Cina
Cina, avvisi e blocchi online sui testi su Lutero e Calvino
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
La denuncia dell’ong evangelica China Aid: a un cristiano cinese che utilizzava il traduttore automatico per leggere informazioni sulla Riforma protestante è arrivato un duro avviso dell’ente per la gestione di internet sulla «necessità di adattare qualsiasi religione al socialismo cinese». Un volto digitale della repressione contro le «chiese domestiche» che non sottostanno al movimento patriottico.
Anche i sistemi on line di traduzione automatica in Cina stanno diventando una nuova frontiera della «sinicizzazione delle religioni», la politica nazionalista imposta da Xi Jinping. A rivelarlo è una denuncia rilanciata da China Aid, organizzazione evangelica attiva sul tema della libertà religiosa in Cina, con un’attenzione particolare alla dura repressione che colpisce le «chiese domestiche», cioè quelle comunità protestanti che non sottostanno alla politica imposta dal Movimento delle Tre Autonomie, l’organizzazione patriottica «ufficiale» controllata dal Partito comunista cinese.
In questi giorni China Aid ha raccontato la storia di un cristiano cinese che ha tentato di utilizzare un motore di ricerca online per tradurre contenuti relativi alla Riforma protestante, in particolare alle figure di Martin Lutero e Calvino. Ma ha ricevuto un avvertimento dall’organizzazione cinese per la gestione delle informazioni sulla rete Internet che lo informava che, quando si traduce un contenuto, bisogna attenersi ai valori fondamentali del socialismo.
«Quando traducono qualsiasi contenuto, i cinesi devono attenersi rigorosamente alle leggi e ai regolamenti nazionali, aderire ai valori socialisti fondamentali, diffondere attivamente l’energia positiva e salvaguardare la sicurezza culturale e ideologica del Paese. Per quanto riguarda i contenuti religiosi, dobbiamo sostenere uno spirito e un atteggiamento scientifico, rispettare la storia e la libertà di credo in contesti culturali diversi».
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«Allo stesso tempo – si legge ancora nell’avvertimento – dobbiamo anche riconoscere con sobrietà che qualsiasi religione deve adattarsi alla società socialista cinese. In Cina, incoraggiamo i gruppi religiosi e i credenti ad amare il proprio Paese e la propria religione, a guidare attivamente le religioni ad adattarsi alla società socialista e a contribuire alla promozione dell’armonia sociale, dell’unità nazionale e della prosperità culturale».
Va sottolineato che il contenuto che il cristiano cercava di tradurre non riguardava affatto questioni legate alla sicurezza nazionale. Si trattava semplicemente di un testo su Martin Lutero (1483-1546), che ne ripercorreva i dubbi personali e le lotte spirituali che portarono a invocare la riforma della Chiesa cattolica, fino ad arrivare alle sue famose tesi. Sembra quindi che il semplice uso di parole come «sfida», «lotta», «riforma» e «autonomia» in un passaggio relativamente breve abbia fatto scattare l’allarme rosso delle parole sensibili negli strumenti di traduzione cinesi.
Inoltre «ci sono tre interi capitoli relativi a Calvino che non possono essere tradotti, con un avviso di rischio di contenuto», ha riferito ancora il cristiano citato da China Aid, il cui nome è stato omesso per evidenti ragioni di sicurezza. In questo caso il sistema ha bloccato completamente la traduzione del contenuto, mostrando un messaggio che diceva: «Errore: Impossibile recuperare i dati dall’interfaccia del motore di traduzione». Anche in questo caso il contenuto della traduzione in questione riguardava una presentazione della vita di Calvino.
In Cina diversi pastori delle «chiese domestiche» che aderiscono alle comunità della Riforma sono attualmente detenuti nelle carceri. Il caso più famoso è quello del pastore Wang Yi della Early Rain Covenant Church di Chengdu, arrestato nel 2018 e condannato a nove anni di carcere.
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Cina
Xinjiang e lavoro forzato: i «passi indietro» in Cina di Volkswagen e Uniqlo
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Le nuove normative sulle catene di approvvigionamento adottate da Stati Uniti e Unione Europea stanno costringendo molte aziende a prendere posizione sulla questione dello sfruttamento degli uiguri. La casa automobilistica tedesca ha venduto «per ragioni economiche» il discusso stabilimento di Urumqi, ma rilanciando i suoi piani commerciali in Cina. Il brand di abbigliamento giapponese: non usiamo cotone dello Xinjiang.
Dopo la BASF anche la Volkswagen ha deciso di lasciare lo Xinjiang, sull’onda delle accuse sull’impiego del lavoro forzato degli uiguri nella costruzione di una pista di prova per le auto. L’annuncio della casa automobilistica tedesca, arrivato ieri, parla ufficialmente di «ragioni economiche» legate al ridisegno della presenza in Cina. Ma segna di fatto una vittoria importante delle associazioni che si battono per la difesa dei diritti della minoranza musulmana, che nella provincia più occidentale della Repubblica popolare da più di dieci anni è oggetto di dure politiche repressive da parte del governo di Pechino.
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Come noto la Cina è un mercato fondamentale per Volkswagen: vi vende attualmente 4 automobili ogni 10 prodotte nei suoi stabilimenti a livello globale. Ma si tratta di una presenza che oggi si trova a fare i conti con lo scontro tra Pechino e l’Unione europea riguardo ai dazi sulle importazioni delle auto elettriche, oltre che con la crisi più generale della Volkswagen.
Quanto poi allo Xinjang la casa automobilistica si sarebbe trovata ora a fare i conti anche con il Regolamento sul lavoro forzato, adottato da Bruxelles lo scorso 19 novembre, che – pur essendo molto meno netto rispetto all’Uyghur Forced Labor Prevention Act in vigore negli Stati Uniti nel 2021 – avrebbe comunque messo in difficoltà lo stabilimento di Urumqi. Anche perché – come scrivevamo già qualche settimana fa – il rapporto commissionato da Volkswagen che avrebbe dovuto provare l’estraneità della consociata locale alle pratiche di lavoro forzato, è risultato essere stato steso in maniera molto dubbia in un posto dove è impossibile indagare liberamente.
Alla fine, dunque, Volkswagen ha deciso di vendere lo stabilimento che su richiesta di Pechino aveva aperto nello Xinjang nel 2012 e la relativa pista: andranno alla SMVIC di Shanghai, una società che si occupa di test sulle automobili prodotte in Cina.
Nel frattempo però è arrivata anche la proroga fino al 2040 della joint-venture con Saic Motor, il partner cinese della casa automobilistica tedesca. L’accordo prevede che entro la fine del decennio arrivino sul mercato 18 nuovi modelli di vetture Volkswagen e Audi, 15 dei quali esclusivi per il mercato locale. Obiettivo: recuperare posizioni tornando a vendere in Cina entro il 2030 quattro milioni di automobili all’anno, una quota di mercato del 15%. Via dallo Xinjiang, dunque, ma non certo dal resto della Repubblica Popolare.
La vendita dello stabilimento della casa automobilistica tedesca non chiude però la questione generale dei sospetti sull’uso del lavoro schiavo degli uiguri in prodotti che inondano i mercati di tutto il mondo. Secondo le denunce della Coalition to End Forced Labour in the Uyghur Region tra gli altri settori pesantemente coinvolti nel fenomeno c’è il tessile, dal momento che nello Xinjang si stima che si concentri il 23% della produzione mondiale di cotone, ma anche la produzione dei pannelli solari e la coltivazione dei pomodori.
Proprio oggi il brand di abbigliamento giapponese Uniqlo ha dichiarato per la prima volta di non far uso nei propri prodotti di cotone proveniente dalla regione degli uiguri. Un passo dettato proprio dalle nuove normative, che stanno costringendo molti gruppi presenti sui mercati internazionali a uscire dall’ambiguità: la legge americana, infatti, chiede alle aziende stesse di provare l’estraneità delle proprie catene di approvvigionamento. E pochi giorni fa l’amministrazione Biden ha inserito altri 29 gruppi che non lo hanno fatto nella lista delle compagnie le cui importazioni sono bloccate negli Stati Uniti.
Complessivamente sono già oltre 100 le aziende escluse dal mercato Usa per il sospetto di utilizzo del lavoro forzato degli uiguri e appartengono a settori che spaziano dall’agricoltura all’industria estrattiva, dalla siderurgia alle tecnologie digitali.
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La dichiarazione di Uniqlo è significativa perché fino ad oggi il suo fondatore e presidente Tadashi Yanai si era sempre rifiutato di rispondere, sostenendo di voler rimanere «neutrale» nella guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. A pesare è anche la forte presenza dell’azienda giapponese sul mercato cinese: Uniqlo ha più negozi in Cina che nel Giappone stesso.
Di qui il timore che una presa di posizione sulla questione dello Xinjiang possa avere contraccolpi con boicottaggi di stampo nazionalista, come capitato ad altri grandi marchi del settore.
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Immagine di Ccyber5 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported
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