Spirito
Se il papa cita la filosofa eco-ciberfemminista dello «Cthulhucene»
È già stata fatta notare in questo sito la teologia di stampo panteistico della Laudate Deum (in continuità con Laudato si’), insieme alla dogmatizzazione della causa antropica del cambiamento climatico. Vorremmo qui brevemente evidenziare la citazione di un’autrice estremamente particolare, alla nota 42, che getta un’ulteriore ombra sulle fonti della nuova «ecoteologia».
Al numero 66 dell’esortazione di Papa Bergoglio leggiamo una frase piuttosto oscura: «Dio ci ha uniti a tutte le sue creature. Eppure, il paradigma tecnocratico può isolarci da ciò che ci circonda e ci inganna facendoci dimenticare che il mondo intero è una “zona di contatto”». L’oscurità del testo, che rimanda al panteismo del «tutto è collegato» (1) del sinodo amazzonico, risulta aggravata dalla nota a piè di pagina: si rimanda a un libro di Donna J. Haraway, dal titolo When species meet, edito a Minneapolis nel 2008.
Chi è Donna J. Haraway?
Pochi ricordano chi sia la Haraway, che ebbe un momento di notorietà soprattutto nel corso degli anni Novanta. La scrittrice e filosofa è considerata capofila di un pensiero che si definiva «cyberfemminista», «ecofemminista» o perfino «femminismo post-umano», «post-genderismo». Non è sbagliato ritenere che la cifra del suo lavoro – un attacco feroce all’antropocentrismo – è estendere la teoria del gender alle questioni tecnologiche (come la modificazione del corpo umano) e oltre, fino al regno animale.
Zoologa e filosofa, ha perfezionato gli studi a Yale, da cui è stata pure premiata come grande ex-studentessa. Va ricordato che è cresciuta con una madre cattolica e la scuola delle suore del Colorado. Citiamo anche il fatto che prese una borsa di studio Fulbright – secondo alcuni, un sistema di cooptazione di individui promettenti da tutto il mondo per mandare avanti l’agenda dell’establishment angloamericano – per andare a Parigi a studiare filosofia dell’evoluzione alla Fondazione Teilhard de Chardin.
Il «cyberfemminismo»
La popolarità della pensatrice statunitense cominciò nel 1985, quando pubblico sulla rivista Socialist Review il suo Manifesto per i cyborg: scienza, tecnologia e femminismo socialista negli anni ’80, divenuto poi semplicemente Manifesto Cyborg, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1995. Si tratta di un saggio considerato una pietra miliare nel nuovo femminismo, che negando in ultima analisi anche l’identità della donna, si pone in contrapposizione al vecchio femminismo.
La Haraway predica un superamento dei dualismi sociali e biologici: critica la struttura binaria della cultura occidentale che ha generato divisioni tra categorie come uomo/donna e naturale/artificiale. Questi dualismi, afferma la Haraway, «sono stati tutti sistematici nelle logiche e nelle pratiche di dominio delle donne, delle persone di colore, della natura, dei lavoratori, degli animali… tutti costituiti come altri».
Viene quindi introdotto, come sintesi liberatoria, il concetto del cyborg, un’entità che rappresenta una fusione tra organico e tecnologico, oltrepassando le tradizionali distinzioni di genere e natura. Il cyborg sfida l’idea della natura umana immutabile, poiché sempre più persone utilizzano tecnologie per estendere le proprie capacità: protesi, by-pass, apparecchi acustici, persino le dentiere possono indicare che l’uomo-macchina è già realtà.
Il concetto di cyborg rappresenta un rifiuto dei confini rigidi, in particolare quelli che separano «umano» da «animale» e «umano» da «macchina».
«Il cyborg non sogna una comunità sul modello della famiglia organica, questa volta senza il progetto edipico. Il cyborg non riconoscerebbe il Giardino dell’Eden; non è fatto di fango e non può sognare di ritornare polvere» scrive il manifesto della Haraway.
