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Politica

La «purga dei patrioti»: cosa è successo davvero il 6 gennaio al Campidoglio di Washington?

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Nei primi giorni del mese è uscito negli USA un documentario in tre parti realizzato dal giornalista televisivo americano Tucker Carlson sui fatti del 6 gennaio 2021, il cosiddetto «attacco al Campidoglio».

 

Carlson ha il programma più visto dei canali di notizie via cavo in America, Tucker Carlson Tonight, in onda sul canale di orientamento conservatore Fox News. Tuttavia l’emittente di Rupert Murdoch ha a suo modo preso le distanze dal documentario, che quindi circola solo sul sito personale di Carlson.

 

Già a fine ottobre, i canali social censuravano anche il solo trailer che anticipava la trasmissione. Il mondo politico democratico e parte di quello repubblicano (in particolare la neocon Liz Cheney, figlia del Dick Cheney che portò gli USA nelle guerre spaventose degli ultimi 20 anni) si sono rivoltati contro il programma ancora prima di vederlo: linciato a scatola chiusa.

 

La visione di questi tre episodi è molto istruttiva, perché propone un’analisi estremamente razionale dell’accaduto.

 

Si sostiene che il 6 gennaio sia andato in scena un false flag, una operazione sotto falsa bandiera

Si sostiene che il 6 gennaio sia andato in scena un false flag, una operazione sotto falsa bandiera. Con più di qualche prova visiva è mostrato come le forze dell’ordine non avessero opposto resistenza ai rivoltosi, nonostante alcuni di essi chiedessero di bloccare i facinorosi.

 

Non solo: per la prima volta cominciano ad emergere prove della presenza di veri agents provocateurs che hanno sobillato la folla, specialmente nel momento, dicono i testimoni, in cui la situazione stava «de-escalando», cioè gli animi si raffreddavano e ci si preparava a chiudere la manifestazione senza entrare nel Campidoglio.

 

Questi agenti provocatori sono identificati con nomi e cognomi, sono mostrati fare discorsi pubblici in cui si dice di agire, si vedono pure suggerire all’orecchio di altri partecipanti qualcosa.

 

Uno dei sospetti agents provocateurs, un alto signore bianco, è stranamente stato risparmiato dall’arresto e la reclusione che hanno colpito chiunque altro quel giorno – anche persone che non sono nemmeno entrate al Campidoglio, come si vede da alcune testimonianze, con l’FBI a eseguire raid nella casa di una tranquilla coppia dell’Alaska, ad esempio.

 

Un altro sospetto sobillatore invece è un professionista della questione, già visto in azione durante le rivolte razziali del 2020.

 

Su tutto, si staglia il precedente storico: pochi mesi prima, si scoprì un piano per rapire il governatore del Michigan Gretchen Whitmer. Ebbene, emerse in seguito che il «gruppo di fuoco» di pericolosi estremisti che stava elaborando il rapimento era composto soprattutto da infiltrati dell’FBI: gli altri erano cittadini in alcuni casi sul bordo dell’essere senzatetto. Interessante come pare che dirigenti FBI del Michigan, dice un giornalista intervistato, siano stati trasferiti proprio a Washington.

 

Si è trattato di una operazione preordinata, con un fine preciso, creare «un nuovo 11 settembre» (espressione ripetuta mille volta dai media dell’establishment) per determinare un nuovo nemico da abbattere: non più il terrorista islamico delle Due Torri, ma il «terrorista domestico», cioè il razzista bianco, cioè – per la folle proprietà transitiva ripetuta goebbelsianamente dai media mainstream –  l’elettore trumpiano

Incredibile vedere Ali Alexander, un ragazzo di origine araba che è uno degli organizzatori della marcia Stop the Steal, essere accusato di essere un white suprematist, un razzista bianco.

 

È grottesco vedere alcune scene, mai viste prima, in cui si nota come coloro che sono entrati nella Camera – per esempio Jake Angeli detto «QAnon Shaman» – dire ad alta voce che bisogna rispettare quel luogo. Di fianco, un addetto alla sicurezza che li accompagna quasi scocciato, «allora, avete finito?» Tale era il senso di pericolo che si respirava dentro a Capitol Hill.

