Pensiero
«Phantom pain»: la tragedia dell’elettore fantasma, da Di Maio a Calenda
Più guardo al panorama politico che si avvia alle elezioni, più sento un peso tragico posarsi sulla mia mente per farmi cadere le braccia e non solo quelle.
Sento già chi mi corregge: maddai, con la torma scappati di casa, descritti nell’articolo di due giorni fa, la situazione è semmai tragicomica, più che tragica.
Invece io sento proprio dolore e tristezza, ancorché poco catartici. Un dramma, allora, diciamo così.
L’evento più drammatico di queste settimane è stato a mio giudizio la quantità di storie attorno a Di Maio. Un rapido susseguirsi al limite del surrealismo.
Eccolo che si ferma all’ineffabile distributore politico-simbolico di Tabacci, così da saltare quella cosa delle firme: il partito nuovo è pronto, sul simbolo c’è un’ape. Neanche il complottista più zelota pensa all’alveare come simbolo massonico, perché tutti sappiamo che non c’è il livello. Tutti invece si accorgono dell’impagabile effetto rebus: è l’Ape Maio. Tutti se ne accorgono, tranne lui, forse, che magari è troppo giovane per ricordare l’infame insetto giapponese propalato dalla RAI.
Ma la spinta bestiale forse è più concreta del previsto.
Questa è di poche ore fa: «è in corso un’interlocuzione con i vertici di Impegno Civico per definire insieme una proposta concreta che caratterizzi Impegno Civico oltre che per la sua sensibilità ambientale anche per una sensibilità animalista», annuncia la Presidenza del Partito Animalista Italiano. In pratica l’Ape Maio tratta con il mondo-animal, del resto si era detto animalista quando da capo della diplomazia italiana – sì – insultò Putin in diretta TV, dicendo che era «più atroce di un animale», qualsiasi cosa voglia dire.
Tuttavia, la riflessione tremenda che si impone riguarda gli esseri umani, o meglio la mancanza di essi.
Ora, si è scritto a lungo della trasformazione del ragazzo partenopeo in una figura di caratura democristiana. «Trasformazione» è la parola sbagliata: quando nel 2013 per la prima volta lo vedemmo distribuire televisivamente le frasi fatte a braccia conserte, completo importante e taglio di capelli freschissimo, avevamo già capito quasi tutto.
I vecchi democristiani erano viscidi, sì. Erano furbi, calcolatori. Non avevano ideali, se non la spartizione del potere, il tirare a campare di elezione in elezione, mercanteggiando la morale e l’interesse del popolo, l’onore e la vita umana (le leggi su aborto, divorzio e financo, in fase post-mortem partitica, sulla fecondazione in vitro, le hanno prodotte personaggi DC).
I democristiani potevano permettersi di chiedere, e sgomitare nella riffa del potere, perché avevano qualcosa di importante, innegabile, insostituibile: avevano i voti.
Dietro a ogni deputato, soprattutto dietro a ogni politico di rilevanza, c’era una quota certa, inattaccabile, di elettori del territorio. Il feudo elettorale: c’era, eccome.
Prendete Andreotti: nella circoscrizione XIX Roma Viterbo Latina Frosinone prendeva centinaia di migliaia di voti. Se li meritava: perché non erano preferenze che scattavano per sindrome da cartellone, persistenza TV, o soggezione del feudatario. No: come noto, e reso bene nel brutto film di Sorrentino Il divo, Andreotti riceveva uno ad uno i suoi elettori, dal più povero al più criminale, a cui pagava talvolta l’avvocato. Riceveva, come un professore universitario, come un vescovo serio che dà udienza ai fedeli. Il 14 giugno 1987 nel suo feudo ciociaro, Belzebù beccò 329.599 preferenze.
Questo discorso possiamo farlo per tantissimi altri politici di DC. Infinite serie di mani strette ad infinite sagre, campanelli suonati in tutte le strade, nomi di famigli minorenni e ottuagenari imparati a memoria per avere quel singolo voto…
Nella mia ingenuità, avevo pensato che Di Maio avesse speso questi 10 anni per crearsi a Pomigliano e dintorni una dimensione di questo tipo. Immaginavo che, con tutto quel ben di Dio di potere che gli è capitato addosso, avesse investito tempo, risorse ed arguzia per democristianizzare il suo feudo. Del resto, avevo visto i servizi de Le Iene sui suoi compagni di liceo (perché l’Università non l’ha fatta, e va bene) finiti tutti in alto, in altissimo, perfino nei board delle immense multinazionali parastatali che vendono aerei, etc.
