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Le Ferragni in cattedra. Grazie al ministro Valditara

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Tutti a parlare della Ferragni, dei suoi pandori e delle sue uova di Pasqua. Sul ministro Valditara, invece, nessuno dice una parola. Ma cosa c’entra Valditara con la Ferragni? C’entra, purtroppo.

 

La squallida vicenda che imbratta le prime pagine di tutti i giornali – panem et circenses – semplicemente certifica, con numeri e dettagli impietosi, ciò che era difficile non intuire già prima, e cioè che la grande idra fabbricatrice di soldi e di potere, una volta generata e messa in pista, divora tutto ciò che può darle energia: è famelica e onnivora. Si nutre indistintamente della credulità popolare e della ebetudine altrui, così come delle altrui disgrazie e del dolore dei bambini malati.

 

L’idra non conosce scrupoli, la morale le è aliena. Si chiama filantropia, si legge all’incontrario. La praticano gli influencer.

 

La Ferragni rappresenta l’antonomasia dell’influencer: nessuno più di lei incarna questo fenomeno anomalo, figlio di un tempo malato, in cui l’ipertrofia di un ego qualunque rilasciato nell’etere fa svaporare l’umano nella vertigine del nulla. 

 

Per fare un influencer, però, ci vogliono quelli che si fanno influenzare perché vedono altri influenzati, sempre più numerosi, in un cortocircuito di emulazione virulenta senza capo né coda. Il vuoto pneumatico, morale e culturale, fa da presupposto e da veicolo alla sindrome influenzale.

 

Non c’è nulla di sano in questo processo contagioso, a cui chiunque abbia preservato un residuo di ragione non può che guardare con raccapriccio. Ogni deformazione, infatti, suscita orrore istintivo, e qui tutto è deforme. Eppure, c’è chi è irresistibilmente attratto dal trash (che in questo caso è lemma intraducibile), alcuni riconoscendolo come tale, altri no, comunque moltiplicandolo.

 

In qualche modo ci dobbiamo ritenere responsabili del degrado raggiunto, un degrado capace di autoalimentarsi fino a produrre mostri imprevedibili. Il terreno è stato preparato nel tempo con la complicità di tutti. Secondo diversi gradi di colpevolezza, certo, ma il discrimine tra artefici e vittime non è poi così netto. L’utile idiozia e la colpa cosciente confinano col dolo, ed è anche questa una riflessione da farsi. 

 

Ebbene, giunti a questo punto di aberrazione, in cui il parossismo è la cifra dell’ordinario, ci si aspetterebbe che le istituzioni facessero quadrato, se non altro per difendere i più indifesi, che sono i più giovani in fase di crescita.

 

Come? Il primo modo è quello di fortificarli con un bagaglio di conoscenze non volatili e transeunti ma solide ed essenziali, che consentano loro innanzitutto di comunicare con senso compiuto, esprimendosi nella propria lingua madre, per stabilire una connessione con i propri simili non solo virtuale; e poi di attingere allo sterminato patrimonio culturale sul quale per destino siamo seduti, ma del quale abbiamo perdute le chiavi di accesso; di percepire le dimensioni della realtà – l’altezza, la profondità, la distanza – per saperne prendere le misure, e per interpretarla e affrontarla con la creatività che la vita richiede; di apprendere ed esercitare gli strumenti della logica necessari a pensare in autonomia, senza diventare a ostaggio inerte dei venti della propaganda. Ovvero, degli influencer che li agitano.   

 

Questo, non altro, è il compito della scuola. Che non deve imporre pacchetti di ideologia preconfezionati e prepensati altrove, non deve dettare comportamenti, modelli di vita, imperativi morali, come accade nei regimi totalitari: ma deve attrezzare culturalmente tutti, affinché tutti acquisiscano la facoltà di scegliersi volta per volta la via.

 

Detto altrimenti: la scuola non deve togliere la libertà, ma offrire gli strumenti per conquistarla.

 

La scuola ha abdicato a questa funzione insostituibile ed è diventata altro da sé, indottrinando i giovani al monopensiero apparecchiato volta per volta dalla regia e, di fatto, abbandonandoli alle assonanze degli influencer che di quel monopensiero sono gli interpreti più fedeli, accessibili e luccicanti.

