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Geopolitica

La «Legione georgiana» di Kiev pianifica una Maidan a Tbilisi questo autunno

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Il Servizio di Sicurezza dello Stato della Georgia (SSS) ha pubblicato un comunicato il 18 settembre in cui afferma che il Paese si trova ad affrontare la minaccia di violenti disordini orchestrati dalla cerchia ristretta dell’ex presidente Mikheil Saakashvili e «attraverso il coordinamento e il sostegno finanziario dei Paesi esteri».

 

La Sicurezza di Stato georgiana precisa che i golpisti pianificano, nei prossimi tre mesi, il «rovesciamento violento» del governo georgiano, usando come modello il colpo di Stato ucraino di Maidan del 2014.

 

Il documento cita come probabile fattore scatenante un prossimo rapporto dell’Unione Europea che respinge la candidatura della Georgia: «le aspettative dei cospiratori che pianificano di rovesciare il governo statale sono adattate alla circostanza in cui la conclusione [dell’UE] rilasciata sarà negativa, il che creerà un terreno fertile di disordini civili e ulteriori rivolte attraverso entrambe le reti di informazione a loro disposizione, nonché etichettando artificialmente il governo come “filo-russo”».

 

La Sicurezza dello Stato fa il nome di «Mamuka Mamulashvili, comandante della “Legione georgiana” operante in Ucraina».

 

 

Di cecchini provenienti dalla Georgia si parlò riguardo al massacro di Maidan, quando alcuni uomini misteriosi piazzati sui tutti sopra la piazza centra di Kiev spararono a manifestanti e polizia, creando dissidio fra le parti e aumentando il caos, con una conta di almeno 80 morti. I morti di Maidan distrussero l’accordo di pace negoziato dal governo eletto ucraino di Viktor Yanukovich e dai leader dei manifestanti.

La narrazione ufficiale non ha mai identificato chi sparò a Maidan, tuttavia sei anni fa Il Giornale intervistò un uomo che raccontava di aver sparato seguendo l’ordine di colpire forze dell’ordine e manifestanti «senza far differenza». L’intervistato è georgiano, come lo sarebbero altri due cecchini. Il documentario racconta la vicenda, Ucraina, verità nascoste, andò in onda in seconda serata su Canale 5 nel 2017.

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La Legione Nazionale Georgiana (GNL) di Mamulashvili è stata quindi schierata nel Donbass, dove è balzata sulle cronache internazionali per le accuse di aver giustiziato prigionieri di guerra russi a sole otto chilometri da Bucha il 30 marzo, cioè, se ciò fosse veritiero, appena 48 ore prima che i corpi di Bucha divenissero un caso planetario attribuito alle truppe di Mosca.

 

Secondo Grayzone, Mamulashvili sarebbe stato inviato in Ucraina dal perenne agente occidentale, l’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili (di cui si sostiene fosse il «consigliere militare»), l’uomo già protagonista della rivoluzione colorata di Tbilisi ma poi scappato all’estero per essere messo incredibilmente a capo dell’oblast’ ucraina di Odessa dalla presidenza post-Maidan dell’amico personale Petro Poroshenko.

 

Secondo Il Corriere della Sera, Mamuka Mamulashvili avrebbe rivendicato i video dell’eccidio apparsi su Telegram. «”L’abbiamo detto sin dal principio, noi non facciamo prigionieri” è l’allucinante spiegazione del comandante», scriveva il quotidiano italiano.

 

Sempre secondo Grayzone, la GNL «al centro del sistema di vie che incanala armi statunitensi e militanti stranieri fascisti nell’esercito ucraino, mentre il Congresso e i media americani la acclamano».

 

Tra i cospiratori del colpo di Stato pianificato in Georgia, la Sicurezza di Stato di Tbilisi ha nominato anche Giorgi Lortkiphanidze, ex vice dell’ex ministro degli Interni georgiano, che ha assunto la carica di vice capo dell’Intelligence militare ucraina nel 2022.

 

Il rapporto del Servizio di Sicurezza di Tbilisi scrive inoltre che «il piano menzionato sarà realizzato attraverso il coordinamento e il sostegno finanziario di paesi stranieri. Secondo informazioni confermate e verificate, un gruppo abbastanza numeroso di individui di origine georgiana che combattono in Ucraina, così come una parte dei giovani georgiani… saranno utilizzati per l’attuazione del piano elaborato da Giorgi Lortkiphanidze, che sono attualmente addestrati/ riqualificato nelle vicinanze del confine di stato Polonia-Ucraina. (…) il gruppo giovanile (…) dovrebbe partecipare allo scenario rivoluzionario».

