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Cina

Dietrofront di Pechino sul pesce giapponese: «graduale ripresa» delle importazioni

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Finirà il blocco decretato un anno fa, con l’inizio del rilascio delle acque di Fukushima. Dopo mesi di trattative raggiunta l’intesa su un ulteriore monitoraggio oltre a quello già effettualo dall’AIEA (mentre nessuno può controllare gli scarichi delle centrali nucleari cinesi). La svolta annunciata all’indomani della mortale aggressione a un bambino giapponese di 10 anni a Shenzhen, tragica conferma della pericolosità della propaganda nazionalista contro Tokyo.

 

A poco più di un anno di distanza dal drastico blocco decretato nell’agosto 2023, la Repubblica popolare cinese ha dichiarato oggi che «riprenderà gradualmente» a importare prodotti ittici dal Giappone, archiviando il divieto generalizzato fatto scattare con l’inizio del rilascio nell’Oceano delle acque utilizzate per il raffreddamento della centrale nucleare di Fukushima, dopo l’incidente del 2011.

 

Tokyo aveva dichiarato fin dall’inizio con dati certificati dall’Agenzia atomica internazionale (AIEA) che queste acque – già adeguatamente trattate – non contengono più livelli di radioattività dannosi per la salute. Tesi che un anno fa Pechino aveva duramente contestato sui media controllati dal governo, alimentando quella che sui social-network cinesi è diventata una dura campagna nazionalista anti-giapponese. Alla quale il Giappone aveva replicato ricordando che – a differenza di quanto accade a Fukushima – non esiste alcun dato pubblico sui livelli di radioattività delle acque scaricate in mare dalle centrali nucleari cinesi.

 

Ora, dunque, è arrivato il dietrofront, dopo mesi di trattative su una questione fondamentale per le relazioni economiche bilaterali tra i due Paesi: secondo i dati doganali, infatti, nel 2022 – l’ultimo anno completo prima del blocco – la Cina ha importato dal Giappone prodotti ittici per un valore di oltre 500 milioni di dollari.

 

«La Cina inizierà ad adeguare le misure pertinenti sulla base di prove scientifiche e riprenderà gradualmente le importazioni di prodotti di mare giapponesi che soddisfano i requisiti e gli standard normativi», si legge in un comunicato diffuso del ministero degli Esteri. Da parte sua – continua la nota – il Giappone si è impegnato ad «adempiere agli obblighi previsti dal diritto internazionale, a fare il possibile per evitare di lasciare un impatto negativo sulla salute umana e sull’ambiente e a condurre valutazioni continue dell’impatto sull’ambiente marino e sugli ecosistemi marini».

 

Commentando la nota portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino Mao Ning ha comunque dichiarato che la Cina continua a «opporsi risolutamente» allo scarico delle acque di Fukushima da parte del Giappone, aggiungendo che «questa posizione non è cambiata».

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Contemporaneamente all’annuncio di Pechino, il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha dichiarato che Tokyo ha «informato la parte cinese della sua disponibilità a effettuare un ulteriore monitoraggio delle acque trattate, mentre la parte cinese ha deciso di ripristinare gradualmente le importazioni di prodotti ittici giapponesi che soddisfano determinati standard».

 

Una tragica coincidenza ha voluto che quest’annuncio sia arrivato proprio il giorno dopo la notizia della morte del bambino giapponese di 10 anni accoltellato a Shenzhen in un nuovo attacco contro cittadini nipponici residenti in Cina, avvenuto proprio nell’anniversario dell’incidente che diede inizio nel 1931 all’invasione della Manciuria. A Shenzhen oggi sono state installate telecamere di sicurezza intorno alla scuola giapponese frequentata dal bambino, dopo che Tokyo aveva chiesto maggiore sicurezza.

 

Le autorità locali non hanno ancora rivelato il movente del 44enne arrestato per l’omicidio, ma già ieri il viceministro degli Esteri cinese Sun Weidong aveva sostenuto che l’attacco sarebbe stato un «incidente isolato», commesso da un individuo con precedenti penali.