Chi può, nella zona, non votarlo? Mi ero detto. Intorno a lui, mi avevano raccontato, si erano assiepati tutta una serie di personaggi, nella politica e nell’amministrazione, ciascuno proveniente da quelle ridenti terre subvulcaniche.
Dove immaginare il mio shock quando saltò fuori che, invece che candidarsi a casa sua, si parlava di farlo candidare – per il PD – a Modena.
Eh?
I giornali fecero subito i titoli su Bibbiano: lui, quello che tuonò «partito di Bibbiano» dicendo che faceva «l’elettroscioc ai bbambini» dicendo che mai si sarebbe alleato con loro (salvo poi farci il governo Conte 2 pochi giorni dopo), candidato proprio lì? Il PD di Bibbiano, dove il partito alle ultime regionali è passato dall’80% a «appena» il 60%, ha fatto sapere che aspetta ancora le scuse.
A me è venuta in mente un’altra cosa: che a Modena, l’ultima volta, paracadutarono un ulteriore personaggio interessante con un suo partitello: Beatrice Lorenzin. Lo ricordo bene, perché a poche ore dal silenzio elettorale, Renovatio 21 fece una conferenza per pregare i modenesi di attaccarsi al telefono e chiedere ai parenti piddificati di non votare la ministro vaccinale. Aveva nevicato pazzamente, quella sera, ma la sala era comunque strapiena.
Non servì a nulla: il voto robotico piddinoide, infallibile, fece passare la Lorenzin, che, appena eletta, andò in visitaa Modena per ringraziare, e, profonda conoscitrice del territorio, davanti ad una foto di Enzo Ferrari chiese se quello fosse Gino Paoli. Altro che Andreotti.
Avevo chiesto a un amico avvocato di Modena se una scena del genere si potrebbe ripetere. Mi è stato risposto: «certamente».
Apprendiamo che anche questa prospettiva è sfumata. Non si sa bene perché, ma invece che incistarsi con il PD, ora pare che Giggino voglia correre da solo all’uninominale. Forse addirittura in Campania, a casa sua.
Dicono che ora che Calenda se ne è andato (ci arriviamo fra un attimo), per Di Maio la situazione «riapre i giochi. Non solo per il leader, ma anche per 3-4 fedelissimi, vedi l’ex ministro Vincenzo Spadafora, coordinatore politico del neo-nato partito dell’ape. Tutti tornano in ballo per un seggio quasi blindato».
Eh?
«3-4 fedelissimi»?
Fateci capire, Di Maio si disse che, per far continuare il governo del Draghi (bel lavoro, riuscito), aveva portato via qualcosa come 60 deputati e 11 senatori.
Quindi, tutta quell’intrepida truppa che ha tradito il partito e l’elettore grillino, lo ha fatto senza nemmeno lo straccia di una poltrona per uno su dieci? Forse nemmeno quelli?
Sì, perché tutti questi calcoli sono stati presi senza lontanamente considerare una variante importante: i voti.
Non importa che voti prendi, dove ti candidi, etc.: importa solo il paracadute nel collegio giusto; importa, cioè, un accordo preso nel segreto del palazzo, senza considerare nemmeno lontanamente l’elettore.
È un assunto dello Stato moderno: l’elettore, come Dio, è morto. Si può, al massimo, dover esperire la persistenza del suo fantasma. Tuttavia, il politico sa che esiste una grande, costante operazione di esorcismo nei confronti dello spettro: dalla UE a Mario Draghi, dalla NATO alla Troika, dalla censura social alla legge elettorale, tutto è predisposto per scacciare l’ectoplasma dell’elettore qualora esso appaia dopo che ha dato il voto.
Di Maio non ha voti. Non li ha per i suoi fedelissimi, che lo hanno seguito a caro prezzo. Non li ha forse neanche per lui. Soprattutto, mi sconvolge che non li abbia neanche a casa sua.
Sono un naif.
Tuttavia, avevo osservato questo schema anche con un altro personaggio di cui per motivi misteriosi si parla in continuazione: Carlo Calenda.
Sono anni che, quando vedo Calenda sui giornali, non capisco bene di cosa si tratti.
