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Morte cerebrale

Vescovo tedesco contesta la morte cerebrale

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In una lettera al settimanale cattolico Die Tagespost, il vescovo emerito di Fulda, Monsignor Heinz Josef Algermissen, ha pubblicamente messo in discussione il concetto di morte cerebrale come criterio neurologico di morte, secondo quanto riportato dal sito web CNA Deutsch. In questa lettera affronta il dibattito sulla validità del criterio neurologico di morte.

 

Per porre il problema, mons. Algermissen spiega che «l’essere umano in stato di morte cerebrale si trova in un transitus [passaggio] interrotto da misure esterne di medicina intensiva. Gli viene impedito di completare il processo di morte che è già iniziato».

 

«Questo stato, indotto artificialmente dalle risorse della terapia intensiva, presenta caratteristiche sia della vita – come la regolazione della temperatura o certi riflessi – sia della morte, il che rende estremamente difficile determinarne lo status ontologico e morale», ha affermato il presule.

 

Ne deduce una domanda: «siamo davvero di fronte a un cadavere che assomiglia semplicemente a un essere umano vivente? O non dovremmo piuttosto pensare al paziente con morte cerebrale come a qualcuno condannato a morte, ma non ancora del tutto morto?» La domanda è davvero cruciale.

 

Secondo il vescovo emerito, la ricerca neurologica «suggerisce che non si dovrebbe attribuire al cervello la funzione di integrare l’organismo nel suo insieme, il che rende plausibile dichiarare la morte di persone le cui funzioni cerebrali sono state irrimediabilmente perse».

 

Infine, il vescovo Algermissen conclude: «Un trapianto di organi non è una semplice riparazione consistente nella sostituzione di una parte difettosa. Gli esseri umani non hanno solo un corpo, ma sono anche corpi permeati di spirito. Parlare di queste questioni richiede sincerità».

 

Il filosofo tedesco Josef Seifert, che si oppone all’attuale concetto di morte cerebrale, ritiene che la pratica dell’espianto di organi in caso di morte cerebrale debba essere urgentemente rivista da una prospettiva filosofica ed etica. «Mettiamo in guardia contro il pericolo di trattare l’essere umano come un mezzo per raggiungere un fine e di negare la sua dignità fondamentale», ha affermato.

 

 

 

Una citazione di Giovanni Paolo II

La CNA Deutsch si oppone a loro con un testo di Giovanni Paolo II, risalente al 2000, in cui si afferma che «il criterio attualmente adottato per stabilire la morte, vale a dire la cessazione completa e irreversibile di ogni attività cerebrale, non contrasta con gli elementi essenziali di un’antropologia razionale, purché venga applicato con perfetto rigore». Ma questa citazione non basta.

 

Almeno per comprendere il vero pensiero del papa polacco. Infatti, mentre la Pontificia Accademia delle Scienze, riunitasi nell’ottobre 1985 per studiare l’esatta determinazione del momento della morte, aveva concluso adottando la definizione di morte del famoso rapporto di Harvard, egli ordinò una nuova riunione nel dicembre 1989, alla quale partecipò anche la Congregazione per la Dottrina della Fede.

 

Le conclusioni rimasero sostanzialmente le stesse, ma con l’accento sul fatto che non si poteva determinare il momento della morte (in fieri), ma cercare i segni della morte avvenuta (in facto esse); nonché la cautela richiesta per affermare questa diagnosi e il necessario affinamento dei metodi. Per il resto, e a queste condizioni, la tassa potrebbe essere ammessa.

 

Visibilmente preoccupato per l’argomento, Giovanni Paolo II ha insistito sulla certezza della morte da acquisire prima di togliere una vita: «Più precisamente, esiste una reale probabilità che la vita la cui continuazione è resa impossibile dall’asportazione di un organo vitale sia quella di una persona vivente, mentre il rispetto dovuto alla vita umana ne proibisce il sacrificio».