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La Sicurezza di Stato georgiana cita, tra le altre tattiche, l’occupazione di Tbilisi con tendopoli, l’uso di barricate attorno agli edifici governativi e l’uso di bombe contro i civili per scatenare scontri con la polizia, «è accertato che gli organizzatori stanno considerando l’attuazione di uno scenario in Georgia, che è simile all’”Euromaidan” tenutasi in Ucraina nel 2014».

 

Una nuova rivoluzione colorata 2.0 – dove, cioè, entra di prepotenza la violenza – a Tbilisi costringerebbe la Russia a dividere la sua attenzione su un ulteriore fronte, dove peraltro ha già combattuto e vinto una brevissima guerra nel 2008 quando Saakashvili attaccò le énclave etniche russe dell’Abcazia e dell’Ossetia.

 

Da notare che anche a poca distanza, su un altro confine russo, si sta riaprendo un altro conflitto mai risolto, quello di Armenia e Azerbaigian.

 

Tale operazione del genere potrebbe essere l’unico modo per i sostenitori della «guerra permanente» di continuare il loro tentativo di spezzare strategicamente la Russia dopo il fallimento della controffensiva Ucraina.

 

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Immagine di Zaraza via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)

 

 

 

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Economia

La Nigeria è diventata Paese partner dei BRICS

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La Nigeria è diventata ufficialmente un Paese partner dei BRICS dallo scorso 17 gennaio.   Il ministero degli Esteri del Brasile, che detiene la presidenza di turno dei BRICS quest’anno, ha fatto l’annuncio ieri, accogliendo con favore la decisione del governo nigeriano di unirsi al gruppo e sottolineando cosa l’adesione della Nigeria porta al tavolo dei BRICS: «con la sesta popolazione più grande al mondo, e la più grande in Africa, oltre a essere una delle principali economie del continente, la Nigeria condivide interessi convergenti con gli altri membri dei BRICS. Svolge un ruolo attivo nel rafforzamento della cooperazione Sud-Sud e nella riforma della governance globale, questioni che sono le massime priorità durante l’attuale presidenza del Brasile».   Con l’adesione dell’Indonesia come membro a pieno titolo il 6 gennaio, ci sono ora dieci membri a pieno titolo dei BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, più Egitto, Etiopia, Indonesia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. I membri a pieno titolo prendono tutte le decisioni per consenso.

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La nuova categoria di appartenenza delle nazioni partner è stata istituita all’ultimo vertice BRICS a Kazan, in Russia, nell’ottobre 2024, al fine di incorporare nazioni rappresentative delle diverse regioni del mondo desiderose di unirsi per partecipare alle sue deliberazioni, ma senza concedere loro potere di veto sulle decisioni finali.   Con l’adesione della Nigeria, ci sono ora nove paesi partner BRICS: Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Nigeria, Tailandia, Uganda e Uzbekistan. Altre tre nazioni invitate a unirsi come nazioni partner devono ancora accettare: Algeria, Turchia e Vietnam.   L’Arabia Saudita non ha né accettato né rifiutato l’invito dei BRICS del 2023 ad unirsi come membro a pieno titolo, ma i suoi rappresentanti continuano a partecipare alle sue riunioni. Tuttavia, una grande campagna di pressione fatta dalla politica e dell’alta finanza americana hanno cercato di scoraggiare Ryadh dall’adesione.   Come riportato da Renovatio 21, anche Serbia, Cuba, Bolivia e Turchia, tra gli altri, hanno manifestato interessa ad unirsi ai BRICS. Il Messico ha annunziato un anno fa, quando era presidente Lopez Obrador, che non avrebbe aderito ai BRICS. L’unico caso di Paese che opta per uscire, dopo esservisi avvicinato, è l’Argentina di Milei.

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
 
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Geopolitica

Groenlandia, eurodeputato danese manda Trump a fare in

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In un discorso al Parlamento europeo, un politico danese si è lanciato in una filippica carica di maleparole contro il neopresidente statunitense Donald Trump, respingendo le richieste di acquisto della Groenlandia da parte di Washington.

 

Trump, che ha prestato giuramento lunedì, ha ripetutamente affermato che la proprietà dell’isola artica danese ricca di minerali sarebbe necessaria per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ex colonia danese, la Groenlandia ha ottenuto l’autogoverno da Copenaghen nel 1979.