Prima di Renzi, non lo avevamo mai sentito. Uscì dal cappello del tizio di Rignano nel 2016: fu nominato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione Europea, in pratica euroambasciatore d’Italia. Gli ambasciatori, quelli veri, si incazzarono, e in massa. Il tutto durò 20 giorni: Renzi riportò il personaggio a Roma per dargli un ministero importantissimo, quello dello Sviluppo Economico.
Ma chi era questo tizio? Cominciarono a fioccare biografie, interviste, agiografie di ogni sorta. Pariolino, anzi, del rione Prati. Figlio della regista Cristina Comencini quando aveva 16 anni, quindi nipote del regista Luigi Comencini, per cui il Carlo reciterà da bambino nello sceneggiato Cuore, dal libro del massone De Amicis. Fa una figlia, anche lui a 16 anni, con la segretaria del compagno produttore della madre, poi va a lavorare in Ferrari con Montezemolo.
Da lì, passando per Confindustria, ce lo ritroviamo al governo: vicesegretario al MISE di Letta, e pure in quello di Renzi. Diventa ministro quando Federica Guidi finisce nello scandalo di intercettazioni che coinvolge il fidanzato (il caso «Tempa Rossa»).
Rimane in sella al MISE perfino con Gentiloni. Non siamo sicuri che al MISE abbiano pianto quando è andato via. Tuttavia ricordiamo i suoi discorsi paternalistici agli operai durante dei tour che faceva da ministro nelle fabbriche.
Da dove viene questa ascesa inarrestabile? Non sappiamo dirlo.
Nel 2012, aveva firmato il manifesto dell’Associazione Italia Futura, che doveva essere l’embrione del partito del suo boss Montezemolo: non si andò da nessuna parte.
Nel 2013 si candidò in Lazio, casa sua, per Scelta Civica, il partito di Monti: trombato, nonostante il partito, ora biodegradato (lo chiamavano, infatti, «Sciolta Civica») avesse preso un ragguardevole 8,3%.
Nel 2015 aveva detto che lasciava Scelta Civica per iscriversi al PD. «Tale annuncio non ha però avuto seguito», scrive Wikipedia.
Nel 2019, tuttavia, il PD gli fa comunque un bel regalo: primo nella lista alle Europee nella circoscrizione Nord Est, che vuol dire Veneto, Trentino, Friuli-Venezia Giulia e soprattutto Emilia-Romagna. Maree di voti assicurati, e un posto nel listino dove spingono miriadi di politici locali piddini, magari di quelli che hanno fatto per anni anni un egregio lavoro come sindaci, portando voti al partito. (Ne conosciamo qualcuno)
Non importa: deve passare Calenda, che poco dopo però lascia il partito, perché irritato dall’alleanza PD-M5S. Si tiene ovviamente la poltrona da europarlamentare.
Lancia suo partitino, «Siamo Europei», a cui farà a stretto giro un rebranding: ecco il partito Azione.
Nel 2020 si candida a sindaco di Roma, arriva terzo.
Non importa, lui prosegue imperterrito la sua cavalcata spavalda sui media, attacca tutti, i sovranisti, i grillini, i suoi giovani candidati con il Rolex, se stesso («per 30 anni ho ripetuto cazzate sul liberismo»), si mostra mezzo nudo (lui!) mentre fa il bagno in un elegante laghetto di montagna, si presenta scravattato e a volte con vestiti che pare tirino, è disinibito a livelli olimpionici.
In tutta questo, pare chiare che, a parte il voto robotico piddino dell’Emilia-Romagna, è tutto meno che certo che questo personaggio abbia mai avuto con sé e il suop partitello un singolo elettore.
Calenda non esiste: per questo era perfetto per il PD.
È umiliante, anche per chi crede che il Paese possa essere salvato solo previa deppidificazione, vedere il segretario PD Letta implorare Calenda, vellicarlo, accarazzerlo per poi essere tradito, e piagnucolare, fino al punto di dire – a pochi giorni dalle elezioni – di aver sbagliato ed essere pronto quindi a dimettersi: per Calenda.
Qualcosa, ripeto, ci sfugge. Calenda, che voti ha? Il partito che discende da Gramsci e Togliatti, che motivo ha di tenerlo con sé?
Ci sono delle entrature di Calenda che non conosciamo, e che spingono i Letta e le Bonino a volerlo a tutti i costi, e a piangere disperati se lui se ne va, peraltro senza pagare il conto e pure insultando («hanno voluto l’ammucchiata, perderanno»)?
