN), che affidò al discepolo Stepan Bandera, affiancato da Yaroslav Stetsko. Quasi tutti i documenti sull’attività di Dontsov in seno al nazismo sono stati distrutti. Non si sa cosa fece durante la guerra, salvo che partecipò attivamente all’Istituto Reinhard Heydrich, dopo l’assassinio di quest’ultimo. I giornali di quest’organizzazione antisemita gli diedero molto spazio.

 

Alla Liberazione, protetto dai servizi segreti anglosassoni, fuggì in Canada, poi negli Stati Uniti. La sua virulenza non scemò nemmeno negli ultimi anni di vita: evoluto verso una forma di misticismo vichingo, predicò lo scontro finale con i «moscoviti». Oggi i libri di Dontsov, in particolare il Nazionalismo, sono una lettura obbligatoria per i miliziani, soprattutto per quelli del Reggimento Azov. Durante la seconda guerra mondiale i nazionalisti integralisti ucraini massacrarono almeno tre milioni di concittadini.

 

Washington interpreta questi fatti storici in modo diverso: i nazionalisti integralisti commisero sicuramente errori, ma si battevano per l’indipendenza sia contro i nazisti tedeschi sia contro i bolscevichi russi. La CIA ha dunque fatto bene ad accogliere Dontsov negli Stati Uniti e ad arruolare Stepan Bandera a Radio Free Europe. E meglio ancora ha fatto a creare la Lega Anticomunista Mondiale attorno al ministro nazista ucraino Yaroslav Stetsko, nonché al capo dell’opposizione al comunismo cinese, Chiang Kai-shek. Secondo Washington sono fatti che in ogni caso appartengono al passato.

 

Nel 2014, con il presidente Petro Poroshenko, il governo di Kiev ha tagliato gli aiuti ai «moscoviti» del Donbass. Ha smesso di pagare le pensioni e i salari dei funzionari. Ha vietato l’uso del russo, parlato da metà degli ucraini, e lanciato operazioni militari punitive contro questi «subumani», che in dieci mesi hanno causato 5.600 morti e 1,5 milioni di profughi. Al cospetto di questi orrori, Germania, Francia e Russia hanno imposto gli Accordi di Minsk, per ricondurre a ragione il governo di Kiev e proteggere le popolazioni del Donbass.

 

Prendendo atto che i primi Accordi non avevano prodotto risultati, la Russia fece avallare dal Consiglio di Sicurezza l’Accordo di Minsk 2. È la risoluzione 2202 del 12 febbraio 2015, adottata all’unanimità. Nella dichiarazione di voto gli Stati Uniti articolarono la loro interpretazione dei fatti: i «resistenti» del Donbass erano solo «separatisti», sostenuti militarmente da Mosca; specificarono anche che l’Accordo di Minsk 2 non sostituiva gli Accordi di Minsk 1, del 5 e 19 settembre 2014, ma vi si aggiungeva.

 

Gli Stati Uniti esigevano perciò il ritiro delle truppe russe senza uniforme presenti in Donbass. Germania e Francia fecero aggiungere una dichiarazione comune, cofirmata dalla Russia, che garantiva l’applicazione «obbligatoria» dell’insieme degli «impegni».

 

Poco tempo dopo però il presidente Poroshenko dichiarò di non voler applicare alcunché e rilanciò le ostilità; una posizione reiterata dal governo del presidente Zelensky. Nei sette anni successivi alla risoluzione 2202 vi furono altre vittime: 12 mila secondo Kiev, 20 mila secondo Mosca.

 

In questi anni Mosca non è intervenuta. Il presidente Vladimir Putin non solo ha ritirato le proprie truppe, ma ha vietato a un oligarca di mandare mercenari a sostenere le popolazioni del Donbass, che sono state così abbandonate dai garanti degli Accordi di Minsk, nonché dagli altri membri del Consiglio di Sicurezza.

 

In Russia la politica funziona così: prima di annunciare qualsiasi cosa si deve essere in grado di compierla. Mosca ha quindi preparato in silenzio le successive mosse.

 

Addestrata dalle sanzioni che la colpiscono dall’annessione della Crimea, si aspettava che, in caso di un suo intervento per far applicare la risoluzione 2202, gli Occidentali le rafforzassero. Mosca ha perciò preso contatto con altri Stati colpiti da sanzioni, in particolare con l’Iran, per aggirare le misure già in atto e prepararsi a farlo con quelle future.

 

Chi si reca regolarmente in Russia sa che l’amministrazione Putin stava da tempo incrementando un’autarchia alimentare – compresi carne e formaggi – prima inesistente. Per quanto riguarda il sistema bancario, la Russia si è avvicinata alla Cina; un’iniziativa che tutti abbiamo ritenuto essere un piano contro il dollaro. In realtà Mosca si stava preparando all’esclusione dal sistema SWIFT.

 

Quando il presidente Putin ha inviato in Ucraina l’esercito, ha specificato che non intendeva dichiarare una «guerra» per annettere l’Ucraina, ma condurre un’«operazione speciale» in forza della risoluzione 2202 e della propria «responsabilità nella protezione» delle popolazioni del Donbass.