 

Martedì, Anders Vistisen, membro del Partito Popolare Danese, ha preso la parola al Parlamento europeo a Strasburgo.

 

«Caro Presidente Trump, ascolta molto attentamente», ha detto in lingua inglese. «La Groenlandia fa parte del regno danese da 800 anni. È una parte integrante del nostro Paese. Non è in vendita».

 

«Mi lasci dire le cose in parole che può capire», ha continuato il Vistisen. «Signor Trump, vaffanculo».

 


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A quel punto la vicepresidente dell’Europarlamento, Nicolae Stefanuta ha redarguito il Vistisen dicendo che la sua scelta di parole era inaccettabile. «Non va bene in questa casa della democrazia. Indipendentemente da ciò che pensiamo del signor Trump, non è possibile usare un linguaggio del genere», ha detto la Stefanuta.

 

In un post su X di ieri, il Vistisen sembrava moderare il suo messaggio a Trump.

 

«Signor Presidente, nel Partito Popolare Danese noi combattiamo per la Danimarca proprio come lei combatte per il suo Paese, gli USA. La Groenlandia è danese, non è in vendita, e né minacce né preghiere possono cambiare le cose», ha scritto. «Tratta bene i tuoi alleati e noi ricambieremo la cortesia».

 

Il primo ministro danese Mette Frederiksen e il governo pro-indipendenza della Groenlandia hanno escluso la vendita dell’isola autonoma agli Stati Uniti. Trump aveva originariamente proposto l’acquisto della Groenlandia durante il suo primo mandato.

 

Nel 2019, aveva annullato il suo viaggio in Danimarca dopo che Frederiksen aveva respinto l’idea.

 

Come riportato da Renovatio 21, Trump ha dichiarato di non escludere l’uso della coercizione per conquistare il territorio artico danese.

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Immagine di Elekes Andor via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0

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Geopolitica

Il giornale israeliano Haaretz dice che ora Gaza è sotto il controllo di… Donald Trump

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L’editorialista di Haaretz Amos Harel sostiene che in Israele non è il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ad avere il controllo, ma piuttosto Trump, nonostante gli accordi che il primo ministro ha stipulato per tenere unito il suo governo.   «Non è affatto chiaro se i leader di entrambe le parti siano interessati» alla fase 2, scrive Harel. «E tuttavia, potrebbe essere che domenica abbiamo salito il primo gradino della scala verso il completamento dell’accordo e la fine della guerra, grazie alle esortazioni di Donald Trump pochi giorni prima del suo giuramento per un secondo mandato come presidente degli Stati Uniti».   «Il discorso sulla ripresa della guerra, che dovrebbe avvenire alla fine della Fase 1 tra sei settimane, è già principalmente teorico», scrive l’editorialista israeliano, dopo aver sottolineato che il flusso di fino a 1 milione di palestinesi di ritorno a Gaza settentrionale potrebbe rendere difficile per l’IDF riprendere le operazioni lì.

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«La decisione ora spetta a Trump. Le numerose promesse che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto al Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich per garantire che il partito del Sionismo religioso rimanga al governo per tutta la durata della prima fase sono destinate a scontrarsi con le richieste di Trump» scrive il prestigioso quotidiano dello Stato Ebraico. «Se il Presidente americano insiste sul fatto che la guerra a Gaza deve finire, Netanyahu avrà difficoltà a sfidarlo».   Come riportato da Renovatio 21, Trump negli scorsi mesi aveva detto che Israele doveva porre fine alla Guerra a Gaza, non escludendo il taglio degli aiuti allo Stato degli ebrei e attaccando Netanyahu con rivelazioni su come gli israeliani lo avessero spinto ad uccidere il generale iraniano Qassem Soleimani.   Trump aveva altresì avvertito che a Gaza Israele stava perdendo il consenso globale e di conseguenza alimentando l’antisemitismo.   In varie occasioni è parso chiaro che The Donald opterebbe per la destituzione di Beniamino Netanyahu, il quale ha annullato il viaggio a Washington per la cerimonia di insediamento di Trump come 47° presidente degli Stati Uniti d’America.   Come riportato da Renovatio 21, è emerso una settimana fa che l’inviato di Trump (non ancora entrato in carica…) in Israele avrebbe avuto un incontro teso con Netanyahu. Poco dopo, è stata dichiarata la tregua.

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Immagine di Israel Ministry of Foreign Affairs via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC 2.0
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