Pensiero

«Phantom pain»: la tragedia dell’elettore fantasma, da Di Maio a Calenda

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Più guardo al panorama politico che si avvia alle elezioni, più sento un peso tragico posarsi sulla mia mente per farmi cadere le braccia e non solo quelle.

 

Sento già chi mi corregge: maddai, con la torma scappati di casa, descritti nell’articolo di due giorni fa, la situazione è semmai tragicomica, più che tragica.

 

Invece io sento proprio dolore e tristezza, ancorché poco catartici. Un dramma, allora, diciamo così.

 

L’evento più drammatico di queste settimane è stato a mio giudizio la quantità di storie attorno a Di Maio. Un rapido susseguirsi al limite del surrealismo.

 

Eccolo che si ferma all’ineffabile distributore politico-simbolico di Tabacci, così da saltare quella cosa delle firme: il partito nuovo è pronto, sul simbolo c’è un’ape. Neanche il complottista più zelota pensa all’alveare come simbolo massonico, perché tutti sappiamo che non c’è il livello. Tutti invece si accorgono dell’impagabile effetto rebus: è l’Ape Maio. Tutti se ne accorgono, tranne lui, forse, che magari è troppo giovane per ricordare l’infame insetto giapponese propalato dalla RAI.

 

Ma la spinta bestiale forse è più concreta del previsto.

 

Questa è di poche ore fa: «è in corso un’interlocuzione con i vertici di Impegno Civico per definire insieme una proposta concreta che caratterizzi Impegno Civico oltre che per la sua sensibilità ambientale anche per una sensibilità animalista», annuncia la Presidenza del Partito Animalista Italiano. In pratica l’Ape Maio tratta con il mondo-animal, del resto si era detto animalista quando da capo della diplomazia italiana – sì – insultò Putin in diretta TV, dicendo che era «più atroce di un animale», qualsiasi cosa voglia dire.

 

Tuttavia, la riflessione tremenda che si impone riguarda gli esseri umani, o meglio la mancanza di essi.

 

Ora, si è scritto a lungo della trasformazione del ragazzo partenopeo in una figura di caratura democristiana. «Trasformazione» è la parola sbagliata: quando nel 2013 per la prima volta lo vedemmo distribuire televisivamente le frasi fatte a braccia conserte, completo importante e taglio di capelli freschissimo, avevamo già capito quasi tutto.

 

I vecchi democristiani erano viscidi, sì. Erano furbi, calcolatori. Non avevano ideali, se non la spartizione del potere, il tirare a campare di elezione in elezione, mercanteggiando la morale e l’interesse del popolo, l’onore e la vita umana (le leggi su aborto, divorzio e financo, in fase post-mortem partitica, sulla fecondazione in vitro, le hanno prodotte personaggi DC).

 

I democristiani potevano permettersi di chiedere, e sgomitare nella riffa del potere, perché avevano qualcosa di importante, innegabile, insostituibile: avevano i voti.

 

Dietro a ogni deputato, soprattutto dietro a ogni politico di rilevanza, c’era una quota certa, inattaccabile, di elettori del territorio. Il feudo elettorale: c’era, eccome.

 

Prendete Andreotti: nella circoscrizione XIX Roma Viterbo Latina Frosinone prendeva centinaia di migliaia di voti. Se li meritava: perché non erano preferenze che scattavano per sindrome da cartellone, persistenza TV, o soggezione del feudatario. No: come noto, e reso bene nel brutto film di Sorrentino Il divo, Andreotti riceveva uno ad uno i suoi elettori, dal più povero al più criminale, a cui pagava talvolta l’avvocato. Riceveva, come un professore universitario, come un vescovo serio che dà udienza ai fedeli. Il 14 giugno 1987 nel suo feudo ciociaro, Belzebù beccò 329.599 preferenze.