È una cosa che non sappiamo dire. La sicumera di Calenda, uno che avrebbe fatto il gagà sprezzante anche sul Titanic inclinato a 70°, rimane per noi un mistero.
Ci è chiaro invece in tutta questa operazione che riempie i giornali manca, come per Di Maio, un fattore in teoria importante: i voti. Gli elettori. Il popolo italiano. Quella roba là…
L’elettore è un fantasma, di quelli che non fanno neanche paura. Perché lo Stato-partito, come abbiamo detto, vive in un mondo di esorcicci e di Ghostbusters fenomenali e transnazionali, di quelli che i fantasmi sono in grado di farli sparire anche quando per due anni ogni sabato riempiono le piazze urlando contro il potere e la sua apartheid biotica.
Dicevamo, l’elettore è morto. Hanno ragione di pensarlo: come zombie, milioni di persone voteranno quel che vorrà il PD. Altri zombie voteranno Fratelli d’Italia, anche se è la scelta che è contro l’interesse dell’elettore: più armi all’Ucraina, meno gas, più vaccini… un PD con la Meloni sopra.
Vivono di questa certezza. La democrazia è finita. La Costituzione, a cui adesso ridicolmente si appellano, è stata annichilita – lo sanno, questo è un mondo post-costituzionale, post-democratico. Post-umano. Le elezioni sono un rito vestigiale, una stantia cerimonia aritmetica attraverso cui il potere accetta ancora di dover passare, nella sicurezza, però, che le cose importanti saranno conservate integre, e l’agenda prosegue come previsto, come pagato tramite l’interno immane poltronificio.
Il quale poltronificio è pure cambiato radicalmente, quantomeno nel numero: dobbiamo ancora, tutti, ben comprendere cosa significa avere ora la metà dei rappresentanti. Cosa significa per le dinamiche dei partiti, cosa significa per quelle sigle, che come abbiamo visto sono tante e grottesche, che aspirano ad arrivare in Parlamento.
I deputati di Di Maio, di Conte, di Letta etc. hanno votato più che la loro stessa fine (come abbiamo visto sopra, nemmeno i seggi per i fedelissimi…), per la castrazione elettorale del popolo italiano. E questo non è drammatico, è, come tutte le storie in cui esce il sangue, propriamente tragico.
Il Parlamento è stato amputato, reciso dal corpo che dovrebbe rappresentare. Succederà, al massimo, che sarà inviato qualche segnale da «phantom pain»: il «dolore dell’arto fantasma» che provano i mutilati per membra che non hanno più. Il potere legislativo è oramai quindi un «arto fantasma» a tutti gli effetti, separato con la lama dal corpo del popolo.
È il caso di dire: vi hanno fatto a pezzi.
Ecco perché oggi si permettono di parlare di Calenda, di Di Maio, del niente.
Perché la Repubblica Italiana ha oramai ben poco a che fare con le schede elettorali. Perché il lavoro di desovranizzazione politica intentato contro il popolo – attaccando anche la sovranità economica, famigliare, biologica – è oramai completo.
Vi hanno squartati, e ridotti a fantasmi.
Siete pronti per le urne.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Vi augurano buona festa del lavoro, ma ve lo vogliono togliere. Ed eliminare voi e la vostra discendenza
Buona festa dei lavoratori! Ve lo ripetono da tutte le parti, del resto è una festa importantissima per la Repubblica: il Venerdì Santo, il giorno in cui Dio muore per l’umanità secondo quella che in teoria è la religione maggioritaria del Paese, si lavora. Il giorno dei morti, pure. Il Primo maggio, invece, no: vacanza.
Questo basterebbe a far comprendere qual è la vera religione che lo Stato italico vuole imporre alla sua popolazione – del resto, il suo libro sacro, la Costituzione, scrive al suo primo articolo che la Repubblica stessa è fondata sul lavoro – espressione incomprensibile, se non comprendendo la smania sovietica che avevano i comunisti e la sciocca acquiescenza dei democristiani che glielo hanno lasciato scrivere, accettando pure di lasciare fuori dalla Carta la parola «Dio».
Il dio della Costituzione, il dio della Repubblica è il lavoro?
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La divinizzazione politica di un concetto astratto, di un’attività umana, non solo l’indice della volontà di laicizzazione dello Stato. Poggia, essenzialmente, nel rigetto di avere per la cosa pubblica il fondamento del Cristianesimo.