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«Antispecismo» e odio della natalità
Nei due libri degli anni Novanta Primate Visions: Gender, Race, and Nature in the World of Modern Science e Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature la Haraway torna ad usare la metafora del cyborg per spiegare come le contraddizioni fondamentali nella teoria e nell’identità femminista dovrebbero essere congiunte, piuttosto che risolte, in modo simile alla fusione tra macchina e organismo nei cyborg.
Nel testo la Haraway critica il capitalismo rivelando come gli uomini abbiano sfruttato il «lavoro riproduttivo» delle donne, di modo che esse non raggiungessero la piena uguaglianza nel mercato del lavoro. Mettere al mondo un figlio, quindi, è una grande minaccia per la vita di una donna in carriera.
La filosofa ha premuto su questo punto su un testo più recente chiamato Making kin, scaturito da un gruppo di lavoro con altre cinque pensatrici femministe. Il succo del discorso è che non bisogna fare bambini (un atto inquinante, che genera anche altri problemi), ma riorganizzare in senso «famigliare» le persone che già esistono: un qualcosa che sta tra la ritribalizzazione della società e il tentativo di creare surrogati della famiglia, come avviene per quelli che invece dei figli hanno cani e gatti o perfino oggetti.
Questo tema degli «animali-compagni» al di là delle differenze di specie ritorna proprio nel libro citato dal Papa.
Chtulucene
Il culmine del pensiero della Haraway si ha nel libro Chtulucene, uscito nel 2016. Per chi non lo sapesse, Chtulhu è la mostruosa divinità tentacolare dei racconti dell’orrore di H.P. Lovecraft, che attende negli abissi di tornare sulla terra spazzando via l’uomo.
Per la Haraway, bisognerà attraversare tale fase per salvarsi dal disastro dell’antropocene (cioè, letteralmente, «l’era degli uomini»), segnato dalla sovrappopolazione.
«Cosa succede quando il genere umano, dopo aver irrimediabilmente alterato gli equilibri del pianeta Terra, smette di essere il centro del mondo? E nel pieno della crisi ecologica, che relazioni è possibile recuperare non solo tra individui umani, ma tra tutte le specie che il pianeta lo abitano?» si chiede il libro. La risposta, dice la Haraway, è attuare in questo pianeta infetto un pensiero «tentacolare», un cambio di paradigma dove, come spiegato sopra, invece di generare figli si creano «parentele» con «decisioni intime e personali per creare vite fiorenti e generose senza mettere al mondo bambini».
A questo punto occorre seriamente interrogarsi su come una tale autrice possa essere considerata un punto di riferimento per un’esortazione apostolica: anzi è una dei tre soli autori citati, escludendo lo stesso Papa Francesco (o i vari sinodi che ne riecheggiano il pensiero), Paolo VI e le Nazioni Unite.
Appare chiaro che un tale «magistero» non ha più alcun legame con la Tradizione e persegue un’agenda completamente estranea al cristianesimo, portando il modernismo alle sue più vere e profonde conseguenze: l’assunzione in toto del pensiero dominante nel mondo, fosse anche il più palesemente anticristico.
NOTE
1) Instrumentum laboris del Sinodo per l’Amazzonia, n. 25: «La vita delle comunità amazzoniche non ancora colpite dall’influenza della civiltà occidentale, si riflette nelle credenze e nei riti in merito all’agire degli spiriti, della divinità – chiamata in tantissimi modi – con e nel territorio, con e in relazione alla natura. Questa cosmovisione è raccolta nel ‘mantra’ (sic) di Francesco: “tutto è collegato”» (n. 25). Se questa non è un’espressione del panteismo di stampo modernista, anzi direttamente pagano, ci piacerebbe sapere cosa potrebbe definirsi tale.
Articolo previamente apparso su FSSPX.news.
