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L’UE accusa Meta di aver violato le norme antitrust

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Le autorità antitrust dell’UE hanno accusato il nuovo servizio di social network supportato da pubblicità di Meta – società madre di Facebook – di non rispettare le storiche norme tecnologiche dell’Unione.

 

Il modello pubblicitario «paga o acconsenti» introdotto di recente dalla società di social media viola il Digital Markets Act (DMA) dell’UE, ha affermato lunedì la Commissione Europea. La politica della società tecnologica offre agli utenti la possibilità di pagare una quota di abbonamento o di consentire all’azienda di utilizzare i loro dati per pubblicità mirate.

 

«Secondo la visione preliminare della Commissione, questa scelta binaria obbliga gli utenti ad acconsentire alla combinazione dei loro dati personali e non fornisce loro una versione meno personalizzata ma equivalente dei social network di Meta», hanno affermato gli enti di regolamentazione in una nota.

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Un portavoce di Meta ha dichiarato alla CNBC che il suo modello di abbonamento supportato dalla pubblicità «segue le direttive della corte suprema d’Europa e rispetta il DMA».

 

«Ci aspettiamo un ulteriore dialogo costruttivo con la Commissione Europea per concludere questa indagine», ha affermato il portavoce.

 

Meta ha lanciato il nuovo modello per Facebook e Instagram in Europa lo scorso novembre, in seguito alla sentenza dell’UE che ha stabilito che è necessario ottenere il consenso prima di mostrare annunci pubblicitari agli utenti e offrire una versione «alternativa» del suo servizio che non si basa sulla raccolta di dati per gli annunci.

 

La società statunitense aveva dichiarato in precedenza di aver introdotto l’offerta di abbonamento in risposta alla sentenza dell’UE. Tuttavia, secondo la Commissione Europea, il modello supportato da pubblicità di Meta non è conforme al DMA perché non consente agli utenti di optare per un’esperienza meno personalizzata ma equivalente.

 

«Vogliamo dare ai cittadini gli strumenti per avere il controllo sui propri dati e scegliere un’esperienza pubblicitaria meno personalizzata», ha affermato Margrethe Vestager, responsabile antitrust dell’UE.

 

Le accuse contro Meta sono le ultime di una serie di azioni della Commissione contro le Big Tech da quando il DMA è entrato in vigore a marzo. La legge mira a reprimere le pratiche anticoncorrenziali delle grandi aziende digitali e a costringerle ad aprire i loro servizi ai rivali.

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La scorsa settimana, l’organismo di controllo ha emesso la sua prima accusa DMA contro un altro colosso tecnologico statunitense, sostenendo che l’App Store di Apple viola le sue regole impedendo agli sviluppatori di app di indirizzare gli utenti verso opzioni alternative. L’anno scorso l’UE aveva riaperto il caso di «elusione fiscale» per Apple, con in ballo circa 13 miliardi di euro. Quattro mesi fa al produttore degli iPhone è stata inflitta una multa da due miliardi.

 

Ai sensi del DMA, le aziende potrebbero incorrere in sanzioni fino al 10% del loro fatturato annuo globale se non rispettano le norme dell’UE, o fino al 20% in caso di violazioni ripetute.

 

Nel caso di Meta, la sanzione potrebbe arrivare fino a 13,4 miliardi di dollari, in base ai dati sugli utili annuali dell’azienda per il 2023, secondo la CNBC.

 

Come riportato da Renovatio 21, il Commissario Europeo per il mercato interno Thierry Breton aveva affermato che l’UE può vietare le piattaforme di social media in caso di disordini civili.

 

L’anno scorso era emerso da uno scoop del Wall Street Journal che Facebook rimuoveva i contenuti relativi al COVID-19 sotto diretta pressione della Casa Bianca, inclusi i post che affermavano che il virus era stato creato dall’uomo, secondo comunicazioni interne dell’azienda trapelate al giornale. Di fatto, Facebook agiva come braccio del governo americano (cioè, per i Paesi europei, di una potenza straniera) per la censura dei cittadini di tutto il mondo.

 

Facebook era stato definito dal candidato presidente americano Donald J. Trump come «nemico del popolo».

