Storia
Oltre Panama: storia dell’altro canale interoceanico americano in Nicaragua
Renovatio 21 continua l’approfondimento attorno alla storia del Canale di Panama da parte dello studioso Marco Dolcetta. Un precedente articolo riguardante le origini del Canale, è stato pubblicato da Renovatio 21 pochi giorni fa.
Con l’inizio della grande febbre dell’oro californiana nel 1849, moltitudini di persone cominciarono a spostarsi dalla costa atlantica verso quella pacifica in cerca di fortuna. La Pacific Railroad, il primo collegamento terrestre americano su rotaie, sarebbe stata ultimata solamente nel 1869.
Il grande tycoon Cornelius Vanderbilt, nel 1850, si inventò quindi una altra via oltre a quella di Panama. Sfruttò il passaggio fluviale attraverso il Nicaragua, in grado di accorciare il viaggio di oltre 800 km tra New York e San Francisco che, al contrario di Panama, offriva un viaggio quasi per intero via acqua.
Il collegamento tra i due oceani aveva sempre fatto gola anche all’Inghilterra che, grazie al suo secolare controllo sulle coste caraibiche, cercò di assicurarsi la precedenza sulla costruzione dell’opera fin dagli anni Venti del Diciannovesimo secolo. In quella costa sfociava il rio San Juan, la cui navigazione, operata dalla Accessory Transit Company di Vanderbilt, portava fino al lago di Cocibolca al centro del Nicaragua; da qui, con uno spostamento via terra, si sarebbe raggiunto l’Oceano Pacifico in direzione San Francisco.
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Il tentativo degli inglesi di impossessarsi del porto di San Juan del Norte nel Mar Caraibico, utilizzato dalla compagnia di Vanderbilt, fece scoppiare una crisi diplomatica. Washington cercò e ottenne un accordo con l’Inghilterra attraverso il Trattato Clayton-Bulwer firmato nel 1850. L’obiettivo del patto era vincolare qualsiasi costruzione del canale attraverso il Nicaragua a una gestione congiunta da parte di entrambe le nazioni. Si venne a creare una situazione di stallo che ebbe come conseguenza finale un’inattività decennale pur di non favorire la diretta avversaria.
Nel 1855, però, un avventuriero americano di nome William Walker, assieme a un manipolo di mercenari, venne chiamato in Nicaragua dal partito dei liberali. La Guerra Nazionale nata tra due città rivali che erano già in lotta da decenni, Granada la conservatrice e Leon la liberale, divenne la giustificazione per convocare l’americano in qualità di consigliere militare. Walker trovò, in breve tempo, l’opportunità di prendere possesso del paese e nel 1856 ne divenne il sesto presidente.
La parabola di Walker cominciò però la sua traiettoria discendente quando si appropriò delle navi a vapore di Vanderbilt, mandandone definitivamente in rovina gli affari. Il magnate dapprima si spese verso il governo americano per convincerli a smettere di sostenere l’avventuriero, dopodiché indirizzò i propri sforzi verso gli Stati della vecchia Confederazione del Centro America, con l’obiettivo di creare una coalizione vincente. L’aiuto degli inglesi si rivelò fondamentale nel consegnare le armi pagate da Vanderbilt alle truppe del centro America per liberare il Nicaragua dallo straniero.
Le vicende legate prima al Trattato Bulwer-Clayton e in seguito all’invasione di Walker spinsero il tema della costruzione del canale in un limbo dove rimase fino alla fine del secolo. La grande crisi del 1893 e l’idea che la fine dell’espansionismo avesse spento lo slancio americano venne ripresa da Roosevelt che spinse fortemente per la realizzazione statunitense del passaggio interoceanico a Panama.

Vignetta del 1895 del Minneapolis Tribune che descrive «il prossimo compito dello Zio Sam», ossia l’intervento in Nicaragua per il canale; immagine di pubblico dominio CCO
Il presidente del Nicaragua Zelaya, scottato per non aver ottenuto l’opera nel proprio territorio, cercò appoggi tra Giappone e Germania. Il governo statunitense non tollerò mai la possibilità di un’interferenza esterna in un territorio strategicamente tanto importante. Il canale di Panama era stato aperto al mondo come segno della volontà statunitense di ergersi a garanti del libero commercio, offrendo all’umanità tariffe uguali per tutti. Allo stesso modo però, rappresentando il Nicaragua l’unico altro luogo dove poter costruire un altro passaggio transoceanico, l’opera tarpò le ali a ogni ulteriore progetto nel paese centramericano nelle decadi a venire.