Non è un caso che la festa del dio-lavoro avvenga l’indomani della notte di Valpurga, ritenuta nei secoli un momento di vertice dell’ attività del male sulla Terra – in genere, su Renovatio 21, facciamo ogni anno un articolo sull’argomento, annotando gli eventi concomitanti. La realtà è che la festa del Primo maggio è un tentativo di inculturazione, o meglio, di reintroduzione di usanze pagane – in particolare la festa celtica chiamata Beltane, di cui parla anche J.G. Frazer nel suo studio su magia e religione dell’antichità europea Il ramo d’oro.
La prima menzione di Beltane è nella letteratura irlandese antica dell’Irlanda gaelica. Secondo i testi altomedievali Sanas Cormaic (scritto da Cormac mac Cuilennáin) e Tochmarc Emire, Beltane si teneva il 1° maggio e segnava l’inizio dell’estate. I testi dicono che, per proteggere il bestiame dalle malattie, i druidi accendevano due fuochi «con grandi incantesimi» e guidavano il bestiame in mezzo a loro.
La vulgata progressista del Primo maggio, nata nel secondo Ottocento, si attacca quindi a questo sostrato antico, non cristiano, alla guisa di come ha fatto la Chiesa con alcune festività nel corso dell’anno.
Quindi: un nuovo dio, una nuova religione. Ma il problema è che neanche i suoi stessi sacerdoti ci credono. I loro discorsi – i loro incantesimi – sono inganni, sempre più infami, sempre più ridicoli.
Abbiamo sentito ieri il segretario generale CGIL Maurizio Landini dichiarare che «il governo Meloni difende il fossile e nega il cambiamento climatico, come si può pensare di cambiare modello di produzione?». Lo ha detto ad un evento dell’«Alleanza Clima Lavoro», di cui apprendiamo l’esistenza. Stendiamo un velo pietoso sull’attacco ai combustibili fossili, che fossili non sono (no, il petrolio non è succo di dinosauro!), che dimostra un allineamento con i gruppi ecofascisti più estremi e grotteschi visti negli ultimi anni – e pagati da chi, possiamo intuirlo.
Quindi: prima il «clima», poi i lavoratori. L’intero sistema industriale va cambiato per favorire l’ambiente, non l’uomo che lavora: conosciamo questa solfa, ora condita automaticamente dal terrorismo climatico. Si tratta di un’idea che avanza da tanto tempo, e si chiama deindustrializzazione.
Come abbiamo ripetuto tante volte su questo sito, la deindustrializzazione altro non è che deumanizzazione. Cioè, riduzione non dei lavoratori, ma della quantità stessa di esseri umani che camminano sul pianeta. Ciò era chiaramente esposto nelle opere di Aurelio Peccei e compagni oligarchi, quando l’élite – la stessa che stava dietro al Club di Roma, Club Bilderberg, WWF, etc. – cominciò a lavorare decisamente alla riduzione della popolazione.
Non è possibile diminuire il numero di esseri umani sul pianeta se si continua a produrre. Perché l’industria – il lavoro – dà cibo, e il cibo dà la vita, e la vita si moltiplica. La filiera dell’essere deve essere interrotta, molto prima. Niente industria, niente lavoro, niente vita. Niente persone. Niente umanità. Ora potete capire da dove vengono la povertà e la fame, che sembrano di ritorno anche nel Primo Mondo.
In alcuni testi risalenti a più di mezzo secolo fa, la cosa era messa nera su bianco: avrebbero creato deliberatamente un concetto prima sconosciuto, quello di inquinamento, per avere uno strumento di controllo del comportamento di popoli e Nazioni. Se ci pensate, anche questa è una scopiazzatura del cattolicesimo: non il peccato, ma l’impronta carbonica. Non il peccato originale, ma l’essere umano in sé, alla cui nascita c’è già un debito ecologico personale importante. Non la Santa Trinità, non l’Incarnazione, ma Gaia, dea terrifica che si fa pianeta.
Non ci sorprende, ma nondimeno continua a riempirci di orrore, vedere che chi è pagato per difendere i lavoratori è in realtà alleato delle forze che ne vogliono l’eliminazione. Lo aveva capito, con decenni di anticipo, il filosofo marxista Gianni Collu, che nel libro Apocalisse e rivoluzione notava che il paradigma non era più quello rivoluzionario della crescita operaia, cioè industriale, ma quello di una contrazione dell’intera società produttiva.