 

Due anni dopo, durante un discorso al congresso internazionale della Society of Organ Sharing, il 20 giugno 1991, Giovanni Paolo II ricordò la necessità del consenso informato (in contrapposizione al consenso presunto); Non fece alcun riferimento all’accertamento della morte, ma ricordò che qualsiasi riscossione doveva essere effettuata dopo la morte.

 

Nel 1999, in occasione del V incontro della Pontificia Accademia per la Vita, si tornò a discutere di morte cerebrale e donazione di organi, e tra i medici cattolici emerse una netta divisione su questo tema, anche se gli oppositori sembravano essere una minoranza.

 

Nel 2004 – quindi dopo il discorso del 2000 sopra riportato – Giovanni Paolo II convocò una nuova riunione della Pontificia Accademia delle Scienze per riesaminare il concetto di morte cerebrale e di trapianto, dal titolo: I segni della morte. Si affermò l’atteggiamento contrario al concetto di morte cerebrale. Dopo l’incontro, quando gli Atti erano pronti per la stampa, il «Vaticano» fermò tutto.

 

Inoltre, la stessa Accademia organizzò l’anno successivo, sotto Benedetto XVI, un nuovo convegno, dallo stesso titolo «I segni della morte», con la partecipazione quasi esclusiva di personalità favorevoli al concetto di morte cerebrale. Gli atti furono pubblicati nel marzo 2007. La riunione del 2006 approvò pienamente il concetto di morte cerebrale.

 

I protagonisti contrari alla definizione data di morte cerebrale hanno risposto pubblicando i loro interventi nel libro Finis Vitae edito grazie al sostegno di Roberto de Mattei e del Consiglio Nazionale delle Ricerche, di cui è stato vicepresidente.

 

Questa esposizione dei fatti dimostra che la situazione non era affatto chiara nel pensiero di Papa Giovanni Paolo II, il quale metteva costantemente in discussione il concetto di morte cerebrale. Va aggiunto che Josef Ratzinger, in qualità di cardinale e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha rilasciato diverse dichiarazioni in cui ha manifestato il suo scetticismo, se non addirittura la sua contrarietà, al concetto.

 

Conclusione

Vale la pena di notare attentamente questa citazione di Pio XII, tratta dal Discorso ai membri dell’Istituto Italiano di Genetica Gregorio Mendel sui problemi della rianimazione, del 24 novembre 1957: «le osservazioni generali ci permettono di credere che la vita umana continua finché le sue funzioni vitali – a differenza della semplice vita degli organi – si manifestano spontaneamente o anche con l’aiuto di processi artificiali».

 

«Un buon numero di questi casi sono soggetti a dubbio insolubile, e devono essere trattati secondo le presunzioni di diritto e di fatto, di cui abbiamo parlato». Ha detto a questo proposito: «in caso di dubbio insolubile, si può anche ricorrere a presunzioni di diritto e di fatto. In generale, ci concentreremo sulla questione della permanenza della vita, perché è un diritto fondamentale ricevuto dal Creatore e che deve essere dimostrato con certezza per essere perso».

 

È proprio questo che si può concludere: come dice mons. Algermissen, proprio per il fatto stesso della rianimazione praticata, sembra decisamente dubbio che si possa applicare un qualsiasi criterio di morte a una persona in coma profondo. E poi il dubbio deve essere risolto a favore della vita.

 

La strada è quindi aperta solo ai trapianti da donatori viventi.

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Morte cerebrale

La «morte cerebrale» è stata inventata per prelevare più organi

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Renovatio 21 pubblica questo testo della dottoressa Heidi Kleissig apparso su LifeSiteNews.   In un recente editoriale del New York Times, tre medici affiliati a centri trapianti hanno proposto di ampliare la definizione legale di morte per ottenere più organi da trapiantare. È interessante notare che, alla fine del loro articolo, hanno ammesso che lo abbiamo già fatto in passato:   Nel 1968, un comitato di medici ed esperti di etica di Harvard formulò una definizione di morte cerebrale, la stessa definizione di base utilizzata oggi dalla maggior parte degli stati. Nel suo rapporto iniziale, il comitato osservò che «c’è un grande bisogno di tessuti e organi di persone in coma irreparabile per ripristinare la salute di coloro che sono ancora in grado di sopravvivere». Questa valutazione schietta fu eliminata dal rapporto finale a causa dell’obiezione di un revisore. Ma è quella che dovrebbe guidare le politiche odierne in materia di morte e trapianto di organi.