 

Vi è quindi l’intervista a Richard Barnett, il signore reso celebre dalla foto in cui è seduto sulla scrivania della speaker Nancy Pelosi, appoggiano pure la gamba sul tavolo. Si apprende che il cittadino dell’Arkansas è claudicante, e la pistola che dicono portasse con sé in realtà era un bastone con un pomello eccentrico… la foto era posata per un giornalista presente (pensate che paura), che gli aveva detto, insistendo, di mettersi comodo. (Rimane memorabile la risposta di questo signore, ripreso agli arresti domiciliari con una cavigliera elettronica, rispondere, con dietro una bella bandiera a stelle e strisce, alla domanda: lei ama l’America? Risponde con una domanda retorica di carattere rurale e faunistico: «Does a bear shit in the woods?» Traducetelo voi)

 

Nel documentario è quindi mostrata, e smontata, la fake news riguardo poliziotto ucciso dai manifestanti, Brian Sicknick: i giornali scrissero che era morto perché attaccato con un estintore, poi con dello spray anti-orso (!). In realtà, morì di morte naturale, e i giornali mainstream, silenziosamente, ritirarono gli articoli che parlavano dei trumpiani omicidi.

 

Altro destino per chi al Campidoglio è morto davvero: sono toccanti le immagini della famiglia dell’unica vera vittima di quel giorno, la veterana dell’Aviazione americana Ashley Babbit, colpita al collo da una pistolettata sparata da un agente di protezione del Campidoglio che fugge e rimane (per qualche motivo) senza nome per mesi e mesi. Marito e Madre di Ashley, sono persone devastate, che chiedono semplicemente giustizia.

 

Il 6 gennaio, quindi, è il casus belli di una nuova «guerra al terrore», come lo fu il mega-attentato al World Trade Center per l’Islam. Solo che stavolta l’obbiettivo non è fuori dal Paese, è dentro al Paese

Vi è quindi il capitolo dei prigionieri: un numero impressionante di cittadini sono ora in carcere in condizioni tremende, alcuni sperimentando pure l’isolamento prolungato, ancora in attesa di processo. Vi è un avvocato liberal (cioè, di sinistra) a difenderli. È incredulo davanti al trattamento che stanno ricevendo. Dalle testimonianze diventa chiaro che si tratta di prigionieri politici. Si parla, apertis verbis, di torture.

 

Tuttavia, è quando si parla dei militari finiti nel mirino delle autorità che la faccenda può rivelare un disegno che va oltre la repressione.

 

Una delle persone accusate – in ispecie sui media – di essere una rivoltosa è l’ufficiale dell’esercito USA Emily Rainey. La Rainey, bellissima giovane madre fedele alla messa tridentina che serve alla base di Fort Bragg in Carolina del Nord, fu accusata di guidare un gruppo tentare il colpo di stato. La realtà è che stava accompagnando una quantità di signore anziane amiche di famiglia a sentire il discorso di quello che lei con termine istituzionale-militare chiama «il mio Commander in Chief», ovvero, in quel momento, il presidente Donald John Trump.

 

La Rainey, nota anche per essere stata pubblicamente multata per aver tolto alle giostre al parchetto di suo figlio il nastro pandemico del «non oltrepassare» durante il lockdown, ha nell’esercito un lavoro assai particolare: è una specialista di psy ops, cioè operazioni psicologiche. Non è l’unica persona con questa competenza che testimonia nel documentario di Carlson.

 

È quindi detto che è chiaro a chiunque lavori nelle psychological operations che quello che stanno vedendo è esattamente un’operazione di psy op rivolta però al popolo americano stesso. Vi sono, dicono la Rainey e altri intervistati, elementi da manuale.

 

Viene ipotizzato che il fine più immediato dell’operazione 6 gennaio fosse un subitaneo riallineamento dell’esercito: i soldati che supportavano i golpisti (e quindi, il «loro» presidente) potevano essere così individuati, filtrati, allontanati – o peggio

È questa lo sconvolgente messaggio che si ricava dalla visione dei tre episodi: si è trattato di una operazione preordinata, con un fine preciso, creare «un nuovo 11 settembre» (espressione ripetuta mille volta dai media dell’establishment) per determinare un nuovo nemico da abbattere: non più il terrorista islamico delle Due Torri, ma il «terrorista domestico», cioè il razzista bianco, cioè – per la folle proprietà transitiva ripetuta goebbelsianamente dai media mainstream –  l’elettore trumpiano.

 

Il 6 gennaio, quindi, è il casus belli di una nuova «guerra al terrore», come lo fu il mega-attentato al World Trade Center per l’Islam. Solo che stavolta l’obbiettivo non è fuori dal Paese, è dentro al Paese, o meglio, è il Paese stesso – milioni di cittadini che non accettano quanto gli si fa cadere dall’alto, e mostrano lealtà ad un uomo politico distante anni luce dall’establishment.