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Spirito
Corredentrice e Mediatrice: cosa chiedevano i vescovi alla vigilia del Vaticano II
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Spirito
La Vergine Corredentrice contro il Serpente Maledetto: omelia dell’Immacolata di mons. Viganò
Renovatio 21 pubblica l’omelia dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò nell’Immacolata Concezione della Santa Vergine Maria

Tu Reparatrix
Omelia nell’Immacolata Concezione della Beatissima Semprevergine Maria
Tuti sumus te tutante,
Virgo potestatis tantæ,
Dei ligans omnipotentiam.
Fa’ che possiamo esser protetti da Te,
Vergine che hai avuto tanto potere da Dio,
da farTi amministrare la Sua onnipotenza.
Sequentia O mira claritas
Questo giorno benedetto, dedicato alla celebrazione dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, ci offre l’occasione di tessere una pubblica e solenne riparazione all’onore dell’Augustissima Madre di Dio, dopo che un odioso documento vaticano – la Nota Mater populi fidelis – ha osato dichiarare «sempre impropria» l’attribuzione del titolo di Mediatrice e Corredentrice a Colei che il Padre ha voluto come Figlia, il Figlio come Madre e lo Spirito Santo come Sposa.
Quel serpente maledetto, cui Ella schiaccerà il capo, continua ad insidiarLe il virgineo calcagno, sprizzando il veleno mortifero che già vomitarono gli eresiarchi di tutti i tempi. A riprova dell’inaudito affronto alla Santissima Madre, valga lo scandalo dei semplici, che La venerano come Addolorata Corredentrice e come Mediatrice di tutte le Grazie.
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Nel celebrare le glorie della nostra Signora e Regina, non possiamo non vedere nella Sua Concezione Immacolata la necessaria premessa e preparazione non solo dell’Incarnazione del Verbo Eterno del Padre, ma anche dell’immolazione della Madre del Verbo Incarnato, vittima pura, santa e immacolata per Grazia specialissima, prima creatura degna di unirSi al Figlio nell’oblazione al Padre.
Chi più di Lei, preservata da ogni macchia, sarebbe stato degno di tale privilegio? Chi più di Lei avrebbe avuto titolo di offrire la propria mistica co-Passione al Sacrificio perfetto di Nostro Signore? E come avrebbe Ella potuto rispondere con maggiore carità all’esempio del divin Figlio, se non lasciandoSi trafiggere, con altrettanta carità, dalle acuminate spade che fanno di Lei la Mater dolorosa e la Regina Crucis?
Nostra Signora è infatti Regina della Croce in virtù della co-Passione e della Corredenzione. Se Cristo regna dalla Croce – Regnavit a ligno Deus; se la Croce è il trono di gloria della divina e universale Signoria del Re dei Re; come avrebbe potuto l’Augustissima Regina meritare questo titolo, se non allargando misticamente le proprie braccia sulla Croce del Figlio?
Mediante la mistica partecipazione alla Passione del Salvatore, Ella è Reparatrix, Riparatrice dei peccati grazie ai meriti acquisiti ai piedi della Croce: Redentrice anch’Ella, soli secunda Numini, seconda solo a Dio, e dunque Corredentrice, Stella polare nella notte oscura che riverbera la sola luce del Sol Justitiæ. Infine, grazie ai quei meriti Ella è costituita Mediatrix, Mediatrice di tutte le Grazie: tanto quelle proprie, quanto quelle infinite del Figlio. Ella è amministratrice del Tesoro dei meriti infiniti di Cristo, al quale si aggiungono i meriti dei Santi e – vale ricordarlo – anche i meriti di quanti, nel corso della loro vita, hanno completato nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo, per il bene del Suo Corpo che è la Chiesa (Col 1, 24).
L’offerta della Vergine – la più perfetta delle creature, eletta a Tabernacolo dell’Altissimo ed Arca dell’Alleanza – non poteva non costituire il più prezioso ornamento del Sacrificio di Cristo, e il più fulgido esempio di carità per noi, membra vive di quel Corpo Mistico che tutti ci unisce sulla Croce, memori delle parole del Salvatore: Chi vuole venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua (Mt 16, 24).