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Morte cerebrale/morte secondo criteri neurologici

Poco dopo che il dottor Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto di cuore, 13 uomini della Harvard Medical School proposero l’idea della morte cerebrale in un articolo fondamentale, «Una definizione di coma irreversibile». Il loro articolo non contiene riferimenti scientifici e inizia con queste parole: «il nostro scopo principale è definire il coma irreversibile come un nuovo criterio di morte».   Senza test, studi o prove, questi uomini decisero che alcune persone in coma (che in precedenza erano sempre state considerate vive) potessero essere ridefinite come morte. L’unica motivazione fornita dal comitato per la riclassificazione delle persone in coma come cadaveri era l’utilità. Affermarono che la vita di queste persone era un peso per loro stesse e per gli altri, e che ridefinirle come morte avrebbe già liberato posti letto nelle unità di terapia intensiva e risolto la controversia sul reperimento dei loro organi.   Questa nuova definizione è stata certamente di grande utilità perché ha permesso ai medici di aggirare la regola del donatore morto. La regola del donatore morto è una massima etica che stabilisce che le persone non devono essere né vive al momento dell’espianto degli organi né uccise dal processo di espianto. Semplicemente ridefinendo le persone con gravi lesioni cerebrali come già morte, la lettera della regola del donatore morto viene soddisfatta con un gioco di prestigio. Ma cambiare una definizione non cambia la realtà. Le persone con una diagnosi di morte cerebrale hanno lesioni neurologiche e la loro prognosi può essere di morte, ma non sono già morte.   Dio è l’unico autore e donatore della vita. Egli stesso dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa (At 17,25), perché in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17, 28). Siamo stati creati da Lui come una stretta unione di carne materiale e spirito immateriale, un composto corpo-spirito. La Bibbia contraddice la visione materialista secondo cui siamo solo il nostro cervello. «Formò dunque il Signore Dio l’uomo dal fango della terra, e gli inspirò in faccia lo spirito della vita, e l’uomo divenne persona vivente.» (Gen 2,7). Nel 1312, il Concilio di Vienne riconobbe questo insegnamento biblico e definì l’anima come la forma – il principio immediato della vita e dell’essere – del corpo umano.   La morte avviene quando lo spirito immateriale si separa dal corpo materiale. Ma poiché non disponiamo di strumenti per rilevare il momento esatto in cui lo spirito se ne va, storicamente le persone hanno utilizzato i segni indice della perdita del battito cardiaco, della perdita del respiro e del passare del tempo per essere certi che la morte fosse avvenuta.   Le nostre tradizioni della veglia, della visita e della veglia funebre fornivano sia la certezza che la morte fosse avvenuta sia il tempo per elaborare il lutto. Ma una diagnosi di morte cerebrale ignora la questione se lo spirito donato da Dio se ne sia andato, sostituendola con la scomparsa delle funzioni neurologiche.   Il dottor Edmund D. Pellegrino, direttore fondatore del Pellegrino Center for Bioethics presso la Georgetown University, si è espresso contro la morte cerebrale:   «Gli unici segni indiscutibili della morte sono quelli che conosciamo fin dall’antichità, vale a dire: perdita della sensibilità, del battito cardiaco e della respirazione; pelle screziata e fredda; rigidità muscolare; ed eventuale putrefazione come risultato dell’autolisi generalizzata delle cellule del corpo».   «Ho scelto di dare priorità al benessere del paziente prima che diventi un donatore, perché non si deve arrecare alcun danno, anche se ne deriva un beneficio. Nessuna persona dovrebbe essere sacrificata per il bene di un’altra. Questo è un precetto morale che riconosce il valore intrinseco di ogni essere umano».   Da molti anni i medici mettono in discussione il concetto di morte cerebrale, nonostante il fatto che «mettere in discussione lo status quo riguardo al prelievo di organi da pazienti dichiarati morti secondo criteri neurologici abbia delle conseguenze».   Fin dal suo inizio, la «morte cerebrale» è stata guidata dal desiderio di organi vitali. Il dottor Eelco F. Wijdicks, autore delle linee guida sulla morte cerebrale dell’American Academy of Neurology (AAN) del 1995, 2010 e 2023, ha affermato nel 2006:   «La diagnosi di morte cerebrale è determinata dall’esistenza di un programma di trapianto o dalla presenza di chirurghi specializzati. Non credo che l’esame per la morte cerebrale, nella pratica, avrebbe molto significato se non fosse finalizzato al trapianto». [Questa citazione si trova a p. 50 qui].