 

Su questo punto, Carlson è chiarissimo: gli elicotteri hanno lasciato l’Afghanistan e sono atterrati in America. Il nemico ora è interno: quindi i metodi utilizzati contro ribelli afghani e iracheni ora saranno implementati contro il deplorable («inqualificabile», immortale definizione dell’elettorato di Trump data nel 2016 da Hillary Clinton).

 

Scendendo su un livello più dettagliato, viene ipotizzato che il fine più immediato dell’operazione 6 gennaio fosse un subitaneo riallineamento dell’esercito: i soldati che supportavano i golpisti (e quindi, il «loro» presidente) potevano essere così individuati, filtrati, allontanati – o peggio. La bella Emily Rainey racconta come a Fort Bragg abbia visto tante automobili di commilitoni da cui, improvvisamente, sparivano i classici adesivi di messaggio politico nazionalista, talvolta perfino la bandierina USA.

 

Cittadini che vengono catturati, umiliati, torturati, rovinati, uccisi. Perché? Perché non sottomessi alla narrativa ufficiale: pandemia, elezioni, istruzione scolastica. Perché patrioti, oltre che del lo Paese, della Verità.

Quello che è accaduto poi lo ricorderete: si scoprì che il generale Milley in quei giorni stava cospirando per sottrarre a Trump (cioè alla supervisione civile sui militari, articolo sacro per l’apparato USA) il controllo effettivo delle testate atomiche, mentre faceva telefonate amichevoli con il generale cinese suo omologo dell’Esercito di Liberazione del Popolo e con i politici oppositori di Trump come Nancy Pelosi.

 

Insomma, una vera «purga dei patrioti», dapprima nel delicato quadro esercito (da cui, ricorderete, si sospettava provenisse QAnon), poi nella società in generale.

 

Cittadini che vengono catturati, umiliati, torturati, rovinati, uccisi.

 

Perché patrioti, oltre che del lo Paese, della Verità.

 

 

 

 

Immagine di Tyler Merbler via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

Politica

Guerra civile USA in arrivo: sondaggio rivela che uno su cinque afferma che la violenza politica potrebbe essere necessaria

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Molti americani credono che il voto non sarà sufficiente per indirizzare il loro Paese nella giusta direzione. Infatti, un nuovo sondaggio ha rivelato che in vista delle elezioni presidenziali americane di quest’anno, un elettore su cinque ritiene che la violenza possa essere necessaria per raggiungere i propri obiettivi politici.

 

Il sondaggio PBS/NPR/Marist, pubblicato mercoledì, ha mostrato che il 20% degli adulti statunitensi – compreso il 28% dei repubblicani – ritiene che «gli americani potrebbero dover ricorrere alla violenza per rimettere in carreggiata il proprio Paese». Questa opinione è stata condivisa dal 12% dei democratici e dal 18% degli elettori indipendenti.

 

I risultati dell’indagine riflettono i crescenti dubbi nel sistema politico statunitense. Quasi tre americani su dieci, compreso il 61% dei repubblicani, non credono ancora che il presidente Joe Biden abbia vinto le elezioni del 2020. Un sondaggio di USA Today pubblicato all’inizio di quest’anno ha mostrato che più della metà dei sostenitori del presunto candidato repubblicano Donald Trump hanno poca fiducia che i voti di quest’anno verranno contati accuratamente.

 

Un sondaggio dell’Università della Virginia pubblicato lo scorso ottobre ha rilevato che il 31% dei sostenitori di Trump e il 24% degli elettori di Biden ritengono che «la democrazia non sia più un sistema praticabile e gli americani dovrebbero esplorare forme alternative di governo per garantire stabilità e progresso».

 

Più di quattro sostenitori di Trump su dieci concordano sul fatto che «la situazione in America è tale che favorirei gli stati che si separano dall’Unione per formare un proprio paese separato».

 

Il sondaggio PBS/NPR/Marist appena pubblicato ha rivelato che il 41% degli americani ritiene che il paese sia andato così fuori strada da aver bisogno di un leader che sia «disposto a infrangere alcune regole per rimettere le cose a posto». Questa opinione è stata condivisa dal 56% dei repubblicani, dal 28% dei democratici e dal 37% degli indipendenti.

