Eutanasia
La «Costituzione materiale» dell’Italia umanoide, tra eutanasia e gender di Stato
Si è tenuta poche settimane fa, convocata dal neoeletto Presidente Augusto Barbera, la riunione straordinaria annuale della Corte Costituzionale, alla quale hanno partecipato anche il Presidente della Repubblica, rappresentanti delle camere e dell’esecutivo.
Nella sala a geometrie bianche e nere e con l’azzurro forte di certa araldica medievale, il quadro cromatico era adeguato al cipiglio polemicamente decisionista del presidente, accademico di lungo corso prestato alla politica su un versante che dall’ortodossia comunista degli inizi è scivolato fatalmente verso la metamorfosi ideologica del PD a trazione atlantista.
Dunque un uomo dei nostri tempi, nel senso della piena e progressiva consonanza con lo spirito del tempo prodotto dai potenti fabbricatori di etiche e di diritti, di pedagogie e di ideali, di cultura à la carte, ovvero del fantasmagorico luna park dove va in scena il nulla a tinta variabile, secondo le esigenze di mercato ma ad altissimo potenziale distruttivo.
E in una chiave «evolutiva» in ogni senso, il Presidente ha svolto il proprio discorso della corona, che come sempre in questi casi contiene il programma di governo e qualche nota sullo stato dell’unione, o meglio, della disunione che pare regnare tra la stessa Corte, la magistratura ordinaria e il Parlamento, disunione peraltro dovuta a qualche dissonanza di vedute etico politico giuridiche, peraltro opportunamente transeunti.
Anzitutto, in un fugace ma significativo preambolo è stato dispiegato tutto il repertorio canonico della correttezza politica in vigore. Dall’aggressione russa venuta dal nulla, all’orrore terroristico in medioriente che ha portato ad una «dura» reazione; dai femminicidi accostati ai morti sul lavoro, che così sono apparsi per quantità parificabili ai secondi, fino alla sempiterna condizione femminile, che non si sa se sia un dato archeologico o futurista.
Non sono mancate neppure le catastrofi ambientali causate, come è noto, oltreché dal cambiamento climatico, dalle abitudini umane, finché non è stata rievocata la fila dei camion militari pieni di bare a Bergamo e la consequenziale imposizione dell’obbligo vaccinale che, non per nulla, la Corte ha poi oculatamente legittimato.
Così, detto tutto quello che doveva essere detto, il Presidente Barbera è potuto entrare in medias res, per ribadire la fondatezza logica e giuridica di quell’obbligo, che era stato stabilito sulla base dei dati scientifici e sulle scelte, autorevoli per definizione, di altri autorevoli paesi. Riferimento doveroso nel giorno in cui si sono commemorate le vittime del covid, ma non quelle in continua espansione dei vaccini, per ovvi motivi di coerenza logica.
A proposito del rapporto tra la Corte e i giudici di merito cui spetta il compito di sollevare la questione di legittimità della norma da applicare nel caso concreto, ha lamentato come costoro, spesso, mossi da «eccesso valoriale» siano indotti a risolvere da soli tale questione, perché la overdose di scrupoli assiologici impedisce loro di attendere pazientemente il responso della Corte.
D’altra parte, tanto lavoro sarebbe risparmiato se questi giudici così zelanti, quando non sanno che pesci pigliare, si rivolgessero alle corti europee, vista la nota supremazia UE sull’ordinamento interno.
Ma la questione più grave da affrontare è, per il Presidente, quella della inerzia del Parlamento di fronte al necessario aggiornamento dei codici penale e civile sulle questioni cruciali del «fine vita», e delle note attitudini procreative e genitoriali della rinomata ditta LGBT etc.
Dunque una grande professione di fede progressista da parte di un attempato signore al quale la lunga esperienza di studio e di vita non impedisce di essere abbagliato dallo slancio vitale del nuovo, quello ritenuto capace di assicurare alla società sorti luminose a dispetto della realtà delle cose e della storia, della funzione ordinatrice e pedagogica del diritto, delle conseguenze di certe scelte politiche, di quella che dovrebbe essere la vocazione della intelligenza e della ragione.
Insomma il discorso presidenziale si è appuntato tutto sulla auspicata legalizzazione eutanasica, e sulla altrettanto auspicata legalizzazione delle «filiazioni» omosessuali, perché, in mancanza di lumi espliciti offerti dalla Carta costituzionale, è urgente che il Parlamento modifichi le norme ordinarie, in ossequio alla mutata «coscienza sociale», ovvero alla cosiddetta «costituzione materiale».
