Morte cerebrale
La «morte cerebrale» è stata inventata per prelevare più organi

Renovatio 21 pubblica questo testo della dottoressa Heidi Kleissig apparso su LifeSiteNews.
In un recente editoriale del New York Times, tre medici affiliati a centri trapianti hanno proposto di ampliare la definizione legale di morte per ottenere più organi da trapiantare. È interessante notare che, alla fine del loro articolo, hanno ammesso che lo abbiamo già fatto in passato:
Nel 1968, un comitato di medici ed esperti di etica di Harvard formulò una definizione di morte cerebrale, la stessa definizione di base utilizzata oggi dalla maggior parte degli stati. Nel suo rapporto iniziale, il comitato osservò che «c’è un grande bisogno di tessuti e organi di persone in coma irreparabile per ripristinare la salute di coloro che sono ancora in grado di sopravvivere». Questa valutazione schietta fu eliminata dal rapporto finale a causa dell’obiezione di un revisore. Ma è quella che dovrebbe guidare le politiche odierne in materia di morte e trapianto di organi.
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Morte cerebrale/morte secondo criteri neurologici
Poco dopo che il dottor Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto di cuore, 13 uomini della Harvard Medical School proposero l’idea della morte cerebrale in un articolo fondamentale, «Una definizione di coma irreversibile». Il loro articolo non contiene riferimenti scientifici e inizia con queste parole: «il nostro scopo principale è definire il coma irreversibile come un nuovo criterio di morte».
Senza test, studi o prove, questi uomini decisero che alcune persone in coma (che in precedenza erano sempre state considerate vive) potessero essere ridefinite come morte. L’unica motivazione fornita dal comitato per la riclassificazione delle persone in coma come cadaveri era l’utilità. Affermarono che la vita di queste persone era un peso per loro stesse e per gli altri, e che ridefinirle come morte avrebbe già liberato posti letto nelle unità di terapia intensiva e risolto la controversia sul reperimento dei loro organi.
Questa nuova definizione è stata certamente di grande utilità perché ha permesso ai medici di aggirare la regola del donatore morto. La regola del donatore morto è una massima etica che stabilisce che le persone non devono essere né vive al momento dell’espianto degli organi né uccise dal processo di espianto. Semplicemente ridefinendo le persone con gravi lesioni cerebrali come già morte, la lettera della regola del donatore morto viene soddisfatta con un gioco di prestigio. Ma cambiare una definizione non cambia la realtà. Le persone con una diagnosi di morte cerebrale hanno lesioni neurologiche e la loro prognosi può essere di morte, ma non sono già morte.
Dio è l’unico autore e donatore della vita. Egli stesso dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa (At 17,25), perché in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17, 28). Siamo stati creati da Lui come una stretta unione di carne materiale e spirito immateriale, un composto corpo-spirito. La Bibbia contraddice la visione materialista secondo cui siamo solo il nostro cervello. «Formò dunque il Signore Dio l’uomo dal fango della terra, e gli inspirò in faccia lo spirito della vita, e l’uomo divenne persona vivente.» (Gen 2,7). Nel 1312, il Concilio di Vienne riconobbe questo insegnamento biblico e definì l’anima come la forma – il principio immediato della vita e dell’essere – del corpo umano.
La morte avviene quando lo spirito immateriale si separa dal corpo materiale. Ma poiché non disponiamo di strumenti per rilevare il momento esatto in cui lo spirito se ne va, storicamente le persone hanno utilizzato i segni indice della perdita del battito cardiaco, della perdita del respiro e del passare del tempo per essere certi che la morte fosse avvenuta.
Le nostre tradizioni della veglia, della visita e della veglia funebre fornivano sia la certezza che la morte fosse avvenuta sia il tempo per elaborare il lutto. Ma una diagnosi di morte cerebrale ignora la questione se lo spirito donato da Dio se ne sia andato, sostituendola con la scomparsa delle funzioni neurologiche.
Il dottor Edmund D. Pellegrino, direttore fondatore del Pellegrino Center for Bioethics presso la Georgetown University, si è espresso contro la morte cerebrale:
«Gli unici segni indiscutibili della morte sono quelli che conosciamo fin dall’antichità, vale a dire: perdita della sensibilità, del battito cardiaco e della respirazione; pelle screziata e fredda; rigidità muscolare; ed eventuale putrefazione come risultato dell’autolisi generalizzata delle cellule del corpo».
«Ho scelto di dare priorità al benessere del paziente prima che diventi un donatore, perché non si deve arrecare alcun danno, anche se ne deriva un beneficio. Nessuna persona dovrebbe essere sacrificata per il bene di un’altra. Questo è un precetto morale che riconosce il valore intrinseco di ogni essere umano».
