Cina
Xinjiang e lavoro forzato: i «passi indietro» in Cina di Volkswagen e Uniqlo

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Le nuove normative sulle catene di approvvigionamento adottate da Stati Uniti e Unione Europea stanno costringendo molte aziende a prendere posizione sulla questione dello sfruttamento degli uiguri. La casa automobilistica tedesca ha venduto «per ragioni economiche» il discusso stabilimento di Urumqi, ma rilanciando i suoi piani commerciali in Cina. Il brand di abbigliamento giapponese: non usiamo cotone dello Xinjiang.
Dopo la BASF anche la Volkswagen ha deciso di lasciare lo Xinjiang, sull’onda delle accuse sull’impiego del lavoro forzato degli uiguri nella costruzione di una pista di prova per le auto. L’annuncio della casa automobilistica tedesca, arrivato ieri, parla ufficialmente di «ragioni economiche» legate al ridisegno della presenza in Cina. Ma segna di fatto una vittoria importante delle associazioni che si battono per la difesa dei diritti della minoranza musulmana, che nella provincia più occidentale della Repubblica popolare da più di dieci anni è oggetto di dure politiche repressive da parte del governo di Pechino.
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Come noto la Cina è un mercato fondamentale per Volkswagen: vi vende attualmente 4 automobili ogni 10 prodotte nei suoi stabilimenti a livello globale. Ma si tratta di una presenza che oggi si trova a fare i conti con lo scontro tra Pechino e l’Unione europea riguardo ai dazi sulle importazioni delle auto elettriche, oltre che con la crisi più generale della Volkswagen.
Quanto poi allo Xinjang la casa automobilistica si sarebbe trovata ora a fare i conti anche con il Regolamento sul lavoro forzato, adottato da Bruxelles lo scorso 19 novembre, che – pur essendo molto meno netto rispetto all’Uyghur Forced Labor Prevention Act in vigore negli Stati Uniti nel 2021 – avrebbe comunque messo in difficoltà lo stabilimento di Urumqi. Anche perché – come scrivevamo già qualche settimana fa – il rapporto commissionato da Volkswagen che avrebbe dovuto provare l’estraneità della consociata locale alle pratiche di lavoro forzato, è risultato essere stato steso in maniera molto dubbia in un posto dove è impossibile indagare liberamente.
Alla fine, dunque, Volkswagen ha deciso di vendere lo stabilimento che su richiesta di Pechino aveva aperto nello Xinjang nel 2012 e la relativa pista: andranno alla SMVIC di Shanghai, una società che si occupa di test sulle automobili prodotte in Cina.
Nel frattempo però è arrivata anche la proroga fino al 2040 della joint-venture con Saic Motor, il partner cinese della casa automobilistica tedesca. L’accordo prevede che entro la fine del decennio arrivino sul mercato 18 nuovi modelli di vetture Volkswagen e Audi, 15 dei quali esclusivi per il mercato locale. Obiettivo: recuperare posizioni tornando a vendere in Cina entro il 2030 quattro milioni di automobili all’anno, una quota di mercato del 15%. Via dallo Xinjiang, dunque, ma non certo dal resto della Repubblica Popolare.
La vendita dello stabilimento della casa automobilistica tedesca non chiude però la questione generale dei sospetti sull’uso del lavoro schiavo degli uiguri in prodotti che inondano i mercati di tutto il mondo. Secondo le denunce della Coalition to End Forced Labour in the Uyghur Region tra gli altri settori pesantemente coinvolti nel fenomeno c’è il tessile, dal momento che nello Xinjang si stima che si concentri il 23% della produzione mondiale di cotone, ma anche la produzione dei pannelli solari e la coltivazione dei pomodori.
Proprio oggi il brand di abbigliamento giapponese Uniqlo ha dichiarato per la prima volta di non far uso nei propri prodotti di cotone proveniente dalla regione degli uiguri. Un passo dettato proprio dalle nuove normative, che stanno costringendo molti gruppi presenti sui mercati internazionali a uscire dall’ambiguità: la legge americana, infatti, chiede alle aziende stesse di provare l’estraneità delle proprie catene di approvvigionamento. E pochi giorni fa l’amministrazione Biden ha inserito altri 29 gruppi che non lo hanno fatto nella lista delle compagnie le cui importazioni sono bloccate negli Stati Uniti.
Complessivamente sono già oltre 100 le aziende escluse dal mercato Usa per il sospetto di utilizzo del lavoro forzato degli uiguri e appartengono a settori che spaziano dall’agricoltura all’industria estrattiva, dalla siderurgia alle tecnologie digitali.
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La dichiarazione di Uniqlo è significativa perché fino ad oggi il suo fondatore e presidente Tadashi Yanai si era sempre rifiutato di rispondere, sostenendo di voler rimanere «neutrale» nella guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. A pesare è anche la forte presenza dell’azienda giapponese sul mercato cinese: Uniqlo ha più negozi in Cina che nel Giappone stesso.
Di qui il timore che una presa di posizione sulla questione dello Xinjiang possa avere contraccolpi con boicottaggi di stampo nazionalista, come capitato ad altri grandi marchi del settore.
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Immagine di Ccyber5 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported
Cina
Morte di Francesco: condoglianze da Pechino, silenzio su siti cattolici ufficiali