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Il sondaggio mostra che, mentre Biden e Trump si avviano verso la loro volatile rivincita a novembre, il Paese si trova in «una posizione incredibilmente pericolosa», ha affermato la PBS. Barabra McQuade, professoressa di diritto dell’Università del Michigan, ha incolpato Trump per la polveriera politica, affermando che aveva alimentato il timore di manipolare gli elettori. «Indipendentemente dalla tua politica, l’idea di infrangere le regole e di impegnarsi nella violenza è semplicemente antitetica all’idea dell’America», ha detto.

 

Trump e i suoi sostenitori hanno sostenuto che l’amministrazione Biden ha abbandonato le norme democratiche «usando come arma» il sistema giudiziario per perseguitare i suoi nemici politici e interferire nelle elezioni del 2024.

 

L’ex presidente ha promesso di perdonare molte delle persone condannate per crimini derivanti dalla rivolta del Campidoglio degli Stati Uniti del gennaio 2021, definendoli «ostaggi J6».

 

Due anni fa, dopo il raid dell’FBI nella magione dell’ex presidente USA a Mar-a-Lago, su Twitter cominciò l’ascesa dell’hastag #civilwar.

 

In questi ultimi anni è emerso che per molti osservatori una seconda Guerra Civile Americana pare oramai inevitabile.

 

Ad accennarne è stato anche lo stesso Biden, non si sa con che grado di lucidità mentale. Anche Trump, tre mesi fa, fece un post sul social Truth scrivendo semplicemente le due parole «Civil War».

 

L’investitore ultramiliardario Ray Dalio, capo dell’immane hedge fund Bridgewater Associates, ha parlato l’anno passato di un «rischio pericolosamente alto» che gli Stati Uniti possano scivolare nella Guerra Civile entro i prossimi 10 anni a causa della «quantità eccezionale di polarizzazione» attualmente osservata nel Paese.

 

Un film che ipotizza una seconda Guerra Civile americana è nelle sale in questi giorni. Che si tratti di «predictive programming»?

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Politica

Le elezioni presidenziali in Slovacchia sono state vinte dal candidato scettico sull’Ucraina

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Peter Pellegrini è stato eletto prossimo presidente della Slovacchia, battendo l’ex ministro degli Esteri Ivan Korcok nelle elezioni di ieri. Pellegrini è uno stretto alleato del primo ministro Robert Fico, che è un convinto oppositore all’invio di armi all’Ucraina.   Con quasi il 100% delle schede scrutinate, Pellegrini è in testa con il 53,17% dei voti, secondo il conteggio ufficiale.   Il Korcok ha ammesso la sconfitta. «Sono sinceramente deluso, a dire il vero», ha detto poco dopo l’annuncio dei risultati. «Ma poiché in fondo sono un atleta, rispetto i risultati. È stata una celebrazione della democrazia».

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La presidente uscente Zuzana Caputova si è congratulata col Pellegrini, augurandogli successo nel mandato. «È importante che, dal momento delle elezioni, il nuovo presidente agisca in modo tale che nessuna parte della società si senta sconfitta».   Pellegrini, di lontane origini lombarde (il bisnonno giunse in Slovacchia ai tempi in cui era un unico territorio imperiale austro-ungarico per lavorare alla costruzione della ferrovia) è stato primo ministro tra il 2018 e il 2020 ed è attualmente il presidente del parlamento slovacco. È alleato di Fico, che ha ribaltato la decisione del precedente governo di inviare aiuti militari all’Ucraina. Con la Polonia, l’anno passato Bratislava inviò dei MiG-29 a Kiev. La Slovacchia aveva ceduto agli ucraini anche i suoi missili S-300 in cambio di missili Patriot americani.   Fico, che ha da tempo specificato il desiderio di non fornire «armi mortali all’Ucraina», ha criticato apertamente la NATO e l’UE per il loro sostegno incondizionato all’Ucraina durante la sua lotta contro la Russia, sostenendo che la Slovacchia non dovrebbe essere trascinata nel conflitto. Ha accusato Kiev di avanzare richieste «irrealistiche» riguardo al potenziale accordo di pace con Mosca e ha persino suggerito che l’Ucraina potrebbe dover rinunciare alle sue rivendicazioni territoriali. Ha anche criticato il Korcok definendolo «un guerrafondaio che sostiene senza esitazione tutto ciò che l’Occidente gli dice».   «Il mio popolo ha problemi più grandi dell’Ucraina» disse il Fico la sera in cui sei mesi fa vinse le elezioni con il suo Partito della Socialdemocrazia Slovacca (SMER-SD)   Pellegrini ha difeso la sospensione delle consegne di armi all’Ucraina. Nel suo discorso di vittoria, il presidente eletto ha promesso di «fare tutto il possibile affinché la Slovacchia rimanga sempre dalla parte della pace e non dalla parte della guerra, che piaccia o no a qualcuno».   In un editoriale pubblicato il mese scorso sul quotidiano Hospodarske noviny, il Pellegrini ha respinto l’idea di un potenziale invio di truppe NATO in Ucraina come una pericolosa escalation.   Secondo il futuro presidente di Bratislava, era «irresponsabile» che i politici slovacchi richiedessero l’invio di armi all’Ucraina senza alcun riguardo per la sicurezza di Bratislava e «etichettassero coloro che menzionano la parola “pace” come agenti di Mosca».