 

Questo discorso possiamo farlo per tantissimi altri politici di DC. Infinite serie di mani strette ad infinite sagre, campanelli suonati in tutte le strade, nomi di famigli minorenni e ottuagenari imparati a memoria per avere quel singolo voto…

 

Nella mia ingenuità, avevo pensato che Di Maio avesse speso questi 10 anni per crearsi a Pomigliano e dintorni una dimensione di questo tipo. Immaginavo che, con tutto quel ben di Dio di potere che gli è capitato addosso, avesse investito tempo, risorse ed arguzia per democristianizzare il suo feudo. Del resto, avevo visto i servizi de Le Iene sui suoi compagni di liceo (perché l’Università non l’ha fatta, e va bene) finiti tutti in alto, in altissimo, perfino nei board delle immense multinazionali parastatali che vendono aerei, etc.

 

Chi può, nella zona, non votarlo? Mi ero detto. Intorno a lui, mi avevano raccontato, si erano assiepati tutta una serie di personaggi, nella politica e nell’amministrazione, ciascuno proveniente da quelle ridenti terre subvulcaniche.

 

Dove immaginare il mio shock quando saltò fuori che, invece che candidarsi a casa sua, si parlava di farlo candidare – per il PD – a Modena.

 

Eh?

 

I giornali fecero subito i titoli su Bibbiano: lui, quello che tuonò «partito di Bibbiano» dicendo che faceva «l’elettroscioc ai bbambini» dicendo che mai si sarebbe alleato con loro (salvo poi farci il governo Conte 2 pochi giorni dopo), candidato proprio lì? Il PD di Bibbiano, dove il partito alle ultime regionali è passato dall’80% a «appena» il 60%, ha fatto sapere che aspetta ancora le scuse.

 

A me è venuta in mente un’altra cosa: che a Modena, l’ultima volta, paracadutarono un ulteriore personaggio interessante con un suo partitello: Beatrice Lorenzin. Lo ricordo bene, perché a poche ore dal silenzio elettorale, Renovatio 21 fece una conferenza per pregare i modenesi di attaccarsi al telefono e chiedere ai parenti piddificati di non votare la ministro vaccinale. Aveva nevicato pazzamente, quella sera, ma la sala era comunque strapiena.

 

Non servì a nulla: il voto robotico piddinoide, infallibile, fece passare la Lorenzin, che, appena eletta, andò in visitaa Modena per ringraziare, e, profonda conoscitrice del territorio, davanti ad una foto di Enzo Ferrari chiese se quello fosse Gino Paoli. Altro che Andreotti.

 

Avevo chiesto a un amico avvocato di Modena se una scena del genere si potrebbe ripetere. Mi è stato risposto: «certamente».

 

Apprendiamo che anche questa prospettiva è sfumata. Non si sa bene perché, ma invece che incistarsi con il PD, ora pare che Giggino voglia correre da solo all’uninominale. Forse addirittura in Campania, a casa sua.

 

Dicono che ora che Calenda se ne è andato (ci arriviamo fra un attimo), per Di Maio la situazione «riapre i giochi. Non solo per il leader, ma anche per 3-4 fedelissimi, vedi l’ex ministro Vincenzo Spadafora, coordinatore politico del neo-nato partito dell’ape. Tutti tornano in ballo per un seggio quasi blindato».

 

Eh?

 

«3-4 fedelissimi»?

 

Fateci capire, Di Maio si disse che, per far continuare il governo del Draghi (bel lavoro, riuscito), aveva portato via qualcosa come 60 deputati e 11 senatori.

 

Quindi, tutta quell’intrepida truppa che ha tradito il partito e l’elettore grillino, lo ha fatto senza nemmeno lo straccia di una poltrona per uno su dieci? Forse nemmeno quelli?

 

Sì, perché tutti questi calcoli sono stati presi senza lontanamente considerare una variante importante: i voti.

 

Non importa che voti prendi, dove ti candidi, etc.: importa solo il paracadute nel collegio giusto; importa, cioè, un accordo preso nel segreto del palazzo, senza considerare nemmeno lontanamente l’elettore.

 

È un assunto dello Stato moderno: l’elettore, come Dio, è morto. Si può, al massimo, dover esperire la persistenza del suo fantasma. Tuttavia, il politico sa che esiste una grande, costante operazione di esorcismo nei confronti dello spettro: dalla UE a Mario Draghi, dalla NATO alla Troika, dalla censura social alla legge elettorale, tutto è predisposto per scacciare l’ectoplasma dell’elettore qualora esso appaia dopo che ha dato il voto.