In pratica, Collu aveva compreso che stava venendo innestato, specie presso partiti, sindacati, intellettuali di sinistra, l’odio per l’uomo – in una parola, era stata avviata la Necrocultura. Non per niente il filosofo cominciò a scoprire, e rivelare, l’interesse crescente che molti circoli goscisti cominciavano a sentire verso un tema divenuto tabù nei millenni cristiani, cioè il sacrificio umano.
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Ora, guardate celebrare il vostro lavoro da chi è inserito, con stipendio, nel disegno per togliervelo – ed eliminare la vostra esistenza e la vostra discendenza. Non dobbiamo ricordare qui gli sforzi, fatti anche in sede europea, che i sindacati hanno fatto per il feticidio.
Nessuno dei vostri lavori è al riparo dal disegno mortale che avanza: se vi hanno detto che imparando a programmare avreste avuto sempre lavoro, provatelo a ripetere alle migliaia di licenziati alla IBM, come in tantissimi altri colossi tecnologici, sostituiti dall’Intelligenza Artificiale.
Nessuno è al sicuro: i grafici, cosa pensano di fare davanti alla presenza di incredibili programmi text-to-image, dove digiti cosa vuoi vedere e ti viene servito in un’immagine perfetta?
Attori, registi, produttori cinetelevisivi, cosa potranno di fronte ai software come Sora di ChatGPT, che promette di generare sequenze video a partire da semplici richieste? Sappiamo che l’ultimo sciopero ad Hollywood verteva su questo, e che già operano società di computer grafica talmente ultrarealista da aver disintermediato regioni immense della filiera.
Domani, cioè già oggi, tocca agli insegnanti. Ai bancari. Ai lavoratori dei fast food. A qualsiasi lavoratore. Alla realtà stessa.
Tuttavia, notatelo, nessun sindacato parla di fermare l’Intelligenza Artificiale. Vi parlano di cambiamento climatico, combustibili fossili, etc.
Lo fanno dopo aver assistito all’assassinio, con il green pass e l’obbligo al vaccino genico, dell’articolo 1 del loro libro sacro, il dogma primigenio della loro religione: ve lo abbiamo detto, non ci credono nemmeno loro.
E quindi, se anche quest’anno un boss sindacale, dinanzi al milione di ebeti ammassati per il concertone del Primo maggio, dovesse d’improvviso farsi scappare di nuovo l’espressione «Nuovo Ordine Mondiale», beh, sappiamo bene di cosa si tratta.
Non c’entrano le ricorrenze druidiche primaverili, qui siamo altrove nel calendario, in un’altra festa importante: sotto sotto, negli auguri ai bravi lavoratori, vi stanno dicendo che arriva il Natale. E che voi siete i tacchini.
Buon lavoro.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo
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Pensiero
«Preghiera» pagana a Zeus ed Apollo recitata durante cerimonia di accensione della torcia olimpica. Quanti sacrifici umani verranno fatti, poi, con l’aborto-doping?
All’inizio di questo mese, il rituale dell’accensione della torcia olimpica – di fatto la prima cerimonia dei Giochi Olimpici – si è tenuta ad Olimpia, in Grecia, presso l’antico tempio di Era, la moglie di Zeus, padre degli dei greci detti, appunto, olimpici. Lo riporta LifeSite.
Accompagnata da uno stuolo di vestali per qualche ragione tutte bianche, l’attrice greca Mary Mina ha interpretato il ruolo di «alta sacerdotessa» che aveva funzione, tra le altre cose, di offrire una «preghiera» agli dèi olimpici.
«Apollo, dio del sole e dell’idea della luce, invia i tuoi raggi e accendi la sacra fiaccola per la città ospite», cioè Parigi. «E tu, Zeus, dona la pace a tutti i popoli della terra e incorona i vincitori della corsa sacra».
🗣️ “Apollo, God of sun, and the idea of light, send your rays and light the sacred torch for the hospitable city of Paris. And you, Zeus, give peace to all peoples on earth and wreath the winners of the Sacred Race.”#Paris2024 | @Paris2024 pic.twitter.com/FHMEmJ134U
— The Olympic Games (@Olympics) April 16, 2024
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Il Comitato Olimpico Ellenico organizza l’evento, che ha una durata di circa 30 minuti, ed elenca sul suo sito il resto dell’«Invocazione ad Apollo».