Da molti anni i medici mettono in discussione il concetto di morte cerebrale, nonostante il fatto che «mettere in discussione lo status quo riguardo al prelievo di organi da pazienti dichiarati morti secondo criteri neurologici abbia delle conseguenze».
Fin dal suo inizio, la «morte cerebrale» è stata guidata dal desiderio di organi vitali. Il dottor Eelco F. Wijdicks, autore delle linee guida sulla morte cerebrale dell’American Academy of Neurology (AAN) del 1995, 2010 e 2023, ha affermato nel 2006:
«La diagnosi di morte cerebrale è determinata dall’esistenza di un programma di trapianto o dalla presenza di chirurghi specializzati. Non credo che l’esame per la morte cerebrale, nella pratica, avrebbe molto significato se non fosse finalizzato al trapianto». [Questa citazione si trova a p. 50 qui].
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La ricerca ha dimostrato che le persone con diagnosi di morte cerebrale hanno ancora funzioni cerebrali: il 20% (di quelle sottoposte a test) presenta attività EEG e oltre il 50% ha ancora un ipotalamo funzionante , che è una parte del cervello. Inoltre, le ben note capacità delle persone «cerebralmente morte», come la guarigione delle ferite, la lotta contro le infezioni, il parto sano e la risposta intatta allo stress dopo l’incisione per la rimozione degli organi, dimostrano che sono ancora vive.
Le ultime linee guida AAN (2023) sulla morte cerebrale ammettono, nella sezione dedicata ai metodi, che non vi sono prove scientifiche attendibili a sostegno della diagnosi di morte cerebrale. «A causa della mancanza di prove scientifiche di alta qualità sull’argomento», le nuove linee guida sono state definite tramite tre votazioni anonime. È preoccupante che, dopo quasi 60 anni di dichiarazioni di morte cerebrale, non vi siano ancora prove scientifiche di alta qualità a sostegno di questa diagnosi.
Inoltre, il modo in cui i medici diagnosticano la morte cerebrale utilizzando le linee guida AAN non è conforme alla legge ai sensi dell’Uniform Determination of Death Act (UDDA). La legge richiede la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cervello, incluso il tronco encefalico, per una determinazione neurologica della morte.
Tuttavia, l’esame di morte cerebrale AAN verifica solo il coma, la perdita di alcuni riflessi del tronco encefalico e l’assenza di respirazione spontanea. Inoltre, le linee guida AAN affermano esplicitamente che la morte cerebrale può essere dichiarata in presenza di una funzione cerebrale in corso: la funzione dell’ipotalamo. Ciò è in contrasto con la legge, che richiede che tutte le funzioni dell’intero cervello debbano essere cessate irreversibilmente.
La morte cerebrale non è morte perché il concetto di morte cerebrale non riflette la realtà del fenomeno della morte. Pertanto, qualsiasi linea guida per la sua diagnosi non avrà alcun fondamento scientifico.
Le persone dichiarate cerebralmente morte sono neurologicamente disabili e la loro prognosi può essere fatale, ma sono ancora vive. Le persone viventi con una prognosi sfavorevole non dovrebbero essere ridefinite come morte in nome della donazione di organi.
Heidi Klessig
La dottoressa Heidi Klessig è un’anestesista in pensione e specialista nella gestione del dolore. Scrive e parla di etica nella donazione e nel trapianto di organi. È autrice di The Brain Death Fallacy e i suoi lavori sono disponibili su respectforhumanlife.com.
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Morte cerebrale
Persone «cerebralmente morte» vengono utilizzate come topi da laboratorio per trapianti di organi animali geneticamente modificati

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Morte cerebrale
Malori improvvisi e morte cerebrale: combo inarrestabile per la caccia agli organi

Le cronache sono piene di malori improvvisi, come testimonia il resoconto settimanale che Renovatio 21 pubblica regolarmente da diverso tempo.
Coloro che si ritengono più furbi e intelligenti di coloro che vengono definiti con spregio «complottisti» sostengono che non si tratta di un’anomalia statistica, ma che in realtà tali episodi sono sempre esisti. Sempre costoro accusano i dissenzienti di speculare sulle tragedie e di fare insinuazioni senza avere le prove.
Già, le prove. Come se il sistema criminale che ha in qualche modo costretto milioni di persone a farsi iniettare un siero sperimentale non abbia calcolato tutto, anche il fatto che stabilire un legame diretto tra la vaccinazione di massa e l’innegabile impennata nella popolazione generale di malori improvvisi, turbo-tumori e malattie autoimmuni sia pressoché impossibile.