 

Ma non basta. La consegna alla badanza degli influencer non è solo indiretta – cioè conseguenza della colpevole sottrazione a priori delle necessarie armi culturali di difesa. No. La scuola italiana ha raggiunto un grado tale di sfacelo che gli influencer li invita direttamente a fare lezione in classe, da quelle cattedre che da tempo sono state sfilate ai docenti. Ciò significa che infligge a tutti, d’imperio, questi personaggi e i loro edificanti orizzonti, calpestando ogni eventuale tentativo delle famiglie di tenere la melma fuori dalla porta di casa. 

 

Ci voleva un ministro munito del blasone accademico per fare della scuola il ripetitore degli slogan da strada e da arena televisiva e per inventarsi un progetto – dal nome grottesco di «educazione alle relazioni» (sì, proprio le relazioni che nel triennio precedente essi stessi hanno provveduto a disintegrare) – che, al fine di democraticamente sciacquare il cervello a tutti gli scolari, prevede «sedute di autocoscienza» con il coinvolgimento di psicologi e di «influencer, cantanti, personaggi amati dai ragazzi in qualità di ambassador».

 

È «per ridurre la distanza coi giovani», ci spiega il ministro, e non senza ragione: in effetti, uno dei modi per azzerare ogni distanza è quello di trascinare una generazione intera fino all’espressione più compiuta dell’abbruttimento estetico, morale e culturale, magari sfruttando l’istituzione attraverso la quale quella generazione deve transitare in blocco, in teoria per essere istruita.

 

Del resto, si chiama propedeutica (o anche «orientamento»), perché una volta scavallate in qualche modo le superiori, è già pronto il corso di laurea in scienze della comunicazione con indirizzo «influencer», in grado di fornire «le competenze e gli strumenti necessari per affrontare adeguatamente quello che potremmo definire il nuovo marketing, quello social, “influenzale”, che sta progressivamente scalzando il marketing tradizionale».

 

La facoltà offre «una preparazione seria e rigorosa, che consentirà all’influencer di svolgere nel tempo un’attività professionale affidabile e sostenibile, in particolare nel settore Fashion and Beauty, uno degli ambiti con la maggiore domanda di influencer marketing». Nulla da aggiungere, davvero, ogni parola sarebbe di troppo.

 

Nel frattempo, gli ultimi rapporti degli enti di rilevamento (INVALSI, PISA) ci raccontano di un ulteriore preoccupante regresso nei livelli di apprendimento degli studenti italiani. Il tracollo riguarda le diverse aree disciplinari e tutte le fasi del percorso scolastico. I ragazzi non sanno più leggere, scrivere, far di conto; sono privi dell’uso della parola e del segno, dei simboli attraverso cui si tramandano il sapere e la bellezza, patrimonio indisponibile della comune umanità. Ma il ministro non si cura della scuola allo sfascio; il ministro è in altre faccende affaccendato. 

 

Non che sia da solo a coltivare i suoi hobby. A lui si sono felicemente uniti i colleghi del dicastero della Famiglia e della Cultura, in una corrispondenza di amorosi sensi che chiude al meglio il cerchio della desolazione. 

 

Eccoci qua, dunque, tutti quanti a parlare di pandori, di uova di Pasqua e dell’influencer più famosa del pianeta, che in fondo si è solo scoperto come stia svolgendo, con adeguata dose di spregiudicatezza, il proprio mestiere. Ma nessuno che dica nulla dei tenutari delle istituzioni competenti a curare la Scuola, la Famiglia, la Cultura, i quali – dopo il circo con le garanti diversamente coniugate e diversamente religiose (trionfalmente nominate e subito destituite), dopo i fischi collezionati e l’ignominia conquistata con gesta imbarazzanti – proseguono imperterriti, come niente fosse, nella subdola promozione del loro programma demenziale ai danni degli studenti italiani, cioè dei nostri figli, cioè del nostro futuro.

 

Con una differenza di non poco conto rispetto alla Ferragni: che essi non fanno il proprio mestiere. Lo tradiscono, e lo disonorano.

 

Elisabetta Frezza

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Immagine della Presidenza della Repubblica Italiana via Wikimedia; fonte Quirinale.it, immagine modificata

 

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Incredibili video realizzati con l’IA lanciata da pochi giorni

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Il generatore di video basato sull’Intelligenza Artificiale Sora 2 di OpenAI ha debuttato la scorsa settimana e ha conquistato i social media con clip incredibilmente iperrealistiche che hanno fatto sì che gli spettatori si interrogassero su ciò che vedono online e hanno fatto sbiancare gli studi di Hollywood.   Gli utenti sembrano averci preso gusto a fare video sul defunto fisico tetraplegico Stephen Hopkins, anche crudelmente.      

