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Geopolitica

Come fermare la spirale verso la guerra

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Il conflitto ucraino si sta trasformando in guerra fra Occidente da un lato, Russia e Cina dall’altro. Entrambe le parti sono persuase che l’una voglia la rovina dell’altra. Ma la paura è cattiva consigliera. Si potrà preservare la pace solo se ognuno dei contendenti riconoscerà i propri errori. C’è bisogno di una svolta radicale, perché oggi né la linea di condotta occidentale né le azioni della Russia corrispondono alla realtà.

 

 

Nessun responsabile politico desidera la guerra nel proprio Paese. Le guerre sono in genere frutto della paura. Ogni campo teme, a torto o a ragione, l’altro. Ovviamente non mancano mai soggetti che spingono verso la catastrofe, ma sono solo dei fanatici estremamente minoritari.

 

Questa è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi. La Russia è convinta, a torto o a ragione, che l’Occidente voglia distruggerla; l’Occidente è altrettanto fortemente convinto che la Russia persegua fini imperialisti e voglia distruggerne le libertà. Nell’ombra, un esiguo gruppo, gli straussiani, auspica lo scontro.

 

Per fugare i malintesi dobbiamo ascoltare le narrazioni di entrambi i campi.

 

Mosca ritiene che il rovesciamento del presidente democraticamente eletto Viktor Yanukovich fu un colpo di Stato orchestrato dagli Stati Uniti. È la prima divergenza. Gli Stati Uniti infatti interpretano i fatti del 2014 come una «rivoluzione», la rivoluzione dell’Euromaidan o della Dignità. Otto anni dopo, molte testimonianze occidentali comprovano l’implicazione del dipartimento di Stato USA, della CIA, della NED [National Endowment for Democracy], della Polonia, del Canada, nonché della NATO.

 

Le popolazioni della Crimea e del Donbass rifiutarono di riconoscere la legittimità della nuova classe al potere, formata anche da molti nazionalisti integralisti, discendenti degli sconfitti della seconda guerra mondiale.

 

La Crimea – che al momento della dissoluzione dell’URSS aveva già votato per referendum l’annessione alla nascente Russia indipendente – sei mesi prima che la restante parte della Repubblica sovietica d’Ucraina si pronunciasse per l’indipendenza, si espresse con un nuovo referendum.

 

Per quattro anni la Crimea fu rivendicata sia dalla Russia sia dall’Ucraina. Mosca faceva valere il fatto di aver pagato tra il 1991 e il 1995 al posto di Kiev le pensioni e gli stipendi ai funzionari della Crimea. La Crimea continuava di fatto a essere russa, sebbene la si considerasse territorio ucraino. Alla fine il presidente russo Boris Eltsin, mentre in Russia imperversava una crisi economica gravissima, risolse il contenzioso consegnando la Crimea a Kiev.

 

La Crimea votò però una Costituzione che le riconosceva l’autonomia in seno all’Ucraina, ma Kiev non la riconobbe. Con il secondo referendum, quello del 2014, la popolazione di Crimea proclamò a larghissima maggioranza l’indipendenza. Il parlamento di Crimea chiese allora l’annessione alla Federazione di Russia, che però non acconsentì. Per rafforzare la continuità del proprio territorio, la Russia ha costruito, senza consultare l’Ucraina, un gigantesco ponte sul Mar d’Azov che collega il territorio metropolitano alla penisola di Crimea, privatizzando di fatto il piccolo mare.

 

In Crimea c’è il porto di Sebastopoli, indispensabile alla marina militare russa che, praticamente inesistente nel 1990, nel 2014 è tornata a essere una potenza.

 

Gli Occidentali hanno riconosciuto il referendum sovietico in Ucraina del 1990, ma non quello del 2014. Ma il diritto all’autodeterminazione dei popoli vale anche per gli abitanti della Crimea. Gli Occidentali asseriscono che, durante le operazioni di voto, sul posto c’erano molti soldati russi senza uniforme. È vero, ma i risultati dei referendum del 1990 e del 2014 sono simili. Non c’è ragione di sospettare la frode.