 

Intanto a Tokyo ieri sera più di 50 residenti cinesi si sono riuniti nel quartiere Shinjuku per ricordare il bambino giapponese vittima della violenza a Shenzhen: hanno deposto fiori e osservato un minuto di silenzio.

 

«Proviamo una profonda tristezza per la vita innocente che ci è stata tolta, frustrazione e rabbia per non aver potuto fare nulla», ha detto l’organizzatore, un uomo di 38 anni che ha lanciato l’idea della manifestazione sui social media.

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di Shawn Harqail via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC 2.0
 

 

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Cina

Cina, Bambini presi di mira da politiche antireligiose

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L’estate del 2025 ha visto una nuova escalation nella sinizzazione delle religioni in Cina. I bambini sono diventati i bersagli preferiti del regime comunista, che organizza attività di propaganda mirate a scoraggiarli dall’aderire a qualsiasi religione che si discosti dai principi decretati dal Partito Comunista sotto l’onnipotente Xi Jinping.   In una preoccupante dimostrazione di propaganda orchestrata dallo Stato, il governo cinese sta ancora una volta rivolgendo il suo apparato ideologico verso i membri più vulnerabili della società: i bambini.   A Shanghai, più precisamente nel distretto di Baoshan, sono state organizzate attività estive per trasformare i giovani in «piccoli guardiani» della comunità, come rivelato dal sito web di notizie Bitter Winter, che si impegna a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla persecuzione della religione, cristiana o di altro tipo, in Cina.   Scoraggiati dall’essere motivati ​​dalla curiosità o dalla compassione, questi bambini indottrinati sono armati di slogan e narrazioni volte a denigrare i cosiddetti gruppi religiosi «illegali», chiamati xie jiao, spesso tradotti come “sette malvagie”, ma che in realtà si riferiscono a organizzazioni religiose non riconosciute dallo Stato e non affiliate al Partito Comunista Cinese (PCC). A partire dall’inizio dell’estate del 2025, i bambini del distretto di Baoshab sono stati mobilitati per distribuire volantini contro gli xie jiao.   Sotto la maschera di concetti come «servizio alla comunità» o «alfabetizzazione scientifica», queste attività sono puro e semplice condizionamento ideologico. I bambini sono incoraggiati a recitare discorsi ostili agli xie jiao, distribuire opuscoli e mettere in scena sketch che demonizzano le minoranze religiose. L’obiettivo è chiaro: instillare fin dalla tenera età una lealtà incrollabile alla dottrina ufficiale di Xi Jinping e normalizzare la repressione di ogni espressione religiosa.   Ciò che colpisce è il tono celebrativo con cui viene presentata questa manipolazione. I contenuti digitali resi pubblici dall’Associazione Cinese Anti-Xie Jiao esaltano la «purezza» della forza dei bambini nel difendere la loro «patria armoniosa». Uno dei momenti più inquietanti della campagna di propaganda è stata l’organizzazione di un processo simulato in una reale aula di tribunale.