Solo che il problema giuridico e costituzionale è ben più complesso e sostanziale di quanto non vorrebbe far apparire la semplicistica, impavida e spericolata rappresentazione del Presidente.
Come ricordava Mortati, l’artefice principale della nostra, una Costituzione formale, scritta, serve a dare il necessario ordine e stabilità, con la fissazione di certi principi fondamentali, ad un ordinamento che non può giustificare la libera affermazione di comportamenti caotici lasciati a se stessi. Tuttavia, il medesimo ordinamento non può neppure rimanere estraneo alle continue mutazioni degli assetti sociali dovuti al divenire storico. Infatti sono proprio le istanze che vengono dal basso e dal diffuso sentire comune a formare una vera e propria «costituzione materiale» che precede e condiziona quella formale scritta nella quale essa si dovrebbe riconoscere.
Anche la Magna Charta fu il frutto della pressione e delle istanze dei baroni inglesi verso la Corona, perché il documento scritto non cade dal cielo, ma è la proiezione di forze sociali, di un sostrato ideale culturale e politico, che a sua volta è in continuo movimento. Non per nulla anche la nostra Carta costituzionale prevede la possibilità di una revisione delle proprie norme, a determinate condizioni procedurali.
Su questi presupposti concettuali ha fatto perno appunto il discorso del Presidente Barbera, volto a strigliare il Parlamento riluttante a legiferare su quei temi, che egli ritiene vitali per il progresso della civiltà italica, e a rispettare la «coscienza sociale» di un popolo che evidentemente, a suo modo di vedere, reclama a gran voce questo intervento e, se non lo reclamasse, mostrerebbe tutta la propria arretratezza.
Del resto, quando in passato il Parlamento ha registrato in via elettorale la volontà popolare, legalizzando l’aborto con la legge 194, ha posto una pietra miliare sulla via del progresso culturale e della affermazione di diritti fondamentali. Per non parlare del luminoso recente esempio fornito dalla Francia in cui l’aborto è salito al rango di diritto costituzionale.
Insomma «le assemblee parlamentari debbono rispondere alle esigenze della base elettiva. Il Parlamento deve cogliere le pulsioni evolutive e il continuo divenire della realtà. Mentre d’altro lato, la stessa Corte, se è custode della Costituzione, non deve costruire “una fragile Costituzione dei custodi”». Sicché, eventualmente, di fronte alla persistente inerzia del Parlamento, la Corte sarà costretta a farsi carico di dare riconoscimento in proprio ai «diritti fondamentali reclamati dalla coscienza sociale in costante evoluzione». In barba evidentemente anche alla separazione dei poteri e ad a una relativa spavalda usurpazione del potere legislativo.
Ma fermiamoci sull’insistita necessità di adeguamento ad una nuova coscienza sociale. Perché è anzitutto qui che casca l’asino.
Infatti, per parlare di coscienza sociale, bisognerebbe per prima cosa intendersi sul significato profondo e non superficialmente immaginifico di un lemma che ha bisogno di determinazione qualitativa e quantitativa. Non significa forse adeguamento ad uno zeitgeist che spira grazie alla imposizione mediatica, alla persuasione occulta attraverso il martellamento cinetelevisivo?
La coscienza sociale è forse quella performata attraverso la macchina mediatica? O non dovremmo guardare a una coscienza sociale che viene dal profondo dell’essere perché radicata come sedimentazione di un’etica che deve sussistere attraverso le generazioni per dare stabilità alla vita individuale e collettiva? Che a volte viene offuscata provvisoriamente dal frastuono e dalla prepotenza di minoranze chiassose e irresponsabili, come accadde proprio nei ribollimenti rivoluzionari, per tornare a riemergere una volta passata la tempesta?
Ma questa coscienza sociale propriamente detta non può di certo essere scambiata in modo tartufesco con quella ottenuta attraverso una omologazione programmata dall’alto. Con l’adeguamento alla pedagogia di un potere dominante munito di straordinari e sofisticati strumenti persuasivi. Un potere, tra l’altro, che dovrebbe essere incompatibile con la sbandierata eccellenza democratica, ogni riferimento alla quale è diventato indecoroso.