Quale guida migliore, in questa via Crucis personale ed ecclesiale, se non Colei che accompagnò il Signore con le Pie Donne lungo il Calvario? Colei che il Signore agonizzante ci ha dato per Madre e alla Quale ci ha affidati come figli? Colei che Lo ha visto spirare pro peccatis suæ gentis, per i peccati del Suo popolo? Colei che ne accolse il Corpo esanime e Lo pose nel sepolcro? Lo ripetiamo, forse senza attenzione, quando cantiamo la sequenza Stabat Mater: Crucifixi fige plagas cordi meo valide: imprimi a fondo nel mio cuore le piaghe del [Tuo Figlio] Crocifisso.
La Vergine Immacolata – Colei che mai avrebbe avuto bisogno di espiare colpe dalle quali era stata preservata – si fa Vittima con la Vittima divina, varca l’unica soglia che ammette al Cielo e da quella gloria eterna con il Figlio continua, come Madre e Avvocata, a riversare i fiumi di Grazie che la Provvidenza Le ha affidato come Tesoriera di Dio.
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Viviamo in un tempo di grandi sovvertimenti. La Vergine Santissima ci ha rassicurati: Alla fine, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Nella certezza del trionfo finale, cari fratelli, è contenuta anche la certezza della Croce, passaggio obbligato per una vera sequela Christi. La Regina Crucis ci dice: alla fine. Alla fine della salita verso il Calvario, perché è da quel trono che Ella ha misticamente conquistato unendoSi al Figlio nel Sacrificio al Padre che la Regina Crucis trionfa con il Suo divin Figlio. Dal trono della Croce, Ella regna come dispensatrice di tutte le Grazie che l’onnipotenza divina Le affida per amministrarle.
Affidiamo a Lei la Barca di Pietro, perché Ella la guidi e la accompagni nella passio Ecclesiæ come già accompagnò il Suo divin Figlio, Capo del Corpo Mistico, nella Sua dolorosa Passione, verso il trionfo della Pasqua eterna. Affidiamoci alla Vergine Immacolata con le parole della Sequenza O mira claritas:
Fa’ che possaiamo esser protetti da Te,
Vergine Immacolata,
che tanto potere hai avuto da Dio,
da farTi amministrare la Sua onnipotenza.
E così sia.
+ Carlo Maria Viganò
Arcivescovo
8 Dicembre MMXXV
In Conceptione Immaculata B.M.V.
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Immagine: Federico Barocci (1535–1612), Immacolata Concezione (circa 1575), Galleria Nazionale delle Marche, Urbino.
Immagine di Mongolo1984 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Spirito
Io difendo Ambrogio e Ambrogio difende me
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Devozione
Fu con quella cartolina in tasca che un pomeriggio d’inverno, senza saper neanche bene perché, entrai per la prima volta nella Basilica di Sant’Ambrogio. Vagai per la navata, che rispetto a quella del Duomo, notai, era più luminosa, e non so quanto la cosa mi piacesse. Osservai quella colonna stranissima che si erge a metà chiesa, che sopra monta un serpente di bronzo. Ero confuso. C’era pace. Quello, sì, lo sentivo distintamente. Non passò molto prima di venir magnetizzato verso il fondo della Basilica. E di lì, giù per quella mezza manciata di scalini. Ero entrato nella cripta. Non ero preparato: non mi aspettavo di trovare, in quel cunicolo buio sotto l’altare, tre scheletri — gli unici punti illuminati — e una grande cancellata di metallo a dividermi da essi. Di quella prima volta, conservo il ricordo nitido di una sola figura umana che stava dinanzi a me. Una ragazzina, che non arrivava ai vent’anni. Composta, nel suo cappottino elegante, stivali alti, gli occhi azzurri, che potevo scorgere con un bagliore proveniente dall’esterno, trasmettevano fierezza, ma non solo quella. Era in ginocchio davanti alla cancellata, rivolta verso i Santi. Le mani erano giunte in preghiera. Con le stesse, poi si aggrappava alle barre di metallo. Come se fossero le inferriate di un carcere, come se ardesse per liberare se stessa o qualcos’altro, tenuto appena oltre quelle sbarre. Cosa stava facendo? Perché una ragazza così — una ragazza di buona famiglia, che trovavo anche carina — aveva bisogno di fare una cosa simile? Pregare con tutto lo spirito uno scheletro? La risposta è in qualcosa che imparai a comprendere tempo dopo: devozione. La devozione era, in realtà, quella fierezza che avevo fugacemente letto negli occhi di Penelope, e che ora veniva irradiata da questa ragazzina. Una devozione speciale, personale, locale: quella fanciulla stava pregando il protettore della città. Il difensore proprio di quella città specifica. Passarono gli anni, passarono le fidanzate, le fortune, le sventure, gli studi, i lavori, le gioie, le disgrazie, i sindaci e i governi: eppure mi ritrovai sempre, e sempre più spesso, immerso in quella cripta. Con il tempo, mi ritrovai ad emulare quella ragazzina che non vidi mai più: in ginocchio, le mani a stringere forte quella grata, di cui anche ora che scrivo percepisco il freddo del metallo mentre tocca i miei palmi. A volte, su quella grata appoggio anche la testa, così, tra una sbarra e l’altra, nell’impossibilità di fare passare attraverso il mio cranio, così, in quello che è anche un appoggio di sollievo, sempre con il ferro gelido a toccarmi fino alle ossa. In ginocchio, a parlare con il Patrono. A chiedergli di proteggermi, e di proteggere tutta la città dove vivevo. Proteggere Milano, perché a Milano, talvolta a distanza talvolta no, avevo visto ogni sorta di cosa. Avevo visto la gente brutalizzarsi nel modo più abietto; avevo visto la cattiveria dei potenti; avevo visto la cattiveria degli impotenti; avevo visto uomini combattersi e ammalarsi; avevo visto amici accumulare danari perdendo l’umanità e anche la famiglia; avevo visto un uomo spararsi davanti all’ex fidanzata nel bar sottocasa; avevo visto coetanei inghiottiti da abissi notturni per non riemergere più; avevo visto la droga (sia quella illegale che quella legale) consumare le menti di una o due generazioni per non lasciare niente; avevo visto una bella conterranea fucilata dal convivente impasticcato psichiatricamente, un’altra fu squartata dal rampollo suo convivente; avevo visto luoghi di perdizione vera, che ancora oggi mi chiedo come facciano ad esistere; avevo visto il crimine convivere tranquillo con la quotidianità; avevo visto l’ambizione delle persone renderle squallide, mostruose, deformi; avevo visto tradimenti, adulterii, ogni sorta di sovversione sessuale e morale; avevo visto ragazze rifiutare i propri figli, e ucciderli; altre ne avevo viste uccidere in provetta quantità indefinite di bambini per alla fine averne uno solo in braccio. Perversione, decadenza, morte. Milano è davvero una metropoli. Come non invocare la protezione di Ambrogio? La cosa mi era impensabile. Come non immaginare, mentre stringo quelle sbarre, che egli stenda un manto santo sopra la città? Che blocchi il Male che correva libero per quelle strade? Finii col credere fermamente che Ambrogio fosse ciò che tratteneva Milano dallo sprofondare in quell’Inferno di fuoco che avrebbe inghiottito quell’inferno umano che registravo con i miei occhi. Per questo, la preghiera in quella cripta divenne per me assidua.Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Tales ambio defensores