 

Gli Occidentali, per sottolineare che non accettavano l’«annessione», hanno adottato sanzioni collettive contro la Russia, senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Queste sanzioni violano la Carta delle Nazioni Unite, che attribuisce questo potere esclusivamente al Consiglio di Sicurezza.

 

Anche le oblast’ di Donetsk e di Lugansk si sono rifiutate di riconoscere la legittimità del governo uscito dal colpo di Stato del 2014: hanno proclamato la propria autonomia, definendosi resistenti contro i «nazisti» di Kiev. Equiparare i nazionalisti integralisti ai nazisti è storicamente giustificato, ma impedisce ai non-ucraini di capire gli avvenimenti.

 

Il nazionalismo integralista fu creato in Ucraina nei primi anni del XX secolo da Dmytro Dontsov, originariamente filosofo di sinistra, passato gradualmente all’estrema destra. Durante la prima guerra mondiale fu un agente al soldo del secondo Reich, poi partecipò al governo ucraino di Symon Petljura, nato in seguito alla Rivoluzione russa del 1917. Partecipò alla Conferenza di pace di Parigi e accettò il Trattato di Versailles.

 

Nel periodo fra le due guerre Dontsov esercitò il proprio magistero sulla gioventù ucraina, facendosi promotore del fascismo e in seguito del nazismo. Divenne violentemente antisemita, sostenendo il massacro degli ebrei molto prima delle autorità naziste, che fino al 1942 parlarono solo di espulsione.

 

Durante la seconda guerra mondiale Dontsov rifiutò di assumere la direzione dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN), che affidò al discepolo Stepan Bandera, affiancato da Yaroslav Stetsko. Quasi tutti i documenti sull’attività di Dontsov in seno al nazismo sono stati distrutti. Non si sa cosa fece durante la guerra, salvo che partecipò attivamente all’Istituto Reinhard Heydrich, dopo l’assassinio di quest’ultimo. I giornali di quest’organizzazione antisemita gli diedero molto spazio.

 

Alla Liberazione, protetto dai servizi segreti anglosassoni, fuggì in Canada, poi negli Stati Uniti. La sua virulenza non scemò nemmeno negli ultimi anni di vita: evoluto verso una forma di misticismo vichingo, predicò lo scontro finale con i «moscoviti». Oggi i libri di Dontsov, in particolare il Nazionalismo, sono una lettura obbligatoria per i miliziani, soprattutto per quelli del Reggimento Azov. Durante la seconda guerra mondiale i nazionalisti integralisti ucraini massacrarono almeno tre milioni di concittadini.

 

Washington interpreta questi fatti storici in modo diverso: i nazionalisti integralisti commisero sicuramente errori, ma si battevano per l’indipendenza sia contro i nazisti tedeschi sia contro i bolscevichi russi. La CIA ha dunque fatto bene ad accogliere Dontsov negli Stati Uniti e ad arruolare Stepan Bandera a Radio Free Europe. E meglio ancora ha fatto a creare la Lega Anticomunista Mondiale attorno al ministro nazista ucraino Yaroslav Stetsko, nonché al capo dell’opposizione al comunismo cinese, Chiang Kai-shek. Secondo Washington sono fatti che in ogni caso appartengono al passato.

 

Nel 2014, con il presidente Petro Poroshenko, il governo di Kiev ha tagliato gli aiuti ai «moscoviti» del Donbass. Ha smesso di pagare le pensioni e i salari dei funzionari. Ha vietato l’uso del russo, parlato da metà degli ucraini, e lanciato operazioni militari punitive contro questi «subumani», che in dieci mesi hanno causato 5.600 morti e 1,5 milioni di profughi. Al cospetto di questi orrori, Germania, Francia e Russia hanno imposto gli Accordi di Minsk, per ricondurre a ragione il governo di Kiev e proteggere le popolazioni del Donbass.

 

Prendendo atto che i primi Accordi non avevano prodotto risultati, la Russia fece avallare dal Consiglio di Sicurezza l’Accordo di Minsk 2. È la risoluzione 2202 del 12 febbraio 2015, adottata all’unanimità. Nella dichiarazione di voto gli Stati Uniti articolarono la loro interpretazione dei fatti: i «resistenti» del Donbass erano solo «separatisti», sostenuti militarmente da Mosca; specificarono anche che l’Accordo di Minsk 2 non sostituiva gli Accordi di Minsk 1, del 5 e 19 settembre 2014, ma vi si aggiungeva.