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Sotto la supervisione dei giudici, i bambini hanno assunto i ruoli di «giudici», «pubblici ministeri», «imputati» e «avvocati difensori», rievocando con agghiacciante realismo un caso penale in cui i membri degli xie jiao sono stati condannati a lunghe pene detentive.   Presentata come una lezione di alfabetizzazione giuridica, questa performance aveva uno scopo ben più sinistro: radicare nella mente dei bambini una visione di «moralità» definita dallo Stato ed equiparare il comportamento «illegale» all’espressione religiosa.   Gli xie jiao sono da tempo uno strumento utilizzato dalla Cina per delegittimare e criminalizzare i gruppi religiosi che si discostano dalla dottrina ufficiale del PCC. Dal Falun Gong al culto di Dio Onnipotente, fino alle chiese cristiane clandestine, questa etichetta ha giustificato programmi di sorveglianza, detenzione e rieducazione. Coinvolgendo i bambini in questa crociata, lo Stato non solo perpetua la sua repressione, ma ne garantisce anche la longevità.   Per inciso, è comico vedere uno Stato totalitario comunista ufficialmente ateo conferire un attestato di merito alle buone religioni che accettano di sottomettersi ai suoi criteri. Da quando ha stretto la morsa sull’apparato statale cinese, Xi Jinping ha intrapreso una feroce campagna di «sinizzazione» delle religioni che, con il pretesto di acculturare ogni forma di religiosità allo spirito cinese, in realtà si sforza di rendere le religioni sempre più subordinate al PCC e alla sua dottrina.   È in questo contesto di tensione che si pone il dilemma dell’accordo provvisorio firmato nel 2018 tra la Santa Sede e la Cina: uno sforzo per porre fine allo scisma delle consacrazioni episcopali avvenute senza mandato papale per alcuni, e una capitolazione di fronte alle richieste comuniste per altri.   Una questione scottante che, come molte altre, è ora sulla scrivania di Papa Leone XIV.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Cina

COVID, blogger cristiana cinese condannata ad altri quattro anni di carcere

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Una blogger cristiana cinese già condannata a quattro anni di carcere per aver documentato le prime fasi della pandemia di COVID da Wuhan è stata condannata ad altri quattro anni di carcere.

 

Zhang Zhan, 42 anni, è stata condannata in Cina con l’accusa di «aver attaccato briga e provocato disordini», la stessa accusa che ha portato alla sua prima incarcerazione nel dicembre 2020. L’accusa viene spesso utilizzata per perseguire i giornalisti che si esprimono contro il governo cinese o rivelano verità imbarazzanti.

 

Zhang ha pubblicato i resoconti di testimoni oculari di Wuhan sulla diffusione iniziale del COVID-19, compresi video, di strade vuote e ospedali affollati che dimostravano che la situazione a Wuhan era molto peggiore di quanto affermassero le autorità cinesi. I filmati della Zhanga sono stati visualizzati centinaia di migliaia di volte.

 

Il suo avvocato dell’epoca, Ren Quanniu, aveva affermato che Zhan credeva di essere stata «perseguitata per aver violato la sua libertà di parola». Dopo la prigionia, aveva iniziato uno sciopero della fame e fu alimentata forzatamente tramite un sondino.

 

Come riportato da Renovatio 21, cinque anni fa erano emerse notizie della sua cattiva salute e di una sua possibile tortura in carcere.

 

Era stata rilasciata nel maggio 2024. Secondo Quanniu, è stata nuovamente arrestata perché aveva commentato su siti web stranieri, tra cui YouTube e X.

 

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Un portavoce del governo cinese ha dichiarato: «il caso riguarda la sovranità giudiziaria della Cina e nessuna forza esterna ha il diritto di interferire. I suoi diritti legittimi saranno pienamente rispettati e tutelati».

 

«Questa è la seconda volta che Zhang Zhan viene processata con accuse infondate che non rappresentano altro che un palese atto di persecuzione per il suo lavoro giornalistico», ha affermato Beh Lih Yi, direttore per l’area Asia-Pacifico del Comitato per la protezione dei giornalisti con sede a Nuova York.

 

«Le autorità cinesi devono porre fine alla detenzione arbitraria di Zhang, ritirare tutte le accuse e liberarla immediatamente». La Cina costituisce la prigione per giornalisti più grande del mondo. Si ritiene che attualmente vi siano detenuti oltre 100 giornalisti.

 

Come riportato da Renovatio 21, il nuovo processo era iniziato sei mesi fa.

 

Prima della pandemia di COVID, l’attivista e giornalista cristiana era già stata arrestata nel settembre 2019 per aver sfilato con un ombrello su Nanjing Road a Shanghai, in segno di solidarietà con le proteste di Hong Kong. Con le prime notizie della pandemia, si era recata a Wuhan per documentare gli eventi, pubblicando circa cento video in tre mesi e rispondendo alle domande di media internazionali. Arrestata nel maggio 2020, è stata la prima blogger a essere condannata per le informazioni diffuse sulla pandemia.