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Cina
La Cina testa una bomba all’idrogeno non nucleare

Ricercatori cinesi hanno testato con successo una bomba all’idrogeno non nucleare che ha creato una palla di fuoco prolungata, superando di gran lunga gli esplosivi tradizionali. Lo riporta il giornale di Hong Kong South China Morning Post.
In un articolo di domenica, il quotidiano ha citato lo studio dei ricercatori pubblicato il mese scorso su di una rivista in lingua cinese specializzata in missili. Secondo il rapporto, un team del 705 Research Institute della China State Shipbuilding Corporation (CSSC) – un attore chiave nei sistemi d’arma subacquei – ha sviluppato una bomba da 2 kg composta principalmente da idruro di magnesio, con esplosivi convenzionali come catalizzatore.
In un test sul campo, il dispositivo avrebbe generato una palla di fuoco con temperature superiori a 1.000 gradi centigradi che è durata più di due secondi, ovvero «15 volte di più» di quanto sia in grado di produrre una «esplosione equivalente di TNT».
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Nella reazione, l’idruro di magnesio, un composto originariamente sviluppato come combustibile efficiente, rilascia rapidamente l’idrogeno gassoso immagazzinato, provocando una fiammata prolungata.
Si ritiene quindi che il potere distruttivo del nuovo ordigno esplosivo non risieda nella pressione dell’esplosione, bensì nella capacità di generare calore estremo.
Il South China Morning Post cita Wang Xuefeng, ricercatore scientifico del CSSC, il quale ha spiegato che le sue proprietà consentono anche un «controllo preciso dell’intensità dell’esplosione, ottenendo facilmente la distruzione uniforme di bersagli su vaste aree».
Se completamente sviluppato, il metodo potrebbe presumibilmente dare vita a un’arma simile a un dispositivo termobarico, ideale per annientare strutture difensive e veicoli blindati.
Mentre in passato la produzione di idruro di magnesio era per lo più su piccola scala e piuttosto complicata, di recente la Cina ha sviluppato un metodo di produzione più economico e sicuro e ha costruito un impianto in grado di produrre 150 tonnellate di composto all’anno.
Come riportato da Renovatio 21, la Cina è impegnata nella collaborazione per il nucleare civile con Paesi africani come la Nigeria e il Sudan. Il Dragone persegue da anni sviluppi nella fusione e altre innovazioni come le centrali al torio, ma anche l’utilizzo del plasma.
Secondo una notizia del mese scorso, la Cina costruirà un reattore a fusione-fissione entro il 2030. Ad inizio anno era merso che la Cina aveva triplicato le importazioni di uranio dalla Russia.
Il Pentagono ritiene che la Cina stia espandendo «rapidamente» il suo arsenale atomico. Di contro, Pechino l’anno passato ha dichiarato che gli USA sono «la più grande minaccia nucleare».
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Cina
Cina, polizia contro casa di preghiera non registrata, cattolico in coma

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