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Un altro modulo molto popolare è quello di esseri che vengono fermati dalla polizia – il filmato è come da una bodycam delle forze dell’ordine – e scappano via subito: ecco un gatto, Spongebob, Mario, un ammasso di prosciutto a fette.    

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Il CEO di OpenAI Sam Altman viene beccato a rubare in un negozio, tutto visto da una telecamera di sorveglianza. L’uomo poi cucina Pikachu alla griglia.    

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Animali che rubano alimentari nei supermercati.    

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Piace Hitler che fa stand-up comedy con l’altrettanto (teoricamente) defunto Tupac, rapper ammazzato una trentina di anni fa ma che tutti per qualche ragione ricordano.   Lo Hitlerro dimostra di saperci fare con lo skateoboardo, e pure di saper rispondere a muso duro a Michael Jackson in un ambiente che ricorda le trasmissione trash di Jerry Springer.  

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Pare che SoraAI abbia messo un filtro che impedisce di creare episodi di South Park, che gli utenti hanno generato automaticamente a bizzeffe.     Non manca la finta pubblicità degli anni ’90 per un giocattolo basato sull’isola dei pedofili di Jeffrey Epstein, con l’action figure del miliardario e di altri personaggi orrendi – l’aereo privato Lolita Express è incluso.  

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Ecco, infine, il futuro: le fake news, ma nel senso vero. Telegiornali fatti con l’IA. Un motivo in più per non credere nemmeno a quelli veri.     Quindi: non è solo Hollywood che sarà sostituita, disintermediata, distrutto: è tutto quanto. È la realtà stessa che sta per venire divorata da simulacri iperreali eruttati ad ogni minuto dall’IA.

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  Immagine screenshot da Twitter
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Cina

Pechino condanna a morte 16 gestori dei centri per le truffe online in Birmania

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il tribunale di Wenzhou ha giudicato colpevoli 39 imputati della famiglia Ming, originaria dello Stato Shan nel nord del Myanmar. Le accuse comprendono frode e traffico di droga con proventi stimati in oltre 10 miliardi di yuan. Tra i condannati a morte figurano il figlio e la nipote del patriarca Ming Xuechang, morto in circostanze controverse durante l’arresto. L’operazione si inserisce nella più ampia repressione di Pechino contro i gruppi criminali che operano in Myanmar.

 

Un tribunale cinese ha condannato a morte 16 membri della famiglia Ming, potente gruppo criminale della regione Kokang, nello Stato Shan del nord del Myanmar, coinvolto nei commerci illeciti legati ai centri per le truffe online, una questione a cui Pechino da tempo sta rispondendo con una dura repressione.

 

Secondo i media cinesi, il Tribunale intermedio di Wenzhou, nella provincia orientale di Zhejiang, ha riconosciuto colpevoli 39 imputati per 14 reati, tra cui frode, omicidio e lesioni volontarie. Le condanne sono state differenziate: 11 imputati hanno ricevuto la pena capitale immediata, cinque la condanna a morte con sospensione di due anni, 11 l’ergastolo e gli altri pene comprese tra i cinque e i 24 anni di carcere.

 

Per alcuni sono state inoltre disposte anche multe e la confisca dei beni.

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L’accusa ha ricostruito che, a partire dal 2015, la famiglia Ming ha sfruttato la propria influenza nella regione Kokang per costituire una fazione armata e creare diversi «parchi» composti da edifici dediti alle truffe online. I gruppi armati hanno stretto alleanze con altre bande per fornire protezione alle attività illecite del clan: truffe telefoniche, traffico di droga, prostituzione, gestione di casinò e giochi d’azzardo online. I proventi stimati da frodi e gioco d’azzardo superano i 10 miliardi di yuan, circa 1,4 miliardi di dollari, secondo l’accusa.

 

Al centro del processo è finita in particolare la «Crouching Tiger Villa», una base utilizzata per le truffe online di proprietà di Ming Xuechang, patriarca della famiglia. Il 20 ottobre 2023 le guardie del complesso aprirono il fuoco contro lavoratori che cercavano di fuggire: fra le vittime vi furono 14 cittadini cinesi, alcuni dei quali – secondo indiscrezioni non verificate – erano agenti di sicurezza sotto copertura inviati da Pechino.

