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Se il papa cita la filosofa eco-ciberfemminista dello «Cthulhucene»

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È già stata fatta notare in questo sito la teologia di stampo panteistico della Laudate Deum (in continuità con Laudato si’), insieme alla dogmatizzazione della causa antropica del cambiamento climatico. Vorremmo qui brevemente evidenziare la citazione di un’autrice estremamente particolare, alla nota 42, che getta un’ulteriore ombra sulle fonti della nuova «ecoteologia».

 

Al numero 66 dell’esortazione di Papa Bergoglio leggiamo una frase piuttosto oscura: «Dio ci ha uniti a tutte le sue creature. Eppure, il paradigma tecnocratico può isolarci da ciò che ci circonda e ci inganna facendoci dimenticare che il mondo intero è una “zona di contatto”». L’oscurità del testo, che rimanda al panteismo del «tutto è collegato» (1) del sinodo amazzonico, risulta aggravata dalla nota a piè di pagina: si rimanda a un libro di Donna J. Haraway, dal titolo When species meet, edito a Minneapolis nel 2008.

 

Chi è Donna J. Haraway?

Pochi ricordano chi sia la Haraway, che ebbe un momento di notorietà soprattutto nel corso degli anni Novanta. La scrittrice e filosofa è considerata capofila di un pensiero che si definiva «cyberfemminista», «ecofemminista» o perfino «femminismo post-umano», «post-genderismo». Non è sbagliato ritenere che la cifra del suo lavoro – un attacco feroce all’antropocentrismo – è estendere la teoria del gender alle questioni tecnologiche (come la modificazione del corpo umano) e oltre, fino al regno animale.

 

Zoologa e filosofa, ha perfezionato gli studi a Yale, da cui è stata pure premiata come grande ex-studentessa. Va ricordato che è cresciuta con una madre cattolica e la scuola delle suore del Colorado. Citiamo anche il fatto che prese una borsa di studio Fulbright – secondo alcuni, un sistema di cooptazione di individui promettenti da tutto il mondo per mandare avanti l’agenda dell’establishment angloamericano – per andare a Parigi a studiare filosofia dell’evoluzione alla Fondazione Teilhard de Chardin.

 

Il «cyberfemminismo»

La popolarità della pensatrice statunitense cominciò nel 1985, quando pubblico sulla rivista Socialist Review il suo Manifesto per i cyborg: scienza, tecnologia e femminismo socialista negli anni ’80, divenuto poi semplicemente Manifesto Cyborg, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1995. Si tratta di un saggio considerato una pietra miliare nel nuovo femminismo, che negando in ultima analisi anche l’identità della donna, si pone in contrapposizione al vecchio femminismo.

 

La Haraway predica un superamento dei dualismi sociali e biologici: critica la struttura binaria della cultura occidentale che ha generato divisioni tra categorie come uomo/donna e naturale/artificiale. Questi dualismi, afferma la Haraway, «sono stati tutti sistematici nelle logiche e nelle pratiche di dominio delle donne, delle persone di colore, della natura, dei lavoratori, degli animali… tutti costituiti come altri».

 

Viene quindi introdotto, come sintesi liberatoria, il concetto del cyborg, un’entità che rappresenta una fusione tra organico e tecnologico, oltrepassando le tradizionali distinzioni di genere e natura. Il cyborg sfida l’idea della natura umana immutabile, poiché sempre più persone utilizzano tecnologie per estendere le proprie capacità: protesi, by-pass, apparecchi acustici, persino le dentiere possono indicare che l’uomo-macchina è già realtà.

 

Il concetto di cyborg rappresenta un rifiuto dei confini rigidi, in particolare quelli che separano «umano» da «animale» e «umano» da «macchina».

 

«Il cyborg non sogna una comunità sul modello della famiglia organica, questa volta senza il progetto edipico. Il cyborg non riconoscerebbe il Giardino dell’Eden; non è fatto di fango e non può sognare di ritornare polvere» scrive il manifesto della Haraway.