Nel 1912 vennero inviati tremila marine a Bluefields, ufficialmente per proteggere persone e proprietà statunitensi. Zelaya venne sconfitto sul campo, deposto e sostituito con Chamorro, rampollo di un’importante famiglia nicaraguense legata a doppio filo agli Stati Uniti. Il Trattato Bryan-Chamorro venne infine firmato nell’agosto del 1914 e pienamente ratificato nel 1916, consegnando il diritto perpetuo della costruzione del canale in Nicaragua agli Stati Uniti d’America.
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Si può affermare che il Nicaragua avesse anticipato il tema della lotta al comunismo al fianco degli USA rispetto agli altri paesi latinoamericani. L’inizio dell’impegno antibolscevico divenne una realtà in seguito al supporto dato dal Messico rivoluzionario alla fazione liberale durante la guerra civile nicaraguense del 1926 e successivamente contro l’esercito di irregolari guidato da Sandino.
Lo stesso Sandino durante gli anni della sua vittoriosa guerriglia nelle montagne centroamericane, scrisse un testo che inquadrava il trattato Bryan-Chamorro come la base dello sfruttamento del suo Paese. Secondo il generale, per poter il Centro America assieme all’America Latina assurgere ad autonoma realtà politica avrebbe dovuto riprendersi il canale interoceanico e creare una federazione unita da lingua e razza indo ispanica. Infine, l’uccisione di Augusto Sandino nel 1933 decretò la fine della resistenza da parte dei guerriglieri nicaraguensi e la presa del potere da parte della famiglia Somoza grazie all’imprescindibile supporto statunitense.
Il rapporto tra Somoza e gli USA divenne sempre più solido sotto i due mandati Eisenhower, soprattutto grazie all’appoggio dell’allora vicepresidente Nixon con il quale condivideva la stessa visione di lotta al comunismo. Tanta era la vicinanza tra i due che, non appena Nixon divenne presidente, in seguito alla richiesta di Somoza di costruire un nuovo canale per il Nicaragua, si decise di annullare il trattato Bryan-Chamorro, eliminando l’esclusiva statunitense sulla costruzione.
La fine di Somoza venne sempre fatta coincidere dagli oppositori con il terremoto di Managua del 1972, Somoza stesso invece dichiarò che fu decretata dall’avvento di Carter al governo americano. La reale fine della dinastia Somoza ebbe inizio quando Nixon dovette lasciare la poltrona alla Casa Bianca.
In seguito alla vittoriosa rivoluzione Sandinista nel 1979 Somoza fuggì dal Nicaragua. Il timore di Washington che l’effetto domino potesse portare l’entusiasmo rivoluzionario verso gli altri paesi centramericani, venne organizzata dalla CIA una sanguinosa operazione coperta per mantenere il controllo nella regione. L’aiuto di Cuba verso i Sandinisti si manifestò in diversi ambiti, sia civili che militari. Tra questi ci fu il tentativo di ripristinare la strada interoceanica, costruita ancora durante il governo Somoza, nell’ottica di creare un collegamento stabile tra la costa caraibica e quella pacifica.
L’organizzazione paramilitare dei Contras, messa in piedi dalla CIA in Honduras, tra le molte altre cose, si occupò anche di attaccare i cantieri e distruggere i macchinari che avrebbero dovuto completare l’infrastruttura mantenendo i collegamenti tra le coste sempre problematici.
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Daniel Ortega presidente del Nicaragua, nel giorno 22 dicembre 2014, aprì la cerimonia dell’inizio del cantiere che avrebbe portato alla costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua grazie alla concessione dell’appalto ad un fondo di investimenti cinese.
La possibilità di costruire un nuovo canale in Nicaragua è una possibilità teorica grazie anche all’abolizione del trattato Bryan-Chamorro, tuttavia l’operazione mediatica diede il via parallelamente anche a una enorme ondata di proteste antigovernative indirizzate a liberare il Nicaragua dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale.
Nonostante i grandi proclami e la rinnovata attenzione sul tema, il nuovo canale interoceanico non vide mai l’inizio dei lavori. Il miliardario cinese Wang Jing, a capo del Hong Kong Nicaragua Development Corporation (HKNDC) finì per chiudere la compagnia per bancarotta.