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Immagine di Yuri Samoilov via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
 

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Internet

Incredibili video realizzati con l’IA lanciata da pochi giorni

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Il generatore di video basato sull’Intelligenza Artificiale Sora 2 di OpenAI ha debuttato la scorsa settimana e ha conquistato i social media con clip incredibilmente iperrealistiche che hanno fatto sì che gli spettatori si interrogassero su ciò che vedono online e hanno fatto sbiancare gli studi di Hollywood.   Gli utenti sembrano averci preso gusto a fare video sul defunto fisico tetraplegico Stephen Hopkins, anche crudelmente.      

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Un altro modulo molto popolare è quello di esseri che vengono fermati dalla polizia – il filmato è come da una bodycam delle forze dell’ordine – e scappano via subito: ecco un gatto, Spongebob, Mario, un ammasso di prosciutto a fette.    

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Il CEO di OpenAI Sam Altman viene beccato a rubare in un negozio, tutto visto da una telecamera di sorveglianza. L’uomo poi cucina Pikachu alla griglia.    

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Animali che rubano alimentari nei supermercati.    

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Piace Hitler che fa stand-up comedy con l’altrettanto (teoricamente) defunto Tupac, rapper ammazzato una trentina di anni fa ma che tutti per qualche ragione ricordano.   Lo Hitlerro dimostra di saperci fare con lo skateoboardo, e pure di saper rispondere a muso duro a Michael Jackson in un ambiente che ricorda le trasmissione trash di Jerry Springer.  

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Pare che SoraAI abbia messo un filtro che impedisce di creare episodi di South Park, che gli utenti hanno generato automaticamente a bizzeffe.     Non manca la finta pubblicità degli anni ’90 per un giocattolo basato sull’isola dei pedofili di Jeffrey Epstein, con l’action figure del miliardario e di altri personaggi orrendi – l’aereo privato Lolita Express è incluso.  

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Ecco, infine, il futuro: le fake news, ma nel senso vero. Telegiornali fatti con l’IA. Un motivo in più per non credere nemmeno a quelli veri.     Quindi: non è solo Hollywood che sarà sostituita, disintermediata, distrutto: è tutto quanto. È la realtà stessa che sta per venire divorata da simulacri iperreali eruttati ad ogni minuto dall’IA.

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Cina

Pechino condanna a morte 16 gestori dei centri per le truffe online in Birmania

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il tribunale di Wenzhou ha giudicato colpevoli 39 imputati della famiglia Ming, originaria dello Stato Shan nel nord del Myanmar. Le accuse comprendono frode e traffico di droga con proventi stimati in oltre 10 miliardi di yuan. Tra i condannati a morte figurano il figlio e la nipote del patriarca Ming Xuechang, morto in circostanze controverse durante l’arresto. L’operazione si inserisce nella più ampia repressione di Pechino contro i gruppi criminali che operano in Myanmar.

 

Un tribunale cinese ha condannato a morte 16 membri della famiglia Ming, potente gruppo criminale della regione Kokang, nello Stato Shan del nord del Myanmar, coinvolto nei commerci illeciti legati ai centri per le truffe online, una questione a cui Pechino da tempo sta rispondendo con una dura repressione.

 

Secondo i media cinesi, il Tribunale intermedio di Wenzhou, nella provincia orientale di Zhejiang, ha riconosciuto colpevoli 39 imputati per 14 reati, tra cui frode, omicidio e lesioni volontarie. Le condanne sono state differenziate: 11 imputati hanno ricevuto la pena capitale immediata, cinque la condanna a morte con sospensione di due anni, 11 l’ergastolo e gli altri pene comprese tra i cinque e i 24 anni di carcere.

 

Per alcuni sono state inoltre disposte anche multe e la confisca dei beni.

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L’accusa ha ricostruito che, a partire dal 2015, la famiglia Ming ha sfruttato la propria influenza nella regione Kokang per costituire una fazione armata e creare diversi «parchi» composti da edifici dediti alle truffe online. I gruppi armati hanno stretto alleanze con altre bande per fornire protezione alle attività illecite del clan: truffe telefoniche, traffico di droga, prostituzione, gestione di casinò e giochi d’azzardo online. I proventi stimati da frodi e gioco d’azzardo superano i 10 miliardi di yuan, circa 1,4 miliardi di dollari, secondo l’accusa.

 

Al centro del processo è finita in particolare la «Crouching Tiger Villa», una base utilizzata per le truffe online di proprietà di Ming Xuechang, patriarca della famiglia. Il 20 ottobre 2023 le guardie del complesso aprirono il fuoco contro lavoratori che cercavano di fuggire: fra le vittime vi furono 14 cittadini cinesi, alcuni dei quali – secondo indiscrezioni non verificate – erano agenti di sicurezza sotto copertura inviati da Pechino.