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«Antispecismo» e odio della natalità

Nei due libri degli anni Novanta Primate Visions: Gender, Race, and Nature in the World of Modern Science e Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature la Haraway torna ad usare la metafora del cyborg per spiegare come le contraddizioni fondamentali nella teoria e nell’identità femminista dovrebbero essere congiunte, piuttosto che risolte, in modo simile alla fusione tra macchina e organismo nei cyborg.

 

Nel testo la Haraway critica il capitalismo rivelando come gli uomini abbiano sfruttato il «lavoro riproduttivo» delle donne, di modo che esse non raggiungessero la piena uguaglianza nel mercato del lavoro. Mettere al mondo un figlio, quindi, è una grande minaccia per la vita di una donna in carriera.

 

La filosofa ha premuto su questo punto su un testo più recente chiamato Making kin, scaturito da un gruppo di lavoro con altre cinque pensatrici femministe. Il succo del discorso è che non bisogna fare bambini (un atto inquinante, che genera anche altri problemi), ma riorganizzare in senso «famigliare» le persone che già esistono: un qualcosa che sta tra la ritribalizzazione della società e il tentativo di creare surrogati della famiglia, come avviene per quelli che invece dei figli hanno cani e gatti o perfino oggetti.

 

Questo tema degli «animali-compagni» al di là delle differenze di specie ritorna proprio nel libro citato dal Papa.

 

Chtulucene

Il culmine del pensiero della Haraway si ha nel libro Chtulucene, uscito nel 2016. Per chi non lo sapesse, Chtulhu è la mostruosa divinità tentacolare dei racconti dell’orrore di H.P. Lovecraft, che attende negli abissi di tornare sulla terra spazzando via l’uomo.

 

Per la Haraway, bisognerà attraversare tale fase per salvarsi dal disastro dell’antropocene (cioè, letteralmente, «l’era degli uomini»), segnato dalla sovrappopolazione.

 

«Cosa succede quando il genere umano, dopo aver irrimediabilmente alterato gli equilibri del pianeta Terra, smette di essere il centro del mondo? E nel pieno della crisi ecologica, che relazioni è possibile recuperare non solo tra individui umani, ma tra tutte le specie che il pianeta lo abitano?» si chiede il libro. La risposta, dice la Haraway, è attuare in questo pianeta infetto un pensiero «tentacolare», un cambio di paradigma dove, come spiegato sopra, invece di generare figli si creano «parentele» con «decisioni intime e personali per creare vite fiorenti e generose senza mettere al mondo bambini».

 

A questo punto occorre seriamente interrogarsi su come una tale autrice possa essere considerata un punto di riferimento per un’esortazione apostolica: anzi è una dei tre soli autori citati, escludendo lo stesso Papa Francesco (o i vari sinodi che ne riecheggiano il pensiero), Paolo VI e le Nazioni Unite.

 

Appare chiaro che un tale «magistero» non ha più alcun legame con la Tradizione e persegue un’agenda completamente estranea al cristianesimo, portando il modernismo alle sue più vere e profonde conseguenze: l’assunzione in toto del pensiero dominante nel mondo, fosse anche il più palesemente anticristico.

 

 

NOTE

1) Instrumentum laboris del Sinodo per l’Amazzonia, n. 25: «La vita delle comunità amazzoniche non ancora colpite dall’influenza della civiltà occidentale, si riflette nelle credenze e nei riti in merito all’agire degli spiriti, della divinità – chiamata in tantissimi modi – con e nel territorio, con e in relazione alla natura. Questa cosmovisione è raccolta nel ‘mantra’ (sic) di Francesco: “tutto è collegato”» (n. 25). Se questa non è un’espressione del panteismo di stampo modernista, anzi direttamente pagano, ci piacerebbe sapere cosa potrebbe definirsi tale.

 

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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