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La ricerca ha dimostrato che le persone con diagnosi di morte cerebrale hanno ancora funzioni cerebrali: il 20% (di quelle sottoposte a test) presenta attività EEG e oltre il 50% ha ancora un ipotalamo funzionante , che è una parte del cervello. Inoltre, le ben note capacità delle persone «cerebralmente morte», come la guarigione delle ferite, la lotta contro le infezioni, il parto sano e la risposta intatta allo stress dopo l’incisione per la rimozione degli organi, dimostrano che sono ancora vive.   Le ultime linee guida AAN (2023) sulla morte cerebrale ammettono, nella sezione dedicata ai metodi, che non vi sono prove scientifiche attendibili a sostegno della diagnosi di morte cerebrale. «A causa della mancanza di prove scientifiche di alta qualità sull’argomento», le nuove linee guida sono state definite tramite tre votazioni anonime. È preoccupante che, dopo quasi 60 anni di dichiarazioni di morte cerebrale, non vi siano ancora prove scientifiche di alta qualità a sostegno di questa diagnosi.   Inoltre, il modo in cui i medici diagnosticano la morte cerebrale utilizzando le linee guida AAN non è conforme alla legge ai sensi dell’Uniform Determination of Death Act (UDDA). La legge richiede la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cervello, incluso il tronco encefalico, per una determinazione neurologica della morte.   Tuttavia, l’esame di morte cerebrale AAN verifica solo il coma, la perdita di alcuni riflessi del tronco encefalico e l’assenza di respirazione spontanea. Inoltre, le linee guida AAN affermano esplicitamente che la morte cerebrale può essere dichiarata in presenza di una funzione cerebrale in corso: la funzione dell’ipotalamo. Ciò è in contrasto con la legge, che richiede che tutte le funzioni dell’intero cervello debbano essere cessate irreversibilmente.   La morte cerebrale non è morte perché il concetto di morte cerebrale non riflette la realtà del fenomeno della morte. Pertanto, qualsiasi linea guida per la sua diagnosi non avrà alcun fondamento scientifico.   Le persone dichiarate cerebralmente morte sono neurologicamente disabili e la loro prognosi può essere fatale, ma sono ancora vive. Le persone viventi con una prognosi sfavorevole non dovrebbero essere ridefinite come morte in nome della donazione di organi.   Heidi Klessig   La dottoressa Heidi Klessig è un’anestesista in pensione e specialista nella gestione del dolore. Scrive e parla di etica nella donazione e nel trapianto di organi. È autrice di The Brain Death Fallacy e i suoi lavori sono disponibili su respectforhumanlife.com.

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Morte cerebrale

Persone «cerebralmente morte» vengono utilizzate come topi da laboratorio per trapianti di organi animali geneticamente modificati

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Renovatio 21 traduce e ripubblica questo articolo della dottoressa Heidi Klessig apparso su LifeSiteNews.

 

In una preoccupante violazione dei diritti umani, gli scienziati cinesi hanno recentemente utilizzato un uomo di 39 anni «in morte cerebrale» come ospite per lo xenotrapianto, impiantandogli un polmone di un maiale geneticamente modificato.