La coscienza di un popolo non è la sottomissione culturale indotta attraverso metodi sperimentali di psicologia sociale alla propaganda organizzata da una minoranza numerica che tiene in mano le redini della politica, magari come mandataria di mandanti più potenti.
Coscienza sociale non è l’addormentamento di sentimenti naturali attraverso l’indottrinamento di massa e la suggestiva necessità della omologazione. Non è la conformità di consensi falsamente spontanei, né la formazione di volontà e di fenomeni virtualmente «democratici».
Ora, se la necessità di un ordinamento giuridico è incontrovertibile, perché, come leggiamo nell’Odissea, solo i Ciclopi non hanno leggi, è anche vero che le leggi, per dirsi tali, non possono contravvenire a quella vocazione ordinatrice e di salvaguardia della comunità che chiamiamo bene comune. E questo fine non può essere perseguito senza l’ancoraggio a quel nucleo forte di valori che si traducono in principi, di regole scolpite, quelle sì, nella coscienza sociale, che chiamiamo in modo convenzionale «diritto naturale».
In altre parole, prima della Costituzione formale, e come sostrato stabile della costituzione materiale che la produce e la condiziona, ci deve essere un nucleo forte di principi saldi e irrefutabili, capaci di tenere in vita una società perché orientati a salvaguardare quella specificità umana che vede gli impulsi messi in forma dalla ragione, e la ragione orientata appunto al bene comune.
Questi sono i capisaldi morali della convivenza umana, che per i credenti sono stati scritti nelle tavole eterne della legge divina, ma che anche i laicisti possono individuare, secondo la nota lezione di Grozio «etsi Deus non daretur», nelle leggi che dovrebbero essere altrettanto eterne, individuate ed individuabili con la ragione.
Cose arcinote, si dirà. Ma che non ci si deve mai dimenticare di ricordare, perché è proprio qui che si annida il veleno, sempre in agguato nella retorica di una trappola terminologica. Rispetto a questo sostrato indefettibile, la Costituzione materiale di cui si parla da quando si è affermato il fenomeno costituzionale non rappresenta una entità sovrapponibile né omogenea, ma piuttosto una eccedenza sociopolitica sicuramente legata alle evoluzioni politico economiche e grosso modo culturali di un mondo in continuo movimento. Ma, al di là delle eccedenze legate a trasformazioni strutturali e istituzionali, l’etica profonda e sempre riaffiorante di una comunità umana è quella essenziale che rimane e deve rimanere immutata, in quanto ne garantisce un armonico perpetuarsi.
Sono le leggi fondamentali della convivenza volte teleologicamente al bene di una comunità che contiene anche l’io etico che va sottratto ai venti di dottrina e all’arbitrio del potere, che non deve essere esposto alle variabili ideologico culturali oggi più che mai dettate da interessi estranei al progresso morale e spirituale degli individui e della società di cui fanno parte.
Dunque, quando si parla di principi che precedono e devono precedere, per guidarla, la legge positiva, che è scritta perché posta dal potere politico, c’è il pericolo di un equivoco micidiale, di un corto circuito in cui il discorso viene imprigionato in un labirinto di parole senza uscita.
C’è il pericolo che per principi eterni e cogenti vengano spacciati quelli formulati nello spazio contingente occupato da una politica fine a se stessa, per dare senso alle proprie scelte operative. Basti pensare all’abusato principio di libertà intesa come affermazione di autonomia assoluta della volontà individuale, incurante delle conseguenze; o della cosiddetta uguaglianza che vorrebbe parificare capre e cavoli come appunto nel caso delle aspirazioni genitoriali della premiata ditta LGBT impegnata nella fabbricazione di umanoidi secondo scienza e incoscienza.
Per questo Barbera, da uomo esperto di giochi logici e paralogici, finisce per accennare polemicamente ad una mentalità positivistica, peraltro a suo dire declinante, di quanti, volendo rimanere ancorati a quello che i costituenti e il legislatore hanno scritto, evidentemente non immaginavano la deriva demenziale dei tempi avvenire, non si esaltano alla prospettiva di allargare il proprio orizzonte accogliendo le istanze di una «coscienza sociale» che invoca aborto, eutanasia e procreazioni fasulle.
Insomma egli critica velatamente quanti, dentro e fuori del Parlamento, rimangano ancora fermi alla attuale lettera delle leggi positive, negando la esistenza di un fantomatico diritto naturale legato alla nuova coscienza sociale, ovvero alla nuova costituzione materiale intesa nel senso che è stato indicato.