Non posso enumerare le volte in cui sono finito davanti alle spoglie mortali di Ambrogio, Gervaso e Protaso. Per dei periodi, è stato un affare quotidiano. Mi sono aggrappato a quelle sbarre migliaia di volte; spesso sono stato mandato via dal solerte signore filippino (credo) che arriva con l’enorme, tintinnante mazzo di chiavi per chiudere tutta la basilica. Ho fatto ogni sorta di meravigliosi incontri in quel luogo santo. Ricordo quando, inciampandole addosso, dissi «izvinite» («mi scusi») a una anziana signora velata. Si faceva multipli segni della croce ed era, chiaramente, una delle tante signore ortodosse — per lo più immagino badanti, ma vi sono talvolta anche veri e propri gruppi di pellegrini — che vanno ad omaggiare Ambrogio. La signora, usciti dalla cripta, volle scambiare quattro chiacchiere con me, entusiasta del misero russo che stavo studiando. Pretese che salissi immediatamente con lei in metropolitana fino al Duomo, dove mi schiuse le porte di una chiesa ortodossa, che prima di allora mai avevo saputo esistere, appena dietro la cattedrale. La visita ad Ambrogio era una fermata che ella faceva prima di andare nella sua chiesa. C’erano tante signore (moldave, ucraine, bielorusse, russe, kazake…), alcune ho pensato fossero impiegate nell’assistenza di malati o anziani, altre, più giovani ed eleganti, lavoravano chiaramente nella moda; altre ancora, più formose e appariscenti, probabilmente si occupavano di altro – tutte, però, portavano il velo. C’erano i pope con barbe e vesti scure e lunghissime, le candele, l’iconostasi immensa con i suoi bagliori dorati. Tutto sembrava solenne anche se non vi era una funzione in corso. Anche la signora moldava, come Penelope, mi passò una cartolina, e cioè quel che poteva donarmi di più vicino ad una icona. Capii di essere finito un’altra volta in un circuito invisibile il cui termine era sempre e comunque Ambrogio. La devozione. Sì, il circuito della devozione, la cui fermata principale era quella cripta, in cui sono finito non perché ho letto un libro (ignoravo, e tuttora ignoro tutto del Santo!) ma perché sospinto da questo flusso intangibile che scorreva a Milano attraverso perfino i cuori degli stranieri. In quella cripta ho portato tutto: dalle gioie dei primi (piccoli) incassi per i lavori compiuti alla morte di un genitore, dalla speranza di prosperità alla frantumazione del mio essere che a volte gli eventi milanesi potevano cagionare. Soprattutto, ho portato la mia pochezza. Il mio bisogno di essere protetto, difeso. «Tales ambio defensores» disse Ambrogio quando rinvenne i corpi dei due martiri Gervaso e Protaso che ora giacciono con lui (fu l’esito di uno scavo che egli volle commissionare guidato da un presagio interiore; l’evento gli permise di vincere definitivamente il cuore di Milano, che all’epoca contava molti eretici ariani). Me lo sono ripetuto anche io tante volte: «Tali difensori io desidero».Sostieni Renovatio 21
Nemici di Ambrogio
Al contempo, mi sento in dovere di difendere Ambrogio. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, Ambrogio ha dei nemici. Forze che bramano la distruzione di Ambrogio e di quel fiume invisibile che mi ha portato da lui. Nel 1799 i napoleonici della Repubblica Cisalpina vollero che la Basilica venisse trasformata in un ospedale militare. Altre forze figlie della Rivoluzione — i nostri «liberatori» angloamericani — bombardarono vigliaccamente dal cielo Sant’Ambrogio nel 1943. Poi, il 28 giugno 2000 il Male e la sua manovalanza terrena passano all’attacco diretto, penetrando sino al cuore ambrosiano. Nascondono in un inginocchiatoio della nostra cripta uno zaino con due bottiglie contenenti benzina, collegate a un innesco chimico alimentato da una pila. Una bomba incendiaria. (Bruciare Ambrogio e il suo tempio, lo dirò più sotto, potrebbe avere un suo significato di nemesi precisa). L’ordigno è trovato dalla Digos, perché un quotidiano riceve un volantino di