 

I ricercatori cinesi hanno riferito sulla rivista Nature Medicine che l’uomo è rimasto emodinamicamente stabile per tutta la durata dell’esperimento: «durante tutto il periodo postoperatorio, i parametri fisiologici ed emodinamici dinamici sono rimasti stabili, indicando la stabilità fisiologica e l’omeostasi del ricevente per un periodo di osservazione di 216 ore».

 

Secondo un servizio giornalistico, l’uomo «morto» ha vissuto per nove giorni producendo anticorpi contro l’organo estraneo prima di morire:

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«Tuttavia, 24 ore dopo il trapianto, il polmone mostrava segni di accumulo di liquidi e danni, probabilmente dovuti inizialmente a un’infiammazione correlata al trapianto. E nonostante al ricevente fossero stati somministrati potenti farmaci immunosoppressori, l’organo trapiantato è stato progressivamente attaccato dagli anticorpi, con conseguenti danni significativi nel tempo».

 

La quantità di doppi sensi orwelliani in questo resoconto è sconcertante. Come si può mantenere in vita un uomo morto? Come si può mantenere un uomo morto sufficientemente stabile da poter essere utilizzato come cavia per l’impianto di un organo animale? Come si può produrre anticorpi in un uomo morto? Come si può morire di nuovo dopo nove giorni?

 

La risposta, ovviamente, è che le persone «cerebralmente morte» non sono morte. Hanno un cuore pulsante, assorbono ossigeno e rilasciano anidride carbonica attraverso i polmoni, metabolizzano i nutrienti, eliminano le scorie, combattono le infezioni e rigettano organi estranei. Si comportano esattamente come ci si aspetterebbe che si comportassero le persone con lesioni cerebrali, e non c’è assolutamente alcuna prova che le loro anime se ne siano andate.

 

Ma queste persone con lesioni neurologiche sono state ridefinite come morte per ottenere legalmente i loro preziosi organi vitali per il trapianto. E proprio perché le persone «cerebralmente morte» sono ancora vive e stabili (ma sono state private dei loro diritti umani), i medici le usano da anni come ospiti di prova per xenotrapianti.

 

Storicamente, lo xenotrapianto, ovvero il trapianto di organi da altre specie nell’uomo, ha sempre fallito a causa di incompatibilità e rigetto. Nel 2022, un paziente americano è stato il primo a ricevere un trapianto di cuore di maiale geneticamente modificato. Il maiale donatore era stato sottoposto all’eliminazione di alcuni geni suini e all’aggiunta di geni umani per rendere il suo cuore meno probabile da riconoscere come estraneo dal ricevente umano. David Bennett sr. è sopravvissuto 45 giorni prima di morire apparentemente a causa di un virus suino che si è insinuato nel suo nuovo cuore.

 

Nell’agosto del 2023, due uomini in «morte cerebrale» sono stati utilizzati come cavie per i test, quando i ricercatori dell’Università dell’Alabama e del Langone Transplant Institute della New York University impiantarono chirurgicamente reni di maiale geneticamente modificati nei loro addominali. «Con il consenso informato dei familiari, il defunto ha ricevuto supporto cardiopolmonare in un ambiente di terapia intensiva per tutta la durata dello studio».

 

Uno di questi uomini indifesi in «morte cerebrale» è stato tenuto in vita come una cavia da laboratorio per oltre un mese, mentre i medici studiavano per quanto tempo avrebbe funzionato il rene xenotrapiantato. Al termine di questi esperimenti, entrambi gli uomini furono sacrificati per l’esame istologico.

 

L’esperto di etica medica Joel Zivot MD non è rimasto impressionato: «in generale, la correttezza o meno di questo tipo di procedura sono le conseguenze di una serie di scelte morali, finora non segnalate e non esaminate, e includono i problemi della morte cerebrale, della sperimentazione umana, del consenso, del razionamento e dei diritti degli animali». Egli sottolinea che il concetto di «morte cerebrale» ha trasformato le persone in risorse, merci da utilizzare per i preziosi organi vitali che possiedono.

 

È difficile immaginare che un esperimento di questa natura riceva il consenso non solo della famiglia, ma anche dei comitati di revisione istituzionale e dei comitati etici di questi rispettivi ospedali. Quando il Consiglio Presidenziale di Bioetica ha scritto il suo libro bianco sulla determinazione della morte nel 2008, giustificò moralmente la dichiarazione di morte secondo criteri neurologici («morte cerebrale»), sostenendo che continuare a ventilare e assistere queste persone violava il rispetto dovuto ai defunti. Chiaramente, quel rispetto ora è andato a farsi benedire.

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E la sperimentazione continua. Nel marzo 2024, scienziati cinesi hanno trapiantato il fegato di un maiale geneticamente modificato in un essere umano in «morte cerebrale». I ricercatori dell’azienda Clonorgan Biotechnology di Chengdu hanno rimosso tre antigeni di maiale dall’animale donatore utilizzando la tecnologia di editing genetico e li hanno sostituiti con tre proteine ​​umane.

 

Il responsabile del team, Dou Kefeng, ha affermato che, poiché le funzioni epatiche sono complesse, i fegati di maiale geneticamente modificati non possono attualmente sostituire completamente i fegati umani. L’esperimento «fornisce una base teorica e dati a supporto dell’applicazione clinica dello xenotrapianto», ha aggiunto. Dopo 10 giorni, l’esperimento è stato interrotto e il paziente è stato sacrificato in modo che il fegato potesse essere studiato.

 

Siamo pronti a dire basta? Oppure i nostri desideri superano la nostra moralità quando consideriamo i potenziali benefici che tale sperimentazione potrebbe portare?

 

La «morte cerebrale» non è la morte, ma un costrutto sociale utilitaristico e una finzione giuridica. Le persone «cerebralmente morte» sono ancora vive e meritano di essere trattate come persone, non usate come cavie da laboratorio.

 

Heidi Klessig

 

La dottoressa Heidi Klessig è un’anestesista in pensione e specialista nella gestione del dolore. Scrive e parla di etica nella donazione e nel trapianto di organi. È autrice di The Brain Death Fallacy e i suoi lavori sono disponibili su respectforhumanlife.com.

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Morte cerebrale

Malori improvvisi e morte cerebrale: combo inarrestabile per la caccia agli organi

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Le cronache sono piene di malori improvvisi, come testimonia il resoconto settimanale che Renovatio 21 pubblica regolarmente da diverso tempo.   Coloro che si ritengono più furbi e intelligenti di coloro che vengono definiti con spregio «complottisti» sostengono che non si tratta di un’anomalia statistica, ma che in realtà tali episodi sono sempre esisti. Sempre costoro accusano i dissenzienti di speculare sulle tragedie e di fare insinuazioni senza avere le prove.   Già, le prove. Come se il sistema criminale che ha in qualche modo costretto milioni di persone a farsi iniettare un siero sperimentale non abbia calcolato tutto, anche il fatto che stabilire un legame diretto tra la vaccinazione di massa e l’innegabile impennata nella popolazione generale di malori improvvisi, turbo-tumori e malattie autoimmuni sia pressoché impossibile.