E non si accorge che, invocando l’intervento del Parlamento, auspica la cristallizzazione di nuovi principi etici i quali, lungi dall’essere iscritti nella coscienza comune come egli vorrebbe, sono frutto di una precisa ideologia adottata dalla politica. E non di una coscienza sociale che viene dalla sedimentazione di una storia dello spirito perché nutrita di esperienza secolare nella faticosa ricerca del bene collettivo, il solo capace di assicurare anche quello individuale. Attraverso una storia e una filosofia che in Occidente ha visto la fusione tra eredità greco romana e cristianesimo. O, più semplicemente, di una coscienza morale che sente in profondità quale vera filosofia della vita possa dare senso alla esistenza individuale e contribuire al bene comunitario al quale è non può non essere estranea l’uccisione dell’essere umano nel grembo materno, come l’unione sessuale contro natura o la morte inflitta per legge ad un innocente.
Barbera arriva a dire che nella Costituzione non c’è traccia letterale di principi che precludano l’ingresso di queste nuove auspicate norme. È vero, ma soltanto perché per costituenti «normali» come uomini, come politici e come giuristi, erano semplicemente impensabili queste novità venute da lontano, ma ora tutte leggibili alla luce della morte di Dio che significa morte di quell’umanità che a Dio si è sempre rivolta per dare senso alla propria esistenza.
Egli, più che guardare alla «coscienza» fittizia a cui si appella, dovrebbe guardare a cosa i costituenti guardavano dal punto di vista etico quando scrivevano la legge fondamentale per assicurare alla nazione una tenuta spirituale duratura. Quella che sola può assicurare la sopravvivenza identitaria di un popolo a fronte dei mutamenti contingenti e artificiali della politica e per la quale, ad esempio, già nei primi anni novanta, dopo settant’anni di ateismo di Stato, le chiese dei territori ex sovietici tornavano a traboccare di fedeli.
Che la Costituzione scritta preveda la necessità di un adeguamento delle leggi al divenire storico e al nuovo che materialmente si inserisce nella realtà comunemente vissuta, è vero. Ma questo adeguamento non può fare a meno di perdere l’ancoraggio a quei principi etici senza i quali le novità materiali travolgono la convivenza umana come una valanga di detriti informi che si abbatta a valle senza trovare ostacoli.
Inoltre, se il diritto è un prodotto del potere politico, né potrebbe essere altrimenti dal momento che occorre un’autorità capace di renderlo effettivo, esso si snatura quando diventa strumento della politica intesa come esercizio del potere che alimenta se stesso. Tanto più quando lo si crea appellandosi, per autogiustificarsi, a un sostrato ideale sottostante e lo si fa passare, in altre parole, per diritto naturale positivizzato.
È quanto avviene non a caso nei regimi totalitari: fu teorizzato da Vishinskij per quello sovietico e fatto proprio parimenti dal nazionalsocialismo. Qui il diritto era al servizio della politica. Si spacciava per diritto naturale proprio la scelta ideologica adottata dalla politica: non per nulla anche le leggi razziali furono introdotte in omaggio a un supposto sentimento popolare.
Allo stesso modo in cui le proposte normative del presidente rispecchiano la deriva culturale che la politica alimenta in ragione del proprio nichilismo ideologico. Dove il nulla morale della politica genera il nulla morale e culturale di cui fa uno strumento di potere, mentre viene spacciata per diritto naturale proprio la scelta ideologica adottata dalla politica.
Intanto, il veleno della disintegrazione morale risulta persino più potente perché inoculato a dosi prima piccole e poi sempre crescenti, proprio per annichilire le coscienze, come l’oppio serviva ai britannici per fiaccare il popolo che essi intendevano sottomettere.
Barbera dovrebbe chiedersi piuttosto, da giurista di vaglia, quali siano le conseguenze, che già si vedono, della torsione indotta su larga scala di un sentire veramente radicato che ha sorretto la vita di un popolo, dando forma alla sua arte, alla sua filosofia, alla sua letteratura, prima della débacle contemporanea.
Questo popolo ha conservato sempre un senso alto della vita e della morte perché inserite nella metafisica cristiana.
Esso ha inteso custodire nella propria anima, ad esempio, i propri figli morti lontano nella inutile strage, fermandone la memoria scolpita anche in mille lapidi di mille piccoli antichi borghi d’Italia, come nel grande tempio di Redipuglia.