 

Di Maio non ha voti. Non li ha per i suoi fedelissimi, che lo hanno seguito a caro prezzo. Non li ha forse neanche per lui. Soprattutto, mi sconvolge che non li abbia neanche a casa sua.

 

Sono un naif.

 

Tuttavia, avevo osservato questo schema anche con un altro personaggio di cui per motivi misteriosi si parla in continuazione: Carlo Calenda.

 

Sono anni che, quando vedo Calenda sui giornali, non capisco bene di cosa si tratti.

 

Prima di Renzi, non lo avevamo mai sentito. Uscì dal cappello del tizio di Rignano nel 2016: fu nominato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione Europea, in pratica euroambasciatore d’Italia. Gli ambasciatori, quelli veri, si incazzarono, e in massa. Il tutto durò 20 giorni: Renzi riportò il personaggio a Roma per dargli un ministero importantissimo, quello dello Sviluppo Economico.

 

Ma chi era questo tizio? Cominciarono a fioccare biografie, interviste, agiografie di ogni sorta. Pariolino, anzi, del rione Prati. Figlio della regista Cristina Comencini quando aveva 16 anni, quindi nipote del regista Luigi Comencini, per cui il Carlo reciterà da bambino nello sceneggiato Cuore, dal libro del massone De Amicis. Fa una figlia, anche lui a 16 anni, con la segretaria del compagno produttore della madre, poi va a lavorare in Ferrari con Montezemolo.

 

Da lì, passando per Confindustria, ce lo ritroviamo al governo: vicesegretario al MISE di Letta, e pure in quello di Renzi. Diventa ministro quando Federica Guidi finisce nello scandalo di intercettazioni che coinvolge il fidanzato (il caso «Tempa Rossa»).

 

Rimane in sella al MISE perfino con Gentiloni. Non siamo sicuri che al MISE abbiano pianto quando è andato via. Tuttavia ricordiamo i suoi discorsi paternalistici agli operai durante dei tour che faceva da ministro nelle fabbriche.

 

Da dove viene questa ascesa inarrestabile? Non sappiamo dirlo.

 

Nel 2012, aveva firmato il manifesto dell’Associazione Italia Futura, che doveva essere l’embrione del partito del suo boss Montezemolo: non si andò da nessuna parte.

 

Nel 2013 si candidò in Lazio, casa sua, per Scelta Civica, il partito di Monti: trombato, nonostante il partito, ora biodegradato (lo chiamavano, infatti, «Sciolta Civica») avesse preso un ragguardevole 8,3%.

 

Nel 2015 aveva detto che lasciava Scelta Civica per iscriversi al PD. «Tale annuncio non ha però avuto seguito», scrive Wikipedia.

 

Nel 2019, tuttavia, il PD gli fa comunque un bel regalo: primo nella lista alle Europee nella circoscrizione Nord Est, che vuol dire Veneto, Trentino, Friuli-Venezia Giulia e soprattutto Emilia-Romagna. Maree di voti assicurati, e un posto nel listino dove spingono miriadi di politici locali piddini, magari di quelli che hanno fatto per anni anni un egregio lavoro come sindaci, portando voti al partito. (Ne conosciamo qualcuno)

 

Non importa: deve passare Calenda, che poco dopo però lascia il partito, perché irritato dall’alleanza PD-M5S. Si tiene ovviamente la poltrona da europarlamentare.

 

Lancia suo partitino, «Siamo Europei», a cui farà a stretto giro un rebranding: ecco il partito Azione.

 

Nel 2020 si candida a sindaco di Roma, arriva terzo.

 

Non importa, lui prosegue imperterrito la sua cavalcata spavalda sui media, attacca tutti, i sovranisti, i grillini, i suoi giovani candidati con il Rolex, se stesso («per 30 anni ho ripetuto cazzate sul liberismo»), si mostra mezzo nudo (lui!) mentre fa il bagno in un elegante laghetto di montagna, si presenta scravattato e a volte con vestiti che pare tirino, è disinibito a livelli olimpionici.

 

In tutta questo, pare chiare che, a parte il voto robotico piddino dell’Emilia-Romagna, è tutto meno che certo che questo personaggio abbia mai avuto con sé e il suop partitello un singolo elettore.