 

Com’era prevedibile gli Occidentali hanno reagito con sanzioni economiche che per due mesi hanno perturbato gravemente l’economia russa. Poi le parti si sono invertite e le sanzioni si sono rivelate proficue per la Russia, che già da tempo vi si era preparata.

 

Gli Occidentali hanno mandato in Ucraina una grande quantità di armi, poi vi hanno dispiegato consiglieri militari e qualche forza speciale. Per l’esercito russo, tre volte inferiore a quello ucraino per numero di soldati, sono iniziate le difficoltà. Per garantire un ricambio di uomini, senza tuttavia sguarnire il sistema nazionale di difesa, le forze armante hanno così decretato una mobilitazione parziale.

 

La NATO  ha da parte sua predisposto un piano per mobilitare un gruppo centrale di Stati, cui si aggiunge un gruppo di alleati più distanti, in modo da ripartire su un numero di partner il più possibile allargato lo sforzo finanziario necessario per sfinire la Russia.

 

Mosca ha risposto annunciando che a un ulteriore passo degli Occidentali risponderà usando nuove armi.

 

Le forze armate russe e cinesi posseggono lanciamissili ipersonici, che gli Occidentali non hanno. In pochi minuti Mosca e Pechino possono distruggere qualsiasi obiettivo in ogni parte del mondo. Gli Occidentali non hanno per il momento strumenti per impedirlo. Un divario che non sarà colmato almeno fino al 2030, secondo i generali statunitensi.

 

a Russia ha già annunciato che obiettivo prioritario sarebbe il ministero degli Esteri britannico, ritenuto la mente che guida i nemici, nonché il Pentagono, il braccio armato. Qualora attaccassero, le forze armate russe e cinesi distruggerebbero innanzitutto i satelliti di comunicazione strategica degli Stati Uniti (CS3), che in poche ore sarebbero privati della capacità di guidare missili nucleari, quindi di rispondere.

 

Ci sono pochi margini di dubbio sull’esito di una guerra di simile portata.

 

Quando la Russia parla di attaccare con armi nucleari, non intende bombe atomiche strategiche come quelle sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, ma armi tattiche utili a distruggere obiettivi delimitati, come Whitehall e Pentagono. Le magniloquenti dichiarazioni del presidente Biden sul rischio che la Russia farebbe correre al mondo sono dunque insussistenti.

 

Non è escluso che ci si possa imbarcare in uno scontro di tale portata. Negli Stati Uniti un piccolo gruppo di politici non-eletti, gli Straussiani, è determinato a provocare l’apocalisse. Sono convinti che gli Stati Uniti, pur non potendo più dominare il mondo intero, possano continuare a tenere in pugno gli alleati. Per farlo devono essere pronti a sacrificarne una parte: danneggiarli in modo che gli Stati Uniti continuino a essere i primi (non i migliori).

 

Come in ogni conflitto le popolazioni hanno paura, ma un pugno di individui le spinge verso la guerra.

 

La Russia ha organizzato quattro referendum per l’autodeterminazione e l’annessione: nelle due repubbliche del Donbass, nonché nelle due oblast’ di Novorossia. Il G7, i cui ministri degli Esteri hanno partecipato all’Assemblea Generale dell’ONU a New York, ha immediatamente dichiarato che i referendum non possono essere validi perché si svolgono in situazione di guerra. Un’opinione discutibile. Hanno poi denunciato una violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, nonché dei principi della Carta delle Nazioni Unite. Queste sono invece falsità. Per definizione, il diritto dei popoli all’autodeterminazione non contrasta con la sovranità e l’integrità dello Stato da cui vogliono separarsi.

 

Sono principi che del resto tutti i membri del G7, a esclusione del Giappone, si sono impegnati a difendere firmando l’Atto finale di Helsinki.

 

È particolarmente esecrabile constatare come il G7 interpreti il diritto a proprio favore, in particolare quello dell’autodeterminazione dei popoli.

 

Per fare un esempio, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha condannato l’occupazione illegale da parte del Regno Unito dell’arcipelago delle Ciago, ordinandone la restituzione all’Isola Mauritius entro il 22 ottobre 2019. Non solo la restituzione non è mai avvenuta, ma una delle isole Ciago, Diego Garcia, è data in uso agli Stati Uniti, che vi alloggiano la più grande base militare dell’Oceano Indiano.

 

Altro esempio, nel 2009 la Francia ha illegalmente trasformato la colonia di Mayotte in dipartimento. Parigi ha organizzato un referendum, violando le risoluzioni 3291, 3385 e 31/4 dell’Assemblea Generale, che affermano l’unità delle Comore e vietano l’indizione di referendum in una sola delle sue parti, lo Stato delle Comore o la colonia francese di Mayotte. Ed è proprio per evitare la decolonizzazione che la Francia ha indetto il referendum; nelle Mayotte la Francia ha infatti installato una base militare della marina, ma soprattutto una base militare d’intercettazione e Intelligence.