 

Tra i condannati a morte figurano anche il figlio di Ming Xuechang, Ming Xiaoping (noto anche come Ming Guoping), e la nipote, Ming Zhenzhen. Non compare invece la figlia, Ming Julan, il cui arresto era stato annunciato in un primo momento ma non confermato nella successiva comunicazione ufficiale da parte della giunta birmana.

 

Il patriarca Ming Xuechang, 69 anni, era stato arrestato nel novembre 2023 insieme ad altri membri della famiglia, nel quadro della pressione esercitata da Pechino sul Myanmar per smantellare i sindacati criminali del Kokang.Secondo le autorità di Naypyidaw, Xuechang si sarebbe sparato durante l’arresto ed è morto in seguito per le ferite riportate. In passato era stato membro della Zona a statuto speciale del Kokang e deputato del parlamento statale dello Shan per l’Union Solidarity and Development Party (USDP), partito legato ai militari birmani.

 

Il caso della famiglia Ming si inserisce nella vasta campagna lanciata da Pechino contro le truffe telefoniche transnazionali. Il ministero della Pubblica sicurezza ha dichiarato che, solo nel periodo del 14° Piano quinquennale (2021-25), la polizia cinese ha risolto 1,74 milioni di casi di frode, smantellato oltre 2mila centri di truffe all’estero e arrestato più di 80mila sospetti.

 

In parallelo, anche la milizia legata a Pechino che controlla il Wa State, un’area anch’essa al confine tra Cina e Myanmar, ha di recente intensificato i rimpatri forzati verso la Cina: solo negli ultimi nove mesi sono state deportate 448 persone sospettate di frodi online, in una dozzina di operazioni coordinate con Pechino.

 

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Israele paga gli influencer 7000 dollari a post sui social media USA

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Israele ha finanziato influencer per pubblicare contenuti sui social media al fine di migliorare la propria immagine negli Stati Uniti. Lo riporta la testata online Responsible Statecraft.   Come riportato da Renovatio 21, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha recentemente evidenziato l’importanza dei creatori di contenuti per mantenere il supporto allo Stato Ebraico, incontrando, a margine della sua problematica apparizione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, gli influencer filosionisti.   Martedì, Responsible Statecraft ha riportato che documenti presentati in conformità al Foreign Agents Registration Act (FARA) degli Stati Uniti hanno svelato i dettagli di una «campagna di influencer» gestita da una società di consulenza con sede a Washington che collabora con il ministero degli Esteri israeliano.   Le fatture inviate ad un gruppo mediatico tedesco, che coordina la campagna, indicano un finanziamento di 900.000 dollari tra giugno e novembre 2025 per un gruppo di 14-18 influencer. I documenti stimano tra 75 e 90 post in quel periodo, con un costo per post tra 6.143 e 7.372 dollari, secondo Responsible Statecraft. Non è stato reso noto quali influencer siano coinvolti.

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La società statunitense avrebbe coinvolto un ex portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e un ex rappresentante della società israeliana di spyware NSO Group, produttrice del celeberrimo software-spia per smartphone Pegasus.   La settimana scorsa, Netanyahu ha dichiarato in una conferenza stampa che è essenziale rafforzare la «base di sostegno di Israele negli Stati Uniti» attraverso gli influencer, soprattutto su piattaforme come TikTok – di cui si è beato per l’acquisto da parte del miliardario filo-israeliano Larry Ellison – e X, posseduto dall’«amico» Elone Musk.   La campagna d’immagine di Israele si colloca in un contesto di diminuzione del sostegno negli Stati Uniti, in particolare riguardo alla guerra di Gaza. Un recente sondaggio del New York Times ha rivelato che il 60% degli americani ritiene che Israele debba porre fine al conflitto, e più della metà si oppone a ulteriori aiuti economici e militari allo Stato degli ebrei .   Alcuni legislatori, come la deputata repubblicana Marjorie Taylor Greene, hanno definito la situazione a Gaza un «genocidio» e si sono opposti a ulteriori aiuti a Israele.   Come riportato da Renovatio 21, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, pur continuando a sostenere Israele, ha recentemente ammesso che l’influenza della lobby israeliana, che un tempo aveva un «controllo totale» sul Congresso, è diminuita.  

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