Silenzio sacro
Risuonino il cielo, la terra, il mare e i venti.
Le montagne tacciono.
I suoni e i cinguettii degli uccelli cessano.
Per Febo, il Re portatore di Luce ci terrà compagnia.
Apollo Dio del sole e dell’idea della luce
manda i tuoi raggi e accendi la sacra fiaccola
per l’ospitale città di…
E tu Zeus dona la pace a tutti i popoli della terra e
incorona i vincitori
della Razza Sacra
Il gruppo spiega che la prima cerimonia di accensione della torcia ebbe luogo nel 1936 con «l’alta sacerdotessa Koula Pratsika, considerata una pioniera della danza classica in Grecia e fu la prima coreografa della cerimonia di accensione». La Pratsika nell’ambito dei celeberrimi Giochi di Berlino – quelli dello Hitler e di Jesse Owens, e di Leni Riefenstahl – e che da allora si è svolta più o meno prima di ogni Olimpiade.
La coreografa Artemis Ignatiou dirige lo spettacolo dal 2008. Originaria della Grecia, ha precedentemente interpretato il ruolo di «alta sacerdotessa» ed è stata coinvolta nella produzione dagli anni Novanta.
È, ammetterà anche il lettore, molto molto curioso: la preghiera ai dei dell’Ellade rispunta per lo Sport, quando invece, l’invocazione che nei secoli si è pronunziata per la medicina – il giuramento di Ippocrate – è oramai quasi del tutto sparito in tutto il mondo – e mica lo vediamo solo in Israele, lo abbiamo visto anche sotto casa durante il COVID. I motivi, li sapete: quelle frasi sul fatto che il medico non darà sostanze abortive, né cagionerà la morte del paziente… Siamo lontani anni luce da ciò che oggi deve fare il dottore, e cioè servire la Necrocultura, estendendo la morte ovunque si possa.
È bene ricordare anche che il mondo moderno ora esige un altro culto pagano greco, quello alla dèa preolimpica (cioè, ctonia) Gaia, che tramite le elucubrazioni dell’ambientalismo è divenuta la Terra stessa, intesa come unico essere vivente minacciato dalla presenza umana. Del resto, Gaia apparteneva alla stirpe dei titani, come Crono, il dio che divorava i suoi figli…
Ma torniamo al fuoco pagano dei Giuochi. Il sito olimpico ricorda che i giochi iniziarono nel 776 a.C. e continuarono fino al 393 d.C. quando l’imperatore cristiano Teodosio I li abolì. «Le sue cerimonie di apertura sembrano quasi sempre incorporare temi massonici o globalisti» scrive LifeSite. «I giochi di quest’anno sono stati annunciati come le prime Olimpiadi “della parità di genere”. Ciò significa che uomini e donne avranno una rappresentanza 50-50 nella competizione. Detto in altro modo, ci saranno tanti atleti maschi quante sono le atlete. Questo è stato presentato come un importante segno di “progresso”».
Alla cerimonia di accensione della torcia, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Thomas Bach ha sottolineato che i giochi di quest’anno saranno «più giovani, più inclusivi, più urbani, più sostenibili». Si riferiva al fatto che sarà allestita una «Pride House» pro-LGBT per «sostenitori, atleti e alleati LGBTI+».
«I Giochi sono una celebrazione della diversità», afferma il sito ufficiale delle Olimpiadi. «In occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, Parigi 2024 ribadisce il suo impegno nella lotta contro ogni forma di discriminazione», riferendosi eufemisticamente a qualsiasi opposizione all’omosessualità o al transgenderismo e aggiungendo che la «Pride House» ha lo scopo di «celebrare» le «minoranze» LGBT e il loro «orgoglio».
LifeSiteNews ci tiene a ricordare che «come i precedenti Giochi Olimpici, Parigi 2024 sarà probabilmente una cloaca di impurità. (…) la fornicazione è dilagante e nel Villaggio Olimpico dove soggiornano gli atleti vengono distribuiti contraccettivi gratuiti».
Riguardo al sesso al villaggio olimpico, chi ha partecipato da atleta ad un’Olimpiade in genere torna con racconti impressionanti – dionisiaci, erotici, del resto sempre di dèi greci si tratta, Dioniso, Eros, e mettiamoci pure dentro pure la poetessa greca Saffo, che dea non è, ma popolare di certo lo deve essere presso certe giocatrici di basket, ad esempio, e neanche solo quelle.