 

Dal punto di vista russo, se questi referendum fossero internazionalmente riconosciuti metterebbero fine alle operazioni militari. Respingendoli, gli Occidentali prolungano il conflitto. Intendono aspettare che il resto della Novorossia cada nelle mani della Russia. Ebbene, se Odessa tornasse russa, Mosca dovrebbe accettare anche l’adesione della Transnistria, contigua alla Federazione di Russia. Ma la Transnistria non appartiene all’Ucraina, bensì alla Moldavia, da qui l’attuale nome di Repubblica Moldava del Dnestr.

 

La Russia si rifiuta di accogliere un territorio moldavo, che certamente ha ragioni storiche per proclamarsi indipendente. Ma non ha accettato nemmeno l’adesione dell’Ossezia e dell’Abkhazia, che hanno anch’esse ragioni storiche per proclamarsi indipendenti, però sono georgiane. Né la Moldavia né la Georgia hanno commesso crimini paragonabili a quelli dell’Ucraina moderna.

 

Alla fine di quest’esposizione prendiamo atto che i torti sono da entrambe le parti, ma non sono ripartiti in uguale misura. Gli Occidentali hanno riconosciuto il colpo di Stato del 2014; hanno tentato di fermare il massacro conseguente, ma alla fine hanno permesso ai nazionalisti integralisti di perseverare; hanno armato l’Ucraina invece di costringerla a rispettare gli Accordi di Minsk 1 e 2.

 

La Russia ha invece costruito senza concertazione un ponte che chiude il Mar di Azov. La pace potrà essere preservata solo se i due campi riconosceranno i propri errori.

 

Ne saremo capaci?

 

 

Thierry Meyssan

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

Immagine di Amakuha via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)

 

 

 

Continua a leggere

Geopolitica

Missili Hezbollah contro basi israeliane

Pubblicato

il

Da

Hezbollah ha preso di mira diverse installazioni militari israeliane, inclusa una base critica di sorveglianza aerea sul Monte Meron, con una raffica di razzi e droni sabato, dopo che una serie di attacchi aerei israeliani avevano colpito il Libano meridionale all’inizio della giornata.

 

Decine di missili hanno colpito il Monte Meron, la vetta più alta del territorio israeliano al di fuori delle alture di Golan, nella tarda notte di sabato, secondo i video che circolano online. I quotidiani Times of Israel e Jerusalem Post scrivono tuttavia che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che tutti i razzi sono stati «intercettati o caduti in aree aperte», senza che siano stati segnalati danni o vittime.

 

Il gruppo militante sciita libanese ha rivendicato l’attacco, affermando in una dichiarazione all’inizio di domenica che «in risposta agli attacchi del nemico israeliano contro i villaggi meridionali e le case civili» ha preso di mira «l’insediamento di Meron e gli insediamenti circostanti con dozzine di razzi Katyusha».

 

Il gruppo paramilitare islamico ha affermato di aver anche «lanciato un attacco complesso utilizzando droni esplosivi e missili guidati contro il quartier generale del comando militare di Al Manara e un raduno di forze del 51° battaglione della Brigata Golani», sabato scorso. L’IDF ha affermato di aver intercettato i proiettili in arrivo e di «aver colpito le fonti di fuoco» nell’area di confine libanese.

 

 

Ieri l’aeronautica israeliana ha condotto una serie di attacchi aerei nei villaggi di Al-Quzah, Markaba e Sarbin, nel Libano meridionale, presumibilmente prendendo di mira le «infrastrutture terroristiche e militari» di Hezbollah. Venerdì l’IDF ha colpito anche diverse strutture a Kfarkela e Kfarchouba.

 

Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno tre persone, tra cui due combattenti di Hezbollah. I media libanesi hanno riferito che altre 11 persone, tra cui cittadini siriani, sono rimaste ferite negli attacchi.

 

Il gruppo armato sciita ha ripetutamente bombardato il suo vicino meridionale da quando è scoppiato il conflitto militare tra Israele e Hamas lo scorso ottobre. Anche la fondamentale base israeliana di sorveglianza aerea sul Monte Meron è stata attaccata in diverse occasioni. Hezbollah aveva precedentemente descritto la base come «l’unico centro amministrativo, di monitoraggio e di controllo aereo nel nord dell’entità usurpatrice [Israele]», senza il quale Israele non ha «alcuna alternativa praticabile».

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

Continua a leggere

Geopolitica

Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati

Pubblicato

il

Da

Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.   In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».   Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.

Sostieni Renovatio 21

Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.   Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.   L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.   «Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».   Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».   Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.   «Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.

Aiuta Renovatio 21

«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato   Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.   L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.   Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.   Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic  
Continua a leggere

Geopolitica

Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

Pubblicato

il

Da

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.

 

Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.

 

Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».

 

La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.

 

Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.

 

Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.

 

The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».

 

Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.

 

La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.

 

Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.

 

Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.

 

Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne.

Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine screenshot da YouTube

Continua a leggere

Più popolari