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Come riportato da Renovatio 21, la Slovacchia negli scorsi mesi ha posto il suo netto rifiuto all’Ucraina nella NATO e riaperto la cooperazione culturale con Mosca.   Un mese fa Fico ha dichiarato che l’Italia avrebbe ritirato il suo sistema antiaereo SAMP-T dalla Slovacchia.   In una breve dichiarazione TV del mese scorso raccontò inoltre di aver letto un «documento riservato» che elenca gli argomenti da discutere nel recente incontro NATO di Parigi che «fa venire i brividi lungo la schiena», denunciando «l’atmosfera puramente marziale» che ha dominato le discussioni degli alleati atlantici.   «Sono rimasto molto sorpreso dal fatto che non sia stata detta una sola parola sul piano di pace», ha detto ai giornalisti, ribandendo che il suo governo rimane «orientato alla pace» e non fornirà armi a Kiev, per non parlare dell’invio di truppe slovacche in suo aiuto.   Come riportato da Renovatio 21, che il premier di Bratislava due mesi fa ha ordinato un’indagine sulla risposta dello Stato slovacco su COVID e vaccini, citando le oltre 21 mila morti in eccesso dal 2020.

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L’élite politica polacca travolta dallo scandalo dei diplomi falsi

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Un’università privata in Polonia e alcuni dei suoi laureati di alto profilo sono stati coinvolti in uno scandalo di corruzione che coinvolge tangenti e falsi master.

 

L’Ufficio centrale anticorruzione (CBA) della Polonia sta indagando sull’università manageriale Collegium Humanum di Varsavia per commercio illegale di diplomi MBA (Master in Business Administration). Secondo i media locali, tra i diplomati dell’establishment figurano diversi noti consiglieri distrettuali e sindaci di città.

 

Il quotidiano francese Le Monde ha descritto lo scandalo come motivo di imbarazzo per l’intera élite politica polacca e come un simbolo del nepotismo nel Paese.

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Possedere un MBA è un prerequisito per accedere a posizioni ben retribuite nei consigli di amministrazione delle aziende pubbliche polacche e nel governo locale. Il Collegium Humanum offre studi in gestione, finanza e contabilità e diritto, tra le altre aree. Secondo Le Monde, l’università ha rilasciato i diplomi dopo meno di un semestre, scrive RT.

 

Il progetto è stato scoperto negli ultimi due anni dalle inchieste dei media ed è stato ripreso dalle autorità a febbraio. Secondo la CBA, un presunto gruppo organizzato all’interno dell’università avrebbe emesso documenti di laurea per tangenti per un ammontare di 112.000 dollari.

 

Sette persone sono state arrestate dalla CBA negli ultimi due mesi in relazione al caso, tra cui il fondatore e il rettore dell’università. Secondo Le Monde sarebbero state incriminate circa 30 persone legate all’establishment.

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Il sistema è stato reso possibile nel 2017, quando il partito allora al potere Legge e Giustizia ha introdotto una disposizione che ha abbassato i requisiti per le posizioni nelle società pubbliche. Prima era necessario un dottorato in economia o in diritto oppure un esame di stato, anche se i cambiamenti hanno aperto le posizioni anche ai laureati con un MBA.

 

Il sindaco di Varsavia la scorsa settimana ha dichiarato che il municipio sta effettuando un audit sui membri degli organi di vigilanza e degli organi direttivi delle aziende municipali, avvertendo che coloro che hanno conseguito la laurea presso la controversa università dovranno sostenere un esame di Stato per mantenere la loro posizione, hanno riferito i media locali.

 

Il Collegium Humanum ha rilasciato una dichiarazione affermando che le sue operazioni «non sono in alcun modo minacciate» dagli sviluppi e che l’istituzione «continua la sua missione educativa, garantendo la sicurezza degli studenti e del personale».

 

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Immagine di Jorge Lascar via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

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