Anche se altri ricordi meno riparati saranno poi cancellati dalle diaboliche distruzioni della nuova guerra venuta dal progresso.
Ma gli accorati eutanasisti di oggi, che nulla sanno della morte solitaria sul Carso, si compiacciono alla idea appagante della morte umanitaria inflitta in una stanza sterile a dozzina, perché nulla sanno del senso che la morte assume quando viene incastonata nella idea della continuazione, del congiungimento degli anelli che danno senso alla esistenza umana.
Non vedono come la morte inflitta in applicazione di un protocollo sanitario, compiaciuto di essere anche umanitario, diventi, proprio nella coscienza comune, un evento che nulla conserva di quella sublimazione di cui soltanto l’uomo può essere capace.
Del resto, è proprio l’idea della scissione a dominare lo spirito filantropico degli eutanasisti. Quella che, vestendo i paramenti nobili della autonomia, separa i morti dai vivi, e recide legami famigliari e annienta il senso alto della vita – ce lo ricordava Mario Palmaro – e toglie valore all’uomo in sé e alla sua esistenza individuale e comunitaria.
Il culto e la memoria dei morti secondo il destino comune collega le generazioni e non le fa sentire abitatrici di un vuoto intermedio, come la radice comune che lega il genitore al figlio riempie un vuoto in cui ci perderemmo se non fossimo tenuti per mano da chi ci ha generato, nell’alveo sacro della famiglia.
Ora invece si apparecchia il nulla per tutti, attraverso le anomalie della vita contro natura, e della morte à la carte. E si ritiene di mettere in forma l’anomalia appunto usando la norma, che infatti comporta normalizzazione. In entrambi i casi viene calata l’arma ricattatoria della pietà e dei buoni sentimenti. Secondo lo stesso meccanismo per cui la cremazione è preferibile «perché è una cosa pulita». E secondo la psicologia di ogni bene-fattore di modello filantropico sorosiano.
Tuttavia è certo che le due proposte sul tappeto, unificate dalla stessa mentalità nichilistica, agnostica e antiumana, in una visione economica neomalthusiana, seguano strade proprie sotto l’ombrello del valore oggettivo delle scelte individuali, per confluire nel travisamento della funzione e delle finalità delle leggi.
Le pretese LGBT, non per nulla identificate da una sigla di tipo commerciale, e la cosa basta a fotografare il fenomeno, navigano nello spazio onirico della allucinazione, di una visione drogata dal delirio di onnipotenza che pretende di ottenere consacrazione giuridica, cioè di acquistare valore assoluto in via burocratica. Una visione che rispecchia bene la disintegrazione intellettuale, prima che morale, dell’Occidente.
A dimostrare la incongruità di fantomatici diritti sbandierati dalla prima, dovrebbe bastare la considerazione che diritto soggettivo può essere soltanto quella pretesa riconosciuta meritevole di tutela dalla legge in quanto coincidente con l’interesse collettivo. E che da quel concetto esula invece ogni pretesa, individuale e particolare, che con quest’interesse non abbia nulla a che fare.
Al contrario, le istanze eutanasiche muovono da una realtà di fatto: si connettono al problema reale della sofferenza prolungata spesso indotta paradossalmente dal progresso delle tecniche sanitarie, sfruttano una realtà oggettiva per nulla insignificante. Infatti è reale e oggettiva la possibilità, anzi la frequenza, con cui chi è aggredito da sofferenze inenarrabili sia indotto ad invocare la morte liberatrice. Ed è problema antico.
In una scena finale della Notte di San Bartolomeo di Mérimeèe, uno di due fratelli uniti da amore profondo ma divisi da opposte scelte teologiche e politiche, e che infatti combattono a La Rochelle su fronti opposti, viene ferito a morte e soccorso proprio dall’altro, che lo mette a riparo e si dispera non accettando neppure l’idea dell’irreparabile. Il ferito in preda ormai a dolori insopportabili chiede da bere, ma questo gli viene negato perché affretterebbe la morte. Finché sopraggiunge il chirurgo e, compreso che non c’è speranza di salvarlo, fa passare il fiasco del vino al morente che spira di lì a poco.