 

Gli Stati Uniti esigevano perciò il ritiro delle truppe russe senza uniforme presenti in Donbass. Germania e Francia fecero aggiungere una dichiarazione comune, cofirmata dalla Russia, che garantiva l’applicazione «obbligatoria» dell’insieme degli «impegni».

 

Poco tempo dopo però il presidente Poroshenko dichiarò di non voler applicare alcunché e rilanciò le ostilità; una posizione reiterata dal governo del presidente Zelensky. Nei sette anni successivi alla risoluzione 2202 vi furono altre vittime: 12 mila secondo Kiev, 20 mila secondo Mosca.

 

In questi anni Mosca non è intervenuta. Il presidente Vladimir Putin non solo ha ritirato le proprie truppe, ma ha vietato a un oligarca di mandare mercenari a sostenere le popolazioni del Donbass, che sono state così abbandonate dai garanti degli Accordi di Minsk, nonché dagli altri membri del Consiglio di Sicurezza.

 

In Russia la politica funziona così: prima di annunciare qualsiasi cosa si deve essere in grado di compierla. Mosca ha quindi preparato in silenzio le successive mosse.

 

Addestrata dalle sanzioni che la colpiscono dall’annessione della Crimea, si aspettava che, in caso di un suo intervento per far applicare la risoluzione 2202, gli Occidentali le rafforzassero. Mosca ha perciò preso contatto con altri Stati colpiti da sanzioni, in particolare con l’Iran, per aggirare le misure già in atto e prepararsi a farlo con quelle future.

 

Chi si reca regolarmente in Russia sa che l’amministrazione Putin stava da tempo incrementando un’autarchia alimentare – compresi carne e formaggi – prima inesistente. Per quanto riguarda il sistema bancario, la Russia si è avvicinata alla Cina; un’iniziativa che tutti abbiamo ritenuto essere un piano contro il dollaro. In realtà Mosca si stava preparando all’esclusione dal sistema SWIFT.

 

Quando il presidente Putin ha inviato in Ucraina l’esercito, ha specificato che non intendeva dichiarare una «guerra» per annettere l’Ucraina, ma condurre un’«operazione speciale» in forza della risoluzione 2202 e della propria «responsabilità nella protezione» delle popolazioni del Donbass.

 

Com’era prevedibile gli Occidentali hanno reagito con sanzioni economiche che per due mesi hanno perturbato gravemente l’economia russa. Poi le parti si sono invertite e le sanzioni si sono rivelate proficue per la Russia, che già da tempo vi si era preparata.

 

Gli Occidentali hanno mandato in Ucraina una grande quantità di armi, poi vi hanno dispiegato consiglieri militari e qualche forza speciale. Per l’esercito russo, tre volte inferiore a quello ucraino per numero di soldati, sono iniziate le difficoltà. Per garantire un ricambio di uomini, senza tuttavia sguarnire il sistema nazionale di difesa, le forze armante hanno così decretato una mobilitazione parziale.

 

La NATO  ha da parte sua predisposto un piano per mobilitare un gruppo centrale di Stati, cui si aggiunge un gruppo di alleati più distanti, in modo da ripartire su un numero di partner il più possibile allargato lo sforzo finanziario necessario per sfinire la Russia.

 

Mosca ha risposto annunciando che a un ulteriore passo degli Occidentali risponderà usando nuove armi.

 

Le forze armate russe e cinesi posseggono lanciamissili ipersonici, che gli Occidentali non hanno. In pochi minuti Mosca e Pechino possono distruggere qualsiasi obiettivo in ogni parte del mondo. Gli Occidentali non hanno per il momento strumenti per impedirlo. Un divario che non sarà colmato almeno fino al 2030, secondo i generali statunitensi.

 

a Russia ha già annunciato che obiettivo prioritario sarebbe il ministero degli Esteri britannico, ritenuto la mente che guida i nemici, nonché il Pentagono, il braccio armato. Qualora attaccassero, le forze armate russe e cinesi distruggerebbero innanzitutto i satelliti di comunicazione strategica degli Stati Uniti (CS3), che in poche ore sarebbero privati della capacità di guidare missili nucleari, quindi di rispondere.

 

Ci sono pochi margini di dubbio sull’esito di una guerra di simile portata.

 

Quando la Russia parla di attaccare con armi nucleari, non intende bombe atomiche strategiche come quelle sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, ma armi tattiche utili a distruggere obiettivi delimitati, come Whitehall e Pentagono. Le magniloquenti dichiarazioni del presidente Biden sul rischio che la Russia farebbe correre al mondo sono dunque insussistenti.

 

Non è escluso che ci si possa imbarcare in uno scontro di tale portata. Negli Stati Uniti un piccolo gruppo di politici non-eletti, gli Straussiani, è determinato a provocare l’apocalisse. Sono convinti che gli Stati Uniti, pur non potendo più dominare il mondo intero, possano continuare a tenere in pugno gli alleati. Per farlo devono essere pronti a sacrificarne una parte: danneggiarli in modo che gli Stati Uniti continuino a essere i primi (non i migliori).

 

Come in ogni conflitto le popolazioni hanno paura, ma un pugno di individui le spinge verso la guerra.

 

La Russia ha organizzato quattro referendum per l’autodeterminazione e l’annessione: nelle due repubbliche del Donbass, nonché nelle due oblast’ di Novorossia. Il G7, i cui ministri degli Esteri hanno partecipato all’Assemblea Generale dell’ONU a New York, ha immediatamente dichiarato che i referendum non possono essere validi perché si svolgono in situazione di guerra. Un’opinione discutibile. Hanno poi denunciato una violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, nonché dei principi della Carta delle Nazioni Unite. Queste sono invece falsità. Per definizione, il diritto dei popoli all’autodeterminazione non contrasta con la sovranità e l’integrità dello Stato da cui vogliono separarsi.

 

Sono principi che del resto tutti i membri del G7, a esclusione del Giappone, si sono impegnati a difendere firmando l’Atto finale di Helsinki.

 

È particolarmente esecrabile constatare come il G7 interpreti il diritto a proprio favore, in particolare quello dell’autodeterminazione dei popoli.

 

Per fare un esempio, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha condannato l’occupazione illegale da parte del Regno Unito dell’arcipelago delle Ciago, ordinandone la restituzione all’Isola Mauritius entro il 22 ottobre 2019. Non solo la restituzione non è mai avvenuta, ma una delle isole Ciago, Diego Garcia, è data in uso agli Stati Uniti, che vi alloggiano la più grande base militare dell’Oceano Indiano.

 

Altro esempio, nel 2009 la Francia ha illegalmente trasformato la colonia di Mayotte in dipartimento. Parigi ha organizzato un referendum, violando le risoluzioni 3291, 3385 e 31/4 dell’Assemblea Generale, che affermano l’unità delle Comore e vietano l’indizione di referendum in una sola delle sue parti, lo Stato delle Comore o la colonia francese di Mayotte. Ed è proprio per evitare la decolonizzazione che la Francia ha indetto il referendum; nelle Mayotte la Francia ha infatti installato una base militare della marina, ma soprattutto una base militare d’intercettazione e Intelligence.

 

Dal punto di vista russo, se questi referendum fossero internazionalmente riconosciuti metterebbero fine alle operazioni militari. Respingendoli, gli Occidentali prolungano il conflitto. Intendono aspettare che il resto della Novorossia cada nelle mani della Russia. Ebbene, se Odessa tornasse russa, Mosca dovrebbe accettare anche l’adesione della Transnistria, contigua alla Federazione di Russia. Ma la Transnistria non appartiene all’Ucraina, bensì alla Moldavia, da qui l’attuale nome di Repubblica Moldava del Dnestr.

 

La Russia si rifiuta di accogliere un territorio moldavo, che certamente ha ragioni storiche per proclamarsi indipendente. Ma non ha accettato nemmeno l’adesione dell’Ossezia e dell’Abkhazia, che hanno anch’esse ragioni storiche per proclamarsi indipendenti, però sono georgiane. Né la Moldavia né la Georgia hanno commesso crimini paragonabili a quelli dell’Ucraina moderna.

 

Alla fine di quest’esposizione prendiamo atto che i torti sono da entrambe le parti, ma non sono ripartiti in uguale misura. Gli Occidentali hanno riconosciuto il colpo di Stato del 2014; hanno tentato di fermare il massacro conseguente, ma alla fine hanno permesso ai nazionalisti integralisti di perseverare; hanno armato l’Ucraina invece di costringerla a rispettare gli Accordi di Minsk 1 e 2.

 

La Russia ha invece costruito senza concertazione un ponte che chiude il Mar di Azov. La pace potrà essere preservata solo se i due campi riconosceranno i propri errori.

 

Ne saremo capaci?

 

 

Thierry Meyssan

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

Immagine di Amakuha via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)

 

 

 

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Geopolitica

Medvedev: l’Occidente complotta per assassinare Zelens’kyj

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Le accuse secondo cui un polacco stava complottando con Mosca per assassinare il presidente ucraino Volodymyr  Zelens’kyj sono un segno che i sostenitori occidentali di Kiev vogliono «liquidare» il leader ucraino, ha affermato l’ex presidente russo Dmitrij Medvedev. Lo riporta il sito governativo russo RT.

 

Giovedì le autorità polacche hanno riferito dell’arresto di un uomo accusato di aver tentato di fornire informazioni sensibili ai servizi segreti russi. Le informazioni potrebbero essere state utilizzate nel tentativo di uccidere Zelens’kyj, hanno affermato Varsavia e Kiev.

 

«Un attentato alla vita del capo banderita in Polonia? Questo è veramente grave», ha scritto venerdì sui social media Medvedev, vice capo del Consiglio di sicurezza russo, in risposta alle affermazioni. «Potrebbe essere la prima prova che le persone in Occidente hanno deciso di liquidarlo. Abbi paura, pagliaccio!» esclama l’ex presidente della Federazione Russa.

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Il termine «banderita», o «banderista», si riferisce al movimento nazionalista ucraino di Stepan Bandera, responsabile della pulizia etnica dei polacchi durante la seconda guerra mondiale. Il collaboratore nazista è considerato un eroe nazionale nella moderna Ucraina.

 

Il cittadino polacco, identificato come Pawel K. dalla Procura nazionale di Varsavia, rischia fino a otto anni di carcere se condannato con l’accusa di aver tentato di collaborare con una potenza straniera contro gli interessi nazionali.

 

Nello specifico, Pawel K. è accusato di aver tentato di condividere con Mosca informazioni sull’aeroporto di Rzeszow-Jasionka, nel Sud-Est della Polonia. La struttura viene utilizzata per spedire armi e munizioni che i membri della NATO donano all’Ucraina per combattere la Russia.

 

Funzionari polacchi, tuttavia, hanno affermato che i suoi suggerimenti avrebbero potuto »tra le altre cose» aiutare Mosca a pianificare un attacco a Zelens’kyj durante una visita in Polonia. Il successore di Kiev al KGB, la SBU, ha ribadito le accuse in una propria dichiarazione, scrive RT.

 

Varsavia ha affermato che Pawel K. era in contatto con cittadini russi «direttamente coinvolti» nel conflitto in Ucraina. Le autorità polacche sono state informate della presunta minaccia da parte dei servizi di sicurezza ucraini.

 

Zelens’kyj ha detto ai media occidentali che la Russia ha cercato di ucciderlo per anni, con molteplici tentativi sventati dalle sue forze di sicurezza.

 

Tuttavia, l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett ha affermato che il presidente russo Vladimir Putin gli aveva personalmente assicurato nel marzo 2022 che Mosca non avrebbe ucciso lo Zelens’kyj.

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Immagine del 2013 di Utenriksdepartementet UD via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic

 

 

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La Casa Bianca si oppone allo Stato palestinese: documenti trapelati

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Il governo degli Stati Uniti sta esercitando pressioni sui paesi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU affinché respingano la richiesta di adesione a pieno titolo dell’Autorità Palestinese. Lo riporta il sito di giornalismo investigativo The Intercept, citando dispacci diplomatici trapelati.   La testata statunitense ha riferito mercoledì di aver ottenuto copie di cablogrammi non classificati del Dipartimento di Stato americano che contraddicono l’impegno dell’amministrazione Biden di sostenere pienamente una soluzione a due Stati.   Secondo quanto riferito, il Consiglio di Sicurezza formato da 15 membri dovrebbe votare venerdì su un progetto di risoluzione che raccomanda all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, composta da 193 membri, che «lo Stato di Palestina sia ammesso come membro delle Nazioni Unite», il che equivarrebbe al riconoscimento della statualità palestinese, a cui il potere israeliano si oppone da sempre.

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Gli Stati Uniti insistono sul fatto che la creazione di uno stato palestinese indipendente dovrebbe avvenire attraverso negoziati diretti tra Israele e Palestina, e non alle Nazioni Unite. Il presidente Joe Biden ha precedentemente affermato categoricamente che Washington sostiene una soluzione a due Stati e sta lavorando per metterla in atto il prima possibile.   Secondo quanto riferito da Intercept, i dispacci descrivono dettagliatamente le pressioni esercitate sui membri del Consiglio di Sicurezza. Secondo il rapporto, in particolare all’Ecuador viene chiesto di fare pressione su Malta, presidente di turno del Consiglio questo mese, e su altre nazioni, tra cui la Francia, affinché si oppongano al riconoscimento dell’Autorità Palestinese da parte delle Nazioni Unite.   Secondo quanto riportato, il Dipartimento di Stato USA avrebbe sottolineato che la normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Stati arabi è il modo più rapido ed efficace per raggiungere uno stato duraturo e produttivo.   Un dispaccio diplomatico, datato 12 aprile, spiegava l’opposizione degli Stati Uniti al voto, citando il rischio di infiammare le tensioni, reazioni politiche e un potenziale taglio dei finanziamenti delle Nazioni Unite da parte del Congresso americano.   «Vi esortiamo pertanto a non sostenere alcuna potenziale risoluzione del Consiglio di Sicurezza che raccomandi l’ammissione della “Palestina” come Stato membro delle Nazioni Unite, qualora tale risoluzione fosse presentata al Consiglio di Sicurezza per una decisione nei prossimi giorni e settimane», si legge nel dispaccio trapelato.   L’Autorità Palestinese ha presentato domanda di adesione nel 2011, ma la richiesta non è mai stata presentata al Consiglio di Sicurezza. All’epoca, gli Stati Uniti – essendo uno dei cinque membri permanenti del Consiglio – dissero che avrebbero esercitato il loro potere di veto in caso di voto positivo.   L’anno successivo, l’ONU ha elevato lo status dello Stato di Palestina da «entità osservatore non membro» a «Stato osservatore non membro», uno status detenuto solo dallo Stato di Palestina e dalla Città Stato del Vaticano.   Gli sforzi di lobbying da parte degli Stati Uniti indicano che la Casa Bianca spera di evitare un palese «veto» sulla richiesta di adesione dei palestinesi, ha suggerito The Intercept.

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Come riportato da Renovatio 21, secondo quanto emerso nelle scorse settimane la Casa Bianca ritiene che Netanyahu stia deliberatamente «provocando» gli Stati Uniti, tuttavia questo non ferma il favore di Washington nei confronti dell’esecutivo dello Stato Ebraico, il più di destra e religiosamente estremista della storia. A inizio anno il presidente Biden aveva dichiarato solennemente «sono un sionista».   Il Washington Post il mese scorso aveva rivelato che Biden sapeva che Israele stava bombardando indiscriminatamente.   La questione non riguarda solo l’attuale amministrazione Democratica USA: ad un incontro pubblico il genero ed ex consigliere senior per la politica estera di Donald Trump Jared Kushner ha dichiarato che è «un peccato» che l’Europa non accolga più rifugiati palestinesi, suggerendo che la «ripulitura» dei palestinesi dalla Striscia di Gaza dovrebbe essere accelerata.   Come riportato da Renovatio 21, Kushner, che proviene da una famiglia di palazzinari ebrei sostenitori del Partito Democratico e pure tra i primi finanziatori di Netanyahu, avrebbe poi fatto un’agghiacciante dichiarazione sul futuro del mercato immobiliare a Gaza: «Le proprietà immobiliari sul lungomare di Gaza potrebbero essere molto preziose… se le persone si concentrassero sulla creazione di mezzi di sussistenza»   I lanci di aiuti USA nel frattempo, oltre ad aver danneggiato i pannelli solari di un complesso ospedaliero, hanno ucciso almeno cinque palestinesi a Gaza.