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Primo, perché per appurare tale nesso causale sono necessarie indagini autoptiche approfondite e specifiche che in genere non vengono fatte; secondo, perché i parenti dei defunti spesso si rifiutano, per svariati motivi, di richiedere l’esame autoptico sul corpo del loro caro; terzo, perché gli effetti dei veleni a mRNA possono manifestarsi anche a medio e lungo termine, soprattutto sotto forma di malattie a decorso molto rapido, rendendo ancora più complicato, se non impossibile, accertarne la correlazione coi sieri.   E poi, anche nel caso in cui il legame tra vaccinazione e patologie mortali venga ufficialmente ammesso, come nel caso della povera Camilla Canepa, nulla cambia a livello di opinione pubblica: il sierato e il plurisierato, infatti, attraverso il meccanismo psicologico di rimozione, tende ad allontanare dalla propria consapevolezza pensieri e situazione che gli provocano ansia e angoscia. Per la massa che si è lasciata «marchiare» sotto ricatto è come se gli anni a cavallo del 2020 non fossero mai esistiti. Ci avete fatto caso?   Ad ogni modo, se è vero che non abbiamo la prova provata che la stragrande maggioranza dei malori improvvisi sia causato dalle «sacre» inoculazioni, abbiamo la certezza matematica che di molti malori o incidenti ne stia approfittando la fiorente industria dei trapianti di organi.   Solo negli ultimi giorni si sono registrati diversi episodi di cronaca in cui giovani e giovanissimi sono stati dichiarati cerebralmente morti e privati dei loro preziosi organi. Nella quasi totalità dei casi la dichiarazione di morte cerebrale sopraggiunge dopo poche ore o giorni dall’evento traumatico, in modo tale da non consentire che le condizioni di salute del malcapitato possano migliorare attraverso la somministrazione di adeguati trattamenti sanitari.   Anzi, per effettuare le invasive procedure di accertamento della morte encefalica  vengono interrotte le cure al paziente, il quale viene sottoposto a test pericolosi e potenzialmente letali che non di rado ne peggiorano il quadro clinico. E’ il caso del famigerato test di apnea di cui abbiamo più volte denunciato l’incredibile  pericolosità dalle pagine di Renovatio 21   Solo per fare alcuni esempi recenti, è possibile che una ragazza di 14 anni, colpita presumibilmente da embolia polmonare, possa essere dichiarata senza speranza solamente poche ore dopo il malore improvviso?    È possibile che un bambino di 6 anni possa essere dichiarato morto dopo solo un giorno dall’essere stato investito da una macchina mentre attraversava la strada?    È plausibile che ad un bambino di 2 anni caduto nella piscina dei nonni e rianimato dai sanitari del 118 possa essere accertato un danno cerebrale irreversibile appena due giorni dopo?   Anche volendo ignorare il fatto che la morte cerebrale sia un criterio inventato dalla comunità scientifica internazionale al solo scopo di consentire la predazione degli organi e l’eliminazione del comatoso, non sarebbe comunque un gesto di opportuna prudenza attendere l’evoluzione dello stato di salute del paziente prima di emettere verdetti definitivi? Soprattutto quando si tratta di giovani vite con grandi e spesso sorprendenti capacità di recupero?   Sono domande  che ci poniamo.   Il problema è che nel momento in cui l’efficientissima rete dei trapianti (in un sistema sanitario che fa acqua da tutte le parti l’unica cosa che funziona a dovere è proprio, chissà perché, la macchina delle predazioni) rileva la compatibilità del potenziale «donatore» con uno o più pazienti in lista di attesa, la priorità non diventa più quella di salvare la vita del malcapitato o assicuragli le migliori cure, ma di procurare organi freschi per il trapianto, soprattutto se si tratta di quelli di bambini o adolescenti.   La nostra non è un’illazione ma una constatazione che si desume dai fatti: qual’è il motivo che può giustificare la fretta con cui i sanitari attivano le procedure di accertamento di morte cerebrale, se non quello di procedere con una certa urgenza all’espianto degli organi?

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Non possiamo sapere con certezza se queste giovani vite avrebbero potuto riprendersi parzialmente o addirittura completamente, come del resto è avvenuto in molti casi documentati in cui era stata dichiarata la morte encefalica.   Sappiamo però che non corrisponde al vero  la frase  «il paziente non ce l’ha fatta», ripetuta automaticamente dalle cronachedei giornali. Si tratta infatti di soggetti che sono stati rianimati e le cui condizioni cliniche erano state stabilizzate.   La morte cerebrale non sopraggiunge naturalmente, visto che non esiste, ma viene attivamente ricercata, attraverso protocolli variabili da Paese a Paese che non di rado producono essi stessi il peggioramento del quadro clinico del paziente.    In altri termini, si va a cercare solo ciò che si vuole attivamente trovare. E si vuole trovare la morte.   Alfredo De Matteo  

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