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Immagine screenshot da YouTube

 

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Cina

Trump blocca l’accordo sulle armi con Taiwano

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di non approvare un pacchetto di armi destinato a Taiwan. Lo riporta il Washington Post, che cita cinque fonti informate.   Il giornale ha collegato questa scelta ai tentativi di Trump di negoziare un accordo commerciale con Pechino e al possibile incontro con il presidente cinese Xi Jinping, previsto a margine del vertice APEC in Corea del Sud il prossimo mese.   Il pacchetto di armi, valutato oltre 400 milioni di dollari, è stato descritto come «più letale» rispetto alle forniture precedenti. Secondo il WaPo, il team di Trump ritiene che Taiwan dovrebbe procurarsi autonomamente le proprie armi, in linea con l’approccio «transazionale» del presidente in politica estera. Un funzionario della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che la decisione non è ancora definitiva.

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Pechino, che considera Taiwan parte integrante del suo territorio, si oppone fermamente a qualsiasi assistenza militare straniera a Taipei. Xi ha ribadito che la Cina punta a una riunificazione pacifica, ma non esclude l’uso della forza.   A dicembre, il ministero degli Esteri della Repubblica Popolare ha ammonito Taipei, avvertendo che «cercare l’indipendenza appoggiandosi agli Stati Uniti o con mezzi militari è una via verso l’autodistruzione».   Il ministero della Difesa di Formosa ha scelto di non commentare il rapporto, ma ha sottolineato che «Taiwan e Stati Uniti mantengono una stretta cooperazione in materia di sicurezza, con tutti i programmi di scambio che procedono regolarmente per rafforzare un sistema di difesa completo».   Negli ultimi anni, Washington ha autorizzato diverse vendite di armi a Taiwan, inclusa la fornitura di sistemi missilistici di difesa aerea NASAMS.   Ancora lo scorso dicembre il presidente della Cina comunista Xi Jinpingo ha dichiarato ancora una volta che la riunificazione con l’isola di Taiwano è un processo inarrestabile.   Come riportato da Renovatio 21, anche nel discorso di fine anno 2023 lo Xi aveva dichiarato che la riunificazione con Taipei è «inevitabile». Un anno fa, tuttavia, Xi non aveva fatto menzione della forza militare. Il mese prima, il governo cinese aveva epperò chiarito che una dichiarazione di indipendenza da parte di Taipei «significa guerra».   Sinora, lo status quo nella questione tra Pechino e Taipei è stato assicurato dal cosiddetto «scudo dei microchip» di cui gode Taiwan, ossia la deterrenza di questa produzione industriale rispetto agli appetiti cinesi, che ancora non hanno capito come replicare le capacità tecnologiche di Taipei.
  La Cina, tuttavia, sta da tempo accelerando per arrivare all’autonomia tecnologica sui semiconduttori, così da dissolvere una volta per tutte lo scudo dei microchip taiwanese. La collaborazione tra Taiwan e UE riguardo ai microchip, nonostante la volontà espressa da Bruxelles, non è mai davvero decollata.

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Come riportato da Renovatio 21, il colosso del microchip TSMC ha dichiarato l’anno scorso che la produzione dei microchip si arresterebbe in caso di invasione cinese di Formosa.   I microchip taiwanesi sono un argomento centrale nella attuale tensione tra Washington e Pechino, che qualcuno sta definendo come una vera guerra economica mossa dall’amministrazione Biden contro il Dragone, che riprendono politiche della precedente amministrazione Trump.   Come riportato da Renovatio 21, durante il suo discorso per la celebrazione del centenario del Partito Comunista Cinese nel 2021 lo Xi, mostrandosi in un’inconfondibile camicia à la Mao, parlò della riunificazione con Taipei come fase di un «rinnovamento nazionale» e della prontezza della Cina a «schiacciare la testa» di chi proverà ad intimidirla.  

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  Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia  
 
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