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Immagine di Stephen Melkisethian via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic  
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Israele attacca l’Iran

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Israele ha effettuato attacchi in Iran nelle prime ore di venerdì, hanno riferito diversi organi di stampa, citando alti funzionari statunitensi. La notizia arriva meno di una settimana dopo che la Repubblica Islamica ha lanciato una raffica di droni e missili contro Israele.

 

L’agenzia di stampa iraniana Mehr ha riferito che diverse esplosioni sono state udite intorno alle 4 del mattino, ora locale, nei cieli sopra la città centrale di Isfahan.

 

L’emittente IRNA ha affermato che le difese aeree sono state attivate in alcune parti dell’Iran. Ha aggiunto che Israele ha colpito obiettivi anche in Siria e Iraq, colpendo aeroporti militari e un sito radar.

 

Hossein Dalirian, portavoce del programma spaziale civile iraniano, ha scritto su X che diversi droni sono stati abbattuti. Ha aggiunto che non vi è alcuna conferma di un attacco missilistico su Isfahan.

 

Secondo Al Jazeera, l’Iran ha sospeso i voli in diversi aeroporti, compresi quelli che servono Teheran e Isfahan.

 

La CNN ha citato un anonimo funzionario americano che ha affermato che i siti nucleari non sono stati presi di mira.

 

Altre fonti in rete parlano di sette città colpite, comprese fabbriche di armamenti.

 

Video non verificati caricati su internet dai pasdaran mostrerebbero la contraerea iraniana intercettare i missili israeliani.

 


Un altro video circolante in rete mostrerebbe una base militare a Isfahan in situazione di calma e normalità.

 


L’esercito israeliano ha detto all’AFP che «non abbiamo commenti in questo momento» quando gli è stato chiesto delle notizie di esplosioni e attacchi in Iran e Siria. L’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha rifiutato di confermare al Times of Israel che Israele è responsabile delle esplosioni udite a Isfahan.

 

L’attacco è avvenuto, coincidenza, nel giorno dell’85° compleanno dell’ayatollah Khamenei.

 

Secondo il Jerusalem Post, vi sarebbero stati attacchi anche in Siria – dove sarebbero stati colpiti siti dell’esercito siriano nei governatorati di Suwayda e Daraa – ed in Iraq, dove sarebbero state colpite le aree di Baghdad ed il governatorato di Babil.

 

Il 1° aprile, Israele ha colpito un edificio del consolato iraniano a Damasco, in Siria, uccidendo sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). L’Iran ha risposto lanciando droni e missili kamikaze contro Israele il 13 aprile. Le forze di difesa israeliane (IDF) hanno affermato che la maggior parte dei colpi è stata intercettata con successo e ha riportato solo lievi danni a terra. Il costo della difesa per Israele ammonterebbe a circa un miliardo di dollari.

 

Come riportato da Renovatio 21, è emerso che alcuni droni iraniani sono stati intercettati dalla contraerea saudita.

 

Gli attacchi all’Iran, che mirano con evidenza ad un’escalation – visto che Teheran aveva specificato in varie sedi che dopo la sua rappresaglia considerava il caso chiuso – potrebbero avere per il gruppo al comando in Israele anche un preciso fine di politica interna.

 

Secondo il politologo John Mearsheimer «gli israeliani vorrebbero portarci in una guerra con l’Iran… con Hezbollah… Penso che il punto di vista israeliano, nel profondo, sia che quanto più grande è la guerra, tanto maggiore è la possibilità di una pulizia etnica».

 

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Immagine di Clemens Vasters via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

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