L’episodio ovviamente richiama solo alla lontana e soltanto per certi profili umani il problema con cui abbiamo a che fare. Ma sta a significare come il rapporto col dolore e la morte abbia sempre impegnato la coscienza su un terreno in cui da sempre aspetti personali, etici, affettivi, razionali spesso in contrasto fra loro si intreccino chiamando in causa anche la questione della responsabilità.
In altre parole, si tratta in ogni caso di un problema che appartiene anzitutto, impegnandola, alla vita dello spirito, e in questo senso implica e richiede una assunzione personale di responsabilità. Mentre si snatura quando il piano della coscienza viene invaso dalla autorità calcolante del legislatore e del giudice.
Infatti l’aporia oggi sta proprio nella pretesa di affidare per legge ad un terzo una decisione sulla vita altrui, che per forza di cose si fonda su fattori non controllabili e indeterminati.
L’indisponibilità oggettiva della vita umana, è principio primo della convivenza e quindi il frutto più maturo della civiltà giuridica approdata, dopo un faticoso cammino secolare, a sancirlo, anche nei confronti dello Stato, con la abolizione della pena di morte.
Il monito biblico «nessuno tocchi Caino» acquista in questo senso tutto il suo contenuto più profondo.
Una indisponibilità oggettiva ben messa a fuoco dalle norme del codice penale che puniscono ancora, occorre dirlo con una certa apprensione, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Norme da cui emerge non a caso la preoccupazione del legislatore che la possibilità dell’omicidio si possa insinuare surrettiziamente, attraverso il contributo di una minorata difesa della vittima.
Una preoccupazione che però non sembra sfiorare tutti i sensibilissimi promotori eutanasici incapaci di sollevare lo sguardo al di sopra dei pensieri e delle emozioni facili. Perché occorre ribadirlo in modo che può apparire brutale a chi osservi con superficialità il problema: la cosiddetta eutanasia, o la si ricolloca, sia pure con mille distinguo, nell’alveo del dominio degli affetti e delle esperienze famigliari, nella storia privata dello spirito e della vita, e della responsabilità degli individui, oppure la si getta nei meccanismi della irresponsabilità burocratica, dell’arbitrio individuale legalizzato oppure di quello sempre in agguato dello Stato.
Questo aspetto continua a sfuggire alle anime belle che, senza rendersene conto, preferiscono consegnare nelle mani del potere ciò che appartiene allo spazio sovrano e duttile, ma non disumanizzato, della vita irripetibile dello spirito e dei rapporti privati.
Il paradigma completo della questione sul tappeto, con tutte le sue inquietanti implicazioni, lo abbiamo avuto nella sacra rappresentazione allestita nel 2009 col caso Englaro.
Lì si sono giocati i falsi sentimenti, i falsi diritti, le falsificazioni materiali e mediatiche, le aberrazioni giuridiche e quelle politiche. Dove l’arbitrio e l’inconsapevolezza, la suggestione e la pressione psicologica, hanno fatto da padroni e allo stato di minorata difesa della vittima sacrificale ha corrisposto l’interesse e il pragmatismo, la forza del potere e le mille modulazioni psicologiche o psicopatologiche di tutti gli attori in commedia, meno le tante voci della compassione e quella di poche materne infermiere.
Il punto estremo a cui può arrivare un tale meccanismo inesorabile lo abbiamo potuto sperimentare con le mostruosità che continuano ad essere esibite impunemente negli infernali ospedali britannici ormai specializzati a sopprimere per ordine del giudice bambini piccolissimi di genitori inermi di fronte ad un potere dal volto diabolico.
Dunque, una strada aperta dalla raccapricciante vicenda di Terri Schiavo, replicata con piccole varianti da quella di Eluana Englaro e poi dai piccini uccisi in Inghilterra. Tutti casi accomunati dall’essersi trattato di condanne a morte di innocenti eseguite per ordine del giudice, dunque dalla possibile longa manus del potere politico, oppure da chi si troverà a dover applicare una legge anch’essa frutto di un accomodamento politico, o… di un ordine presidenziale.
Ed è proprio questo che, anche da un punto di vista strettamente giuridico, senza neppure richiamarci alla legge divina, sembra sfuggire ai nuovi illuministi. Essi non si chiedono se, una volta concessa la licenza di uccidere – non importa a quali condizioni, comunque sempre interpretabili e sempre valicabili – questo potere non possa essere usato per scopi che nulla hanno a che fare con la nobile propria con-passione per la sofferenza altrui. Ma potrebbe tornare utile anche allo Stato Leviatanico per eliminare qualche scomodo intruso.