Marco Dolcetta Capuzzo
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Immagine di Kaidor via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
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Breve storia dei fratelli Dulles, tra nazismo e CIA
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Il potere della vittima
È riemersa in queste ore una vecchia storia dell’orrore, quella dei «turisti-cecchini» italiani che avrebbero pagato per andare ad uccidere persone a caso nella Bosnia dilaniata dalla guerra degli anni Novanta. «I cecchini del weekend, dall’Italia a Sarajevo per uccidere: “Centomila euro a bambino, safari criminale”» titola Il Giorno.
È la storia, mai del tutto definita, delle «battute di caccia» di crudeli cittadini italiani nel caos sanguinario della fine della Yugoslavia.
«Viaggi in aereo fino a Belgrado, per poi spostarsi in elicottero o con veicoli a Pale e Sarajevo, ma anche a Mostar, altra città della Bosnia-Erzegovina dove secondo alcune testimonianze sono stati notati “tiratori turistici”» scrive il quotidiano, che fa almeno un nome, quello di «Jovica Stanisic, ex capo del servizio di sicurezza della Serbia condannato a 15 anni di carcere all’Aia per crimini di guerra nella ex Jugoslavia», il quale «avrebbe svolto un “ruolo” nell’organizzazione».
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L’articolo parla di esposto di un giornalista italiano alla Procura di Milano, per il quale potrebbe essere ascoltato dal giudice una delle fonti dei virgolettati del pezzo, un ex ufficiale dell’Intelligence militare della Bosnia, cioè il Paese considerato vittima delle violenze dei serbi.
«Per il modo in cui tutto era organizzato – ha spiegato l’ex 007 – i servizi bosniaci ritenevano che dietro a tutto ci fosse il servizio di sicurezza statale serbo e che fosse coinvolto anche il servizio di Intelligence militare serbo con l’assistenza di comandanti serbi nella parte occupata» continua Il Giorno.
La storia raccontata dalla spia militare bosniaca è allucinante: all’epoca, ha raccontato, «condividemmo le informazioni con gli ufficiali del SISMI(ora AISI) a Sarajevo perché c’erano indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste (…) un uomo di Torino, uno di Milano e l’ultimo di Trieste». Nell’esposto, prosegue la testata «si fa riferimento a “soffiate” pure sul tariffario dell’orrore: “i bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis”».
I nomi, tuttavia, non saltano fuori. Un altro articolo sempre de Il Giorno titola «Cecchini del weekend a Sarajevo, l’ex 007 bosniaco: “Il SISMI fu informato e li bloccò. Ma non abbiamo mai ottenuto i nomi”».
Nelle conclusioni fa capolino, d’un bleu, il neofascismo: «la speranza è quella di riuscire a dare un nome agli impuniti “cecchini del weekend” e trovare elementi in grado di portare a una svolta, trent’anni dopo i fatti. Persone vicine ad ambienti dell’estrema destra, che avrebbero agito “con la copertura dell’attività venatoria” e con soldi da spendere». Insomma fascisti abbienti in combutta con i servizi di un Paese post-comunista, per il brivido di uccidere a pagamento.
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Lasciamo alla magistratura il lavoro di accertare i fatti, che sarebbero di gravità rivoltante – notiamo, tuttavia, che a distanza di 30 anni questi ricchi destrorsi potrebbero ora avere quasi ottant’anni (e quindi, potrebbero scampare la galera anche se condannati) oppure essere addirittura deceduti.
Questo rigurgito della guerra yugoslava ci riporta alla mente tante, tantissime cose. Ci ricordiamo quando, all’epoca, eravamo praticamente convinti delle storie degli orchi serbi e dei poveri bosniaci, senza minimamente pensare che si trattasse di propaganda NATO: l’Occidente, secondo un disegno usato più di una volta, voleva spaccare la Yugoslavia cugina della Russia, e, manovra più interessante, creare un piccolo Stato musulmano in Europa.
E ce la fecero: eccoti la Bosnia-Erzegovina (un nuovo Stato talmente autentico da avere un nome duplice, tipo Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Massa-Carrara), con a capo Alija Izetbegović (1925-2003), da giovane membro dei Mladi Muslimani, i «Giovani Musulmani» che volevano un ritorno all’Islam più puro per le genti yugoslave la cui pratica era stinta.