Del resto, metti quantità di giovani sani (in teoria: da Tokyo sappiamo quanti ne ha rovinati, financo sportivamente, l’mRNA) tutti insieme nello stesso luogo, e cosa vuoi che succeda? Sappiamo che la cosa capita anche alla Giornate Mondiale della Gioventù organizzate dai papati moderni, al termine delle quali trovano a terra tra la spazzatura, oltre che le ostie consacrate, anche preservativi usati da giovani e previdenti papaboys.
La questione, semmai, è capire che l’abominio pagano dello sport olimpico potrebbe essere andato molto oltre le semplici fornicazioni degli atleti: da anni si parla sommessamente del fenomeno dell’aborto-doping. Funziona così: per giovarsi della biochimica ormonale fantastica offerta dalla gravidanza e migliorare quindi le proprie prestazioni sportive, le atlete si fanno ingravidare per poi uccidere il figlio e godere del beneficio organico e muscolare della gravidanza.
Praticamente: vero e proprio doping, senza alcuno steroide sintetico – quindi perfettamente legale. Specie, immaginiamo, nelle Olimpiadi delle «pari opportunità».
«Ora che i test antidroga sono di routine, la gravidanza sta diventando il modo preferito per ottenere un vantaggio sulla concorrenza» avvertiva ancora nel 2013 Mona Passiganno, direttrice di un gruppo pro-life texano. In quell’anno emerse anche la storia di un atleta russo che avrebbe raccontato a un giornalista che già negli anni Settanta, alle ginnaste di appena 14 anni veniva ordinato di dormire con i loro allenatori per rimanere incinte e poi abortire. La procedura sarebbe così conosciuta da arrivare persino anche sui libri di testo: un libro di testo online di fisiologia del dipartimento di Fisiologia Medica dell’Università di Copenaghen sembra averne ancora traccia.
«Le atlete di punta – proprio dopo il momento in cui hanno dato alla luce il loro primo figlio – hanno stabilito diversi record mondiali» scrive il testo danese di fisiologia sportiva. «Naturalmente, questo è accettabile come evento naturale e non intenzionale. Tuttavia, in alcuni Paesi le atlete rimangono incinte per 2-3 mesi, al fine di migliorare le loro prestazioni subito dopo l’aborto».
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Altro che preghiera ad Apollo: questo è un sacrificio umano, un atto propiziatorio tramite l’uccisione della propria prole al dio pagano della prestanza fisica, della vittoria sportiva, della ricca sponsorizzazione, dell’ego incoronato etc.
E quindi: quanti sacrifici umani agli dèi antichi e moderni verranno consumati per i Giochi parigini?
Va ricordato l’aborto nel mondo sportivo non è una novità, una importante multinazionale di vestiario, negli anni, è stata accusata di aver fatto pressioni affinché le proprie atlete sponsorizzate abortissero, anche se non è chiaro se semplicemente per continuare a sfruttarne le prestazioni o per ottenerne anche i benefici corporei del doping feticida.
Diciamo pure che la strage olimpica occulta dei bambini delle atlete non potrebbe essere l’unico accento di morte da aspettarsi a Giochi di Parigi. Come noto, Macron ha fatto capire di temere per l’incolumità della sua Olimpiade, arrivando a chiedere, anche grottescamente, una «tregua» dei conflitti in corso – lui che, contro l’opinione degli omologhi europei e dello stesso popolo francese, paventa truppe NATO in Ucraina, e che secondo alcuno già sarebbero state spedite ad Odessa.
Abbiamo visto, nel frattempo, come qualcuno degli organizzatori olimpici si stia lamentando del fatto che per il nuoto la Senna sembra non andare bene: è stata rilevato troppo Escherichia Coli, cioè troppa materia fecale. Parigi è baciata da un fiume escrementizio, e vuole che gli atleti di tutto il globo vi si tuffino.
Questa immagine, del fiume di cacca in cui obbligano la gente ad immergersi, racconta bene il senso occulto dell’Olimpiade.
Tuffatevi anche voi nell’acqua marrone: dietro l’Olimpiade non c’è solo l’afflato neopagano e massonico (con le logge che da sempre rivendicano la consonanza con i principi olimpici), potrebbe esserci un’ondata di morte vera e propria.
Giochi di morte: lo Stato moderno pare volerceli infliggere a tutti i costi.
Roberto Dal Bosco
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