rivendicazione. Gli esecutori dovrebbero essere gli anarchici della sigla «Solidarietà Internazionale»; protesterebbero per una cerimonia della polizia penitenziaria. Io in realtà so che, da secoli, vogliono colpire qualcosa di più grande, qualcosa di fondamentale per l’equilibrio di tutta la città – e della mia vita. Vogliono colpire Ambrogio. Vogliono colpire la sua devozione. Perché so tutto questo, non mi son sorpreso quando qualche anno fa uscì sotto forma di libro un attacco ad Ambrogio. Il libro, incensato dall’intero arco delle gazzette nazionali, da Il Sole 24 ore a Il Manifesto, portava la firma di una vecchia conoscenza, diciamo così, tale Franco Cardini. Il titolo non è molto sibillino: Contro Ambrogio.Aiuta Renovatio 21
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Tradidi quod et accepi
Voglio concludere. Molto ci sarebbe da dire, come per esempio il mio disgusto per i ciellini (e il loro vescovoni trombati e infelici) che cianciano di «libertà religiosa» quando il Santo della loro capitale ne è stato il più acerrimo nemico, e su di essa — in ispecie contro i pagani — ha combattuto una guerra infuocata, e l’ha vinta. Qualcuno mi accuserà: perché parli, sei uno storico? Un teologo? Un sapiente? No, non lo sono. Sono un uomo ignorante, e l’unica storia che conosco davvero, riguardo Ambrogio, è quella che mi ha portato a lui. Sono solo una persona che riesce ancora a struggersi davanti alla devozione; qualcuno di così ottuso da stupirsi del fatto che esiste ancora; qualcuno di così scemo da credere che la devozione sia non solo necessaria, ma perfino «efficace». Sono un peccatore: sono uno che ad Ambrogio chiede aiuto. Non ci ho scritto libri, non ho studiato a fondo la sua vita e le sue opere. Una cosa però l’ho fatta. Ho portato ad Ambrogio una ragazza, S., tedesca, come Ambrogio. S. aveva un problema, non riusciva più ad entrare in chiesa senza avere un attacco di pianto. Il motivo, ho ipotizzato, era legato a delle vicende personali. La sua famiglia ha attraversato momenti bui, in parte irrisolti, in parte risolti, che hanno lasciato un segno sul suo spirito. In chiesa, mi ha poi spiegato, non riusciva ad entrare perché «non mi sentivo pura a sufficienza», anche se S. è una delle persone più pure che conosco a Milano. Ho fatto fatica. Le prime volte, trascinarla era un vero esercizio di violenza psicologica. «Io vado dentro, devi proprio fare queste scene?». Seguivano occhi sgranati, afasie, imbarazzi paralizzanti, lacrime. Ho iniziato così pian piano a portarla alla messa della domenica sera. Nella pratica, è vero che qualche volta è svenuta, subito soccorsa da fedeli circostanti. Ma ora è tutto alle spalle. Mi esprime, anche troppo spesso, la sua gratitudine per la mia ostinazione. È amica dei sacerdoti come degli altri fedeli, è assidua. Si chiede spesso perché io abbia spinto tanto: il perché lo sa Ambrogio, io sono solo la nanometrica parte del suo circuito invisibile. Qualche giorno fa, S. ha ricevuto finalmente la Cresima, che le mancava. Voleva che facessi da padrino, ma lontano come sono oggi dalla Chiesa conciliare, non per un secondo ho pensato che potessi essere io a sigillare la fine di questa minuscola storia ambrosiana. Nonostante lo stato di aberrazione in cui versa la Chiesa, posso dire che questo è il mio microscopico contributo alla Tradizione: ho tramandato la devozione che ho ricevuto, ho mandato ad Ambrogio qualcuno, come vi ero stato mandato io. Ho conservato, e tramandato, la devozione al cuore di Milano e della vera Cristianità. Io difendo Ambrogio perché Ambrogio difende me. Roberto Dal BoscoIscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
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