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Primo, perché per appurare tale nesso causale sono necessarie indagini autoptiche approfondite e specifiche che in genere non vengono fatte; secondo, perché i parenti dei defunti spesso si rifiutano, per svariati motivi, di richiedere l’esame autoptico sul corpo del loro caro; terzo, perché gli effetti dei veleni a mRNA possono manifestarsi anche a medio e lungo termine, soprattutto sotto forma di malattie a decorso molto rapido, rendendo ancora più complicato, se non impossibile, accertarne la correlazione coi sieri.
E poi, anche nel caso in cui il legame tra vaccinazione e patologie mortali venga ufficialmente ammesso, come nel caso della povera Camilla Canepa, nulla cambia a livello di opinione pubblica: il sierato e il plurisierato, infatti, attraverso il meccanismo psicologico di rimozione, tende ad allontanare dalla propria consapevolezza pensieri e situazione che gli provocano ansia e angoscia. Per la massa che si è lasciata «marchiare» sotto ricatto è come se gli anni a cavallo del 2020 non fossero mai esistiti. Ci avete fatto caso?
Ad ogni modo, se è vero che non abbiamo la prova provata che la stragrande maggioranza dei malori improvvisi sia causato dalle «sacre» inoculazioni, abbiamo la certezza matematica che di molti malori o incidenti ne stia approfittando la fiorente industria dei trapianti di organi.
Solo negli ultimi giorni si sono registrati diversi episodi di cronaca in cui giovani e giovanissimi sono stati dichiarati cerebralmente morti e privati dei loro preziosi organi. Nella quasi totalità dei casi la dichiarazione di morte cerebrale sopraggiunge dopo poche ore o giorni dall’evento traumatico, in modo tale da non consentire che le condizioni di salute del malcapitato possano migliorare attraverso la somministrazione di adeguati trattamenti sanitari.
Anzi, per effettuare le invasive procedure di accertamento della morte encefalica vengono interrotte le cure al paziente, il quale viene sottoposto a test pericolosi e potenzialmente letali che non di rado ne peggiorano il quadro clinico. E’ il caso del famigerato test di apnea di cui abbiamo più volte denunciato l’incredibile pericolosità dalle pagine di Renovatio 21.
Solo per fare alcuni esempi recenti, è possibile che una ragazza di 14 anni, colpita presumibilmente da embolia polmonare, possa essere dichiarata senza speranza solamente poche ore dopo il malore improvviso?
È possibile che un bambino di 6 anni possa essere dichiarato morto dopo solo un giorno dall’essere stato investito da una macchina mentre attraversava la strada?
È plausibile che ad un bambino di 2 anni caduto nella piscina dei nonni e rianimato dai sanitari del 118 possa essere accertato un danno cerebrale irreversibile appena due giorni dopo?
Anche volendo ignorare il fatto che la morte cerebrale sia un criterio inventato dalla comunità scientifica internazionale al solo scopo di consentire la predazione degli organi e l’eliminazione del comatoso, non sarebbe comunque un gesto di opportuna prudenza attendere l’evoluzione dello stato di salute del paziente prima di emettere verdetti definitivi? Soprattutto quando si tratta di giovani vite con grandi e spesso sorprendenti capacità di recupero?
Sono domande che ci poniamo.
Il problema è che nel momento in cui l’efficientissima rete dei trapianti (in un sistema sanitario che fa acqua da tutte le parti l’unica cosa che funziona a dovere è proprio, chissà perché, la macchina delle predazioni) rileva la compatibilità del potenziale «donatore» con uno o più pazienti in lista di attesa, la priorità non diventa più quella di salvare la vita del malcapitato o assicuragli le migliori cure, ma di procurare organi freschi per il trapianto, soprattutto se si tratta di quelli di bambini o adolescenti.
La nostra non è un’illazione ma una constatazione che si desume dai fatti: qual’è il motivo che può giustificare la fretta con cui i sanitari attivano le procedure di accertamento di morte cerebrale, se non quello di procedere con una certa urgenza all’espianto degli organi?
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Non possiamo sapere con certezza se queste giovani vite avrebbero potuto riprendersi parzialmente o addirittura completamente, come del resto è avvenuto in molti casi documentati in cui era stata dichiarata la morte encefalica.
Sappiamo però che non corrisponde al vero la frase «il paziente non ce l’ha fatta», ripetuta automaticamente dalle cronachedei giornali. Si tratta infatti di soggetti che sono stati rianimati e le cui condizioni cliniche erano state stabilizzate.
La morte cerebrale non sopraggiunge naturalmente, visto che non esiste, ma viene attivamente ricercata, attraverso protocolli variabili da Paese a Paese che non di rado producono essi stessi il peggioramento del quadro clinico del paziente.
In altri termini, si va a cercare solo ciò che si vuole attivamente trovare. E si vuole trovare la morte.
Alfredo De Matteo
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