I «Giovani Musulmani» si divisero tra il sostegno alla divisione Handschar delle Waffen-SS, a maggioranza musulmana, o ai partigiani comunisti jugoslavi. Il New York Times sostiene che si sia unito alla divisione Handschar delle SS. Vedendo l’Ucraina odiera sappiamo, tuttavia, che l’Occidente è disposto a chiudere un occhio sulla svastica, se è per dare addosso a nemici della Russia.
Finita la guerra, nel 1946 lo trovano a pubblicare un giornale clandestino chiamato Muzhahid («Mujahiddin») e viene imprigionato per «affermazioni contro l’Unione Sovietica».
Nel 1970, Izetbegovic pubblicò un manifesto intitolato Dichiarazione islamica, in cui esprimeva le sue opinioni sui rapporti tra Islam, Stato e società. Il manifesto fu vietato dal governo, che vi vedeva una cospirazione per l’istituzione di una Bosnia-Erzegovina «islamicamente pura». La Dichiarazione designava il Pakistan come un Paese modello da emulare per i rivoluzionari musulmani di tutta la Terra.
«Non può esserci pace o coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni sociali e politiche non islamiche… lo Stato dovrebbe essere un’espressione della religione e dovrebbe sostenere i suoi concetti morali» scrive ancora il futuro presidente bosniaco, il quale non abbiamo idea di quante foto abbio fatta assieme ai nostri primi ministri, presidente, deputati, etc.
In pratica, un fondamentalista islamico al vertice di un Paese Europeo, creato apposta per lui. Uno Stato Islamico europeo, sia pure senza la boria videomatica che successivamente mostrò l’ISIS, come da disegno del mondo-Clinton. Creiamo un Stato musulmano teoricamente «moderato» (anche se cosparso di integralisti), come spina nel fianco dell’Europa, pronto per fare, alla bisogna delle «cose interessanti».
Per significare queste «cose interessanti» voglio buttare là, così per fare, un paio di volte in cui la narrazione della Bosnia come vittima dei malvagi serbi, qualche volta, anche leggendo i giornaloni, ha vacillato. Per esempio, quando si apprese che l’allora imam della controversa moschea di viale Jenner a Milano finì i suoi giorni in battaglia in Bosnia – e chissà quindi cosa predicava sotto la Madonnina, e chissà chi faceva passare di là, tenendo presente che erano pure gli anni delle infinite stragi islamiche in Algeria.
Vi fu poi l’incredibile storia, circolata su qualche giornale e TV, del villaggio musulmano bosniaco da dove, dieci anni fa, sarebbe partito un commando suicida, poi neutralizzato, intento a fare esplodere Piazza San Pietro durante i funerali di Giovanni Paolo II, incredibile celebrazione dove potevano disintegrare una quantità di Presidenti americani, europei, africani, asiatici più re e regine e perfino il papa successivo. Si parlò di un gruppo chiamato «Gioventù islamica attiva», nome non tanto distante da quello del gruppo del presidente bosniaco mezzo secolo prima.
La storia della Bosnia-pakistana e dei balcani islamici non si fermò a Sarajevo.
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Di lì a poco arrivò il Kosovo, dove si ripeté lo schemino: con la spintarella atlantico-americana, via un pezzo della Yugoslavia, cioè la Serbia, legata ai russi, e avanti con un altro staterello islamico-europeo – il quale sarebbe divenuto, di lì a poco, il primo Paese al mondo per esportazione pro-capite di foreign-fighter ISIS. La guerra del Kosovo fu un’ulteriore galleria dell’orrore, con la NATO che stavolta arrivò a bombardare direttamente Belgrado e oltre, mentre in televisione servivano immagini di un esodo di kosovari musulmani che denunziavano ogni tipo di violenza: ecco, gli islamici yugoslavi erano, ancora una volta, vittime dei serbi.
Non che i serbi non abbiano riflettuto, in qualche modo, su questo schema di vittima-carnefice in cui, per un disegno geopolitico, metapolitico immenso, si sono trovati incastrati.
Lo ha fatto un film che non ho visto, e che non vedrò mai (perché ci tengo all’integrità della mia mente) così come con probabilità non lo vedranno in Spagna, Portogallo, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Brasile, dove la pellicola è stata proibita. Si tratta di un horror intitolato, semplicemente Srpski film (2010), noto internazionalmente come A Serbian film («Un film serbo»).
Quello che so della trama lo devo ad un amico serbo, divenuto poi cittadino italiano, che non c’è più, perché divorato da un turbo male, al cui pensiero ho gli occhi lucidi anche ora mentre scrivo. Lui – che no, non aveva nessun istinto orrendo, essendo una delle persone più buone che abbia mai conosciuto – mi spiegava come questa storia lasciava il segno nella sensibilità serba dopo gli anni di guerra.
La trama del film, che riprendiamo dall’enciclopedia online, vede Milos, un pornodivo ritiratosi a vita privata per stare con moglie e figlio, venga invitato ad una nuova produzione serba per il mercato estero. Il produttore, che offre una quantità di danaro immensa che permette a Milos di risolvere i suoi guai finanziari, specifica nel contratto che il pornoattore non deve sapere nulla del film che sta girando.
Il primo set della misteriosa produzione cinematografica è un orfanotrofio, dove Milos assiste al pestaggio di una ragazzina da parte di sua madre, una prostituta, che poi farà una scena di fellatio con lui dinanzi alla figlia: l’uomo si rifiuta, ma è costretto dai cameraman, e invitato a picchiare a sua volta la donna.
A quel punto Milos, disgustato e sconvolto, decide di non proseguire le riprese e va a parlare con il produttore, che si scopre essere uno psicologo con un oscuro passato in polizia. Il produttore gli spiega che lui stesso, come Milos e tutto il popolo serbo sono «vittime», e la «vittima», dice, è ciò che vende di più. L’uomo quindi mostra al protagonista un filmato ributtante e demoniaco al punto che nemmeno la descriviamo qui. L’attore decide di troncare, ma si sveglia in un letto coperto di sangue: è stato drogato, e ora non trova più la famiglia, e dove erano gli uffici del produttore trova solo cassette in cui egli, sotto l’effetto di una qualche sostanza, stupra, uccide, viene stuprato.
Seguono ancora torture, minacce di castrazioni e scene ancora più intollerabili, con un finale che svela una realtà di orrore davvero abissale. La famiglia…
In fondo alla storia, una scena fa capire che anche quell’abominio è motore per la filiera dei carnefici.
Il mio amico, che diceva non aver retto alla visione di tutto il film, mi raccontava che la pellicola aveva attivato in tanti serbi la realizzazione di essere stati manipolati negli anni della guerra e dell’orrore, un continuum dove forze più grandi, e più oscure, ti spingevano verso questo meccanismo perverso ed incomprensibile… sei vittima… sei carnefice… cosa sei? La pazzia, a questo punto, è una reazione appropriata, ed è forse quello che vogliono: il pazzo è manipolabile, non in grado di unirsi ad altri e opporre resistenza.
Allo stesso tempo, è impossibile non interrogarsi su ciò che il sistema chiama «vittima»: è vittima («scappa dalla guerra») l’immigrato, che a spese nostre spaccia e stupra nella nostra città; è vittima l’omotransessuale (perché indotto ad odiarsi dalla «società omofoba»), che pretende oggi di comprare i bambini e poi farli castrare e riempire di ormoni sintetici; è vittima l’ebreo israeliano (perché «l’Olocausto», «il 7 ottobre, etc.»), che poi compie il massacro robotico automatizzato di decine migliaia di palestinesi, e non sembra nemmeno volersi fermare lì.
Conosciamo la cifra metafisica di questo processo: è la sostituzione dell’Agnello con il caprone infernale. Di Cristo con Bafometto. Il carnefice diviene, per il racconto sistemica, la vittima: ecco spiegato il fascino assoluto per gli accusati di episodi di cronaca nera, che divengono ben più importanti dell’ammazzato, sino a trovare uno zoccolo di opinione pubblica che li ritiene innocenti. Agnelli, appunto.
Abbiamo raccontato qui la trama di un film horror estremo. Il lettore di Renovatio 21 sa, tuttavia, che scene ancora più estreme si sono avute nella realtà – per esempio con il traffico degli organi in Kosovo.