 

Calenda non esiste: per questo era perfetto per il PD.

 

È umiliante, anche per chi crede che il Paese possa essere salvato solo previa deppidificazione, vedere il segretario PD Letta implorare Calenda, vellicarlo, accarazzerlo per poi essere tradito, e piagnucolare, fino al punto di dire – a pochi giorni dalle elezioni – di aver sbagliato ed essere pronto quindi a dimettersi: per Calenda.

 

Qualcosa, ripeto, ci sfugge. Calenda, che voti ha? Il partito che discende da Gramsci e Togliatti, che motivo ha di tenerlo con sé?

 

Ci sono delle entrature di Calenda che non conosciamo, e che spingono i Letta e le Bonino a volerlo a tutti i costi, e a piangere disperati se lui se ne va, peraltro senza pagare il conto e pure insultando («hanno voluto l’ammucchiata, perderanno»)?

 

È una cosa che non sappiamo dire. La sicumera di Calenda, uno che avrebbe fatto il gagà sprezzante anche sul Titanic inclinato a 70°, rimane per noi un mistero.

 

Ci è chiaro invece in tutta questa operazione che riempie i giornali manca, come per Di Maio, un fattore in teoria importante: i voti. Gli elettori. Il popolo italiano. Quella roba là…

 

L’elettore è un fantasma, di quelli che non fanno neanche paura. Perché lo Stato-partito, come abbiamo detto, vive in un mondo di esorcicci e di Ghostbusters fenomenali e transnazionali, di quelli che i fantasmi sono in grado di farli sparire anche quando per due anni ogni sabato riempiono le piazze urlando contro il potere e la sua apartheid biotica.

 

Dicevamo, l’elettore è morto. Hanno ragione di pensarlo: come zombie, milioni di persone voteranno quel che vorrà il PD. Altri zombie voteranno Fratelli d’Italia, anche se è la scelta che è contro l’interesse dell’elettore: più armi all’Ucraina, meno gas, più vaccini… un PD con la Meloni sopra.

 

Vivono di questa certezza. La democrazia è finita. La Costituzione, a cui adesso ridicolmente si appellano, è stata annichilita – lo sanno, questo è un mondo post-costituzionale, post-democratico. Post-umano. Le elezioni sono un rito vestigiale, una stantia cerimonia aritmetica attraverso cui il potere accetta ancora di dover passare, nella sicurezza, però, che le cose importanti saranno conservate integre, e l’agenda prosegue come previsto, come pagato tramite l’interno immane poltronificio.

 

Il quale poltronificio è pure cambiato radicalmente, quantomeno nel numero: dobbiamo ancora, tutti, ben comprendere cosa significa avere ora la metà dei rappresentanti. Cosa significa per le dinamiche dei partiti, cosa significa per quelle sigle, che come abbiamo visto sono tante e grottesche, che aspirano ad arrivare in Parlamento.

 

I deputati di Di Maio, di Conte, di Letta etc. hanno votato più che la loro stessa fine (come abbiamo visto sopra, nemmeno i seggi per i fedelissimi…), per la castrazione elettorale del popolo italiano. E questo non è drammatico, è, come tutte le storie in cui esce il sangue, propriamente tragico.

 

Il Parlamento è stato amputato, reciso dal corpo che dovrebbe rappresentare. Succederà, al massimo, che sarà inviato qualche segnale da «phantom pain»: il «dolore dell’arto fantasma» che provano i mutilati per membra che non hanno più. Il potere legislativo è oramai quindi un «arto fantasma» a tutti gli effetti, separato con la lama dal corpo del popolo.

 

È il caso di dire: vi hanno fatto a pezzi.

 

Ecco perché oggi si permettono di parlare di Calenda, di Di Maio, del niente.

 

Perché la Repubblica Italiana ha oramai ben poco a che fare con le schede elettorali. Perché il lavoro di desovranizzazione politica intentato contro il popolo – attaccando anche la sovranità economica, famigliare, biologica – è oramai completo.

 

Vi hanno squartati, e ridotti a fantasmi.

 

Siete pronti per le urne.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

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