 

Tra i condannati a morte figurano anche il figlio di Ming Xuechang, Ming Xiaoping (noto anche come Ming Guoping), e la nipote, Ming Zhenzhen. Non compare invece la figlia, Ming Julan, il cui arresto era stato annunciato in un primo momento ma non confermato nella successiva comunicazione ufficiale da parte della giunta birmana.

 

Il patriarca Ming Xuechang, 69 anni, era stato arrestato nel novembre 2023 insieme ad altri membri della famiglia, nel quadro della pressione esercitata da Pechino sul Myanmar per smantellare i sindacati criminali del Kokang.Secondo le autorità di Naypyidaw, Xuechang si sarebbe sparato durante l’arresto ed è morto in seguito per le ferite riportate. In passato era stato membro della Zona a statuto speciale del Kokang e deputato del parlamento statale dello Shan per l’Union Solidarity and Development Party (USDP), partito legato ai militari birmani.

 

Il caso della famiglia Ming si inserisce nella vasta campagna lanciata da Pechino contro le truffe telefoniche transnazionali. Il ministero della Pubblica sicurezza ha dichiarato che, solo nel periodo del 14° Piano quinquennale (2021-25), la polizia cinese ha risolto 1,74 milioni di casi di frode, smantellato oltre 2mila centri di truffe all’estero e arrestato più di 80mila sospetti.

 

In parallelo, anche la milizia legata a Pechino che controlla il Wa State, un’area anch’essa al confine tra Cina e Myanmar, ha di recente intensificato i rimpatri forzati verso la Cina: solo negli ultimi nove mesi sono state deportate 448 persone sospettate di frodi online, in una dozzina di operazioni coordinate con Pechino.

 

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Immagine da AsiaNews

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Internet

Israele paga gli influencer 7000 dollari a post sui social media USA

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Israele ha finanziato influencer per pubblicare contenuti sui social media al fine di migliorare la propria immagine negli Stati Uniti. Lo riporta la testata online Responsible Statecraft.   Come riportato da Renovatio 21, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha recentemente evidenziato l’importanza dei creatori di contenuti per mantenere il supporto allo Stato Ebraico, incontrando, a margine della sua problematica apparizione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, gli influencer filosionisti.   Martedì, Responsible Statecraft ha riportato che documenti presentati in conformità al Foreign Agents Registration Act (FARA) degli Stati Uniti hanno svelato i dettagli di una «campagna di influencer» gestita da una società di consulenza con sede a Washington che collabora con il ministero degli Esteri israeliano.   Le fatture inviate ad un gruppo mediatico tedesco, che coordina la campagna, indicano un finanziamento di 900.000 dollari tra giugno e novembre 2025 per un gruppo di 14-18 influencer. I documenti stimano tra 75 e 90 post in quel periodo, con un costo per post tra 6.143 e 7.372 dollari, secondo Responsible Statecraft. Non è stato reso noto quali influencer siano coinvolti.

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La società statunitense avrebbe coinvolto un ex portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e un ex rappresentante della società israeliana di spyware NSO Group, produttrice del celeberrimo software-spia per smartphone Pegasus.   La settimana scorsa, Netanyahu ha dichiarato in una conferenza stampa che è essenziale rafforzare la «base di sostegno di Israele negli Stati Uniti» attraverso gli influencer, soprattutto su piattaforme come TikTok – di cui si è beato per l’acquisto da parte del miliardario filo-israeliano Larry Ellison – e X, posseduto dall’«amico» Elone Musk.   La campagna d’immagine di Israele si colloca in un contesto di diminuzione del sostegno negli Stati Uniti, in particolare riguardo alla guerra di Gaza. Un recente sondaggio del New York Times ha rivelato che il 60% degli americani ritiene che Israele debba porre fine al conflitto, e più della metà si oppone a ulteriori aiuti economici e militari allo Stato degli ebrei .   Alcuni legislatori, come la deputata repubblicana Marjorie Taylor Greene, hanno definito la situazione a Gaza un «genocidio» e si sono opposti a ulteriori aiuti a Israele.   Come riportato da Renovatio 21, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, pur continuando a sostenere Israele, ha recentemente ammesso che l’influenza della lobby israeliana, che un tempo aveva un «controllo totale» sul Congresso, è diminuita.  

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