Rammentiamo l’Esercito di liberazione del Kosovo, il gruppo militante kosovaro albanese sostenuto dagli USA clintoniani chiamato UCK (memorabili le immagini alla TV italiana con i miliziani mascherati in stile ETA e le bandiere albanese e statunitense). I membri dell’UCK alcuni dei quali arrivati sono giunti alle più alte cariche del nuovo Stato kosovaro, hanno subito accuse di prelievo illegale di organi, come nel caso del presidente kosovaro Hashim Thaci.
Durante il periodo in cui era a capo dell’Esercito di liberazione del Kosovo, il Washington Times ha riferito che l’UCK finanziava le sue attività con il traffico di droghe illegali di eroina e cocaina nell’Europa occidentale. Secondo Carla Del Ponte, procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia dal 1999 al 2007, civili serbi – tra cui donne e bambini – furono rapiti dall’UÇK e successivamente trasferiti a Burrel, in Albania, dove vennero trattenuti in attesa dell’espianto dei loro organi, destinati a cliniche turche specializzate in trapianti; alcuni subirono più prelievi prima di essere uccisi e fatti sparire.
Le accuse contro Thaci risalgono a decenni fa, e furono formulate da sedi istituzionali come il Consiglio d’Europa di Strasburgo. Un rapporto al Consiglio d’Europa, scritto da relatore presso il Consiglio d’Europa Dick Marty ed emesso il 15 dicembre 2010 afferma che Thaci era il leader del «Gruppo Drenica» incaricato del traffico di organi prelevati dai prigionieri serbi. Come noto ai lettori di Renovatio 21, i trapianti di organo – cioè, la predazione degli organi – possono avvenire solo a cuor battente, e con il ricevente non troppo lontano. Diverse agenzie di stampa internazionali riportarono quindi che in un’intervista per la televisione albanese il 24 dicembre 2010, Thaçi aveva dichiarato che avrebbe pubblicato informazioni sui nomi di Marty e dei collaboratori di Marty. Nel 2011, Marty ha chiarito che il suo rapporto coinvolgeva gli stretti collaboratori di Thaci ma non lo stesso Thaci.
Il 24 aprile 2020, le Camere specializzate per il Kosovo e l’Ufficio del procuratore specializzato con sede all’Aia hanno presentato un atto d’accusa in dieci capi per l’esame della Corte, accusando Thaci e altri di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, sparizione forzata di persone, persecuzioni e torture.
Non si contano le foto dei nostri politici con Thaci, divenuto presidente del neo-Stato kosovaro, scattate con i nostri primi ministri, presidenti, politici – molti dei quali, ancora oggi attivi a sinistra, ebbero un ruolo nella guerra a seguito della quale il Kosovo albanese fu creato, con i caccia statunitensi che partivano dall’Italia…
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Pensate sia finita? Macché: ci è stato servito, in questi anni, un bel sequel. Una bella guerra proxy sostenuta dalla NATO sempre contro i russi, ma stavolta ancora più direttamente: non più i cugini serbi, ma i fratelli ucraini.
Eccoti riservita la sbobba della vittima: Kiev, poverella fra le Nazioni, deve essere sostenuta con miliardi e armi, perché vittima dell’invasione dell’orco russo. Ecco che spuntano fuori stragi compiute dai russi malvagi, come Bucha, di cui per qualche ragione non si parla più: ma lo status di vittima dell’Ucraina, Paese aggredito, rimane inscalfibile, lo dice pure Giorgia Meloni.
Pazienza se la vittima ha, come dire, forti simpatie naziste, si chiude un occhio anche qui. Pazienza pure se – è capitato – emerge pure qualche collegamento con il fondamentalismo islamico. Pazienza se la vittima è accusata di abominevoli torture e di aver compiuto crimini di guerra, di essere un pericolo per gli stessi Paesi che la sostengono. La storiella atlantica va avanti spedita, e comincia a fregarsene platealmente delle vostre dissonanze cognitive.
Quale pensate che sia, anche qui, uno degli effetti collaterali dello schemino geostrategico occidentale? Indovinato: anche qui si è parlato, e plurime volte in questi anni, di traffico degli organi in zona di guerra, con coinvolti, secondo le accuse russe, personaggi israelo-ucraini che avevano già calcato la scena in Kosovo.
Il film dell’orrore lo abbiamo già visto. Sappiamo come va a finire.
È il caso di uscire dal cinema NATO. Al più presto.
Roberto Dal Bosco
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Le profezie di Yuri Bezmenov
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