Così come il giurista di vaglia assiso alla presidenza della Corte Costituzionale non si chiede neppure cosa sarà la vita inflitta ad individui venuti dal nulla oscuro dell’arbitrio individuale e di un cieco egoismo consacrato per legge. Perché, al concetto di diritto soggettivo quale pretesa meritevole di tutela da parte dell’ordinamento perché coincidente con l’interesse collettivo, ha sostituito quello stabilito a suo tempo dalle Cirinnà, dai Vendola e dal Corriere della Sera, quale riconoscimento dovuto a qualsivoglia appetito individuale o di consorteria.
Che ne sarà di una società popolata dai prodotti di disadattati esistenziali in delirio di onnipotenza? Questa mancanza di riflessione dovrebbe preoccupare quanti finiranno per pagare e faranno pagare ad altri le costose conseguenze della propria follia.
Ci sono oggettive ragioni di contenuto etico e culturale che debbono guidare il diritto nel senso della sua vocazione di miglioramento antropologico. I presupposti di valore capaci di orientare la legge verso una oggettiva eticità, il bene comune, lo abbiamo chiamato diritto naturale scritto da Dio o messo in forma dagli uomini, sempre con la finalità di tracciare i limiti entro cui la legge non diventa quella del più forte, o di un potere antiumano.
Qui si gioca il senso stesso del diritto che o è per l’uomo, o non è. Per l’uomo considerato valore in sé, non quantificabile e non commerciabile, non riproducibile né sopprimibile a piacimento.
Patrizia Fermani
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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Bioetica
Corte Suprema indiana contro rimozione del sondino a paziente in stato vegetativo
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Eutanasia
Il Vaticano apre all’eutanasia. Novità?
Il Vaticano sembra aver spalancato definitivamente le porte all’eutanasia. Ma l’eutanasia era già alle porte da tempo.
A mettere tutto nero su bianco, è uscito di recente, per i tipi della Libreria Editrice Vaticana, il Piccolo lessico del fine vita. Ottantotto pagine dove si dichiara la liceità dell’interruzione di pratiche come la ventilazione meccanica, la tracheostomia e la rianimazione. Dulcis in fundo (dulcis mors in fundo), il volumetto contiene anche un modello di DAT, le famose Disposizioni anticipate di trattamento comunemente definite «testamento biologico» o «biotestamento», disciplinate dall’art. 4 della Legge 219 del 22 dicembre 2017 entrata in vigore il 31 gennaio 2018.
Il libro, edito dalla Pontificia Accademia per la Vita (la PAV, istituita da Giovanni Paolo II, ha «come fine la difesa e la promozione del valore della vita umana e della dignità della persona»), fa uso di un noto argomento tributato dalla necrocultura laica: si afferma che i trattamenti salvavita possano essere sospesi in quanto rappresentino una forma di «accanimento terapeutico», formula dai margini incerti ed elastici che abbiamo sentita mille volte senza aver capito mai del tutto cosa significhi. Del resto, è fatta per quello.
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Tra i capitoli del libretto funebre – che, per paradosso, è un vero e proprio manifesto della PAV sotto il regno di monsignor Vincenzo Paglia – troviamo quello sulle DAT, con annesso modulo tramite cui il sottoscrittore in teoria cattolico può rifiutare «trasfusioni di sangue, antibiotici, trattamenti di sostegno vitale quali la ventilazione meccanica invasiva e non invasiva, la tracheostomia, la emodialisi e la rianimazione cardio-polmonare».
Ecco a voi la sovranità biologica, l’autodeterminazione secondo Paglia: lo stesso organo e lo stesso vescovo che lottavano per l’obbligatorietà dei vaccini da ben prima della pandemia, spingendo poi, a supplementari scaduti, pure per la quinta dose mRNA.
L’ammissione vaticana della pratica eutanatica appare, dunque, una cosa implicita.
«Anche qualora fossero appropriati clinicamente, i trattamenti potrebbero tuttavia risultare sproporzionati, qualora la persona malata li ritenesse troppo gravosi nelle circostanze in cui si trova» si legge nel testo. «Non intraprendere o sospendere quei trattamenti è, a questo punto, non solo possibile, ma, come dice papa Francesco “doveroso”».
Proprio così: a parlare di trattamenti sproporzionati è lo stesso Vaticano che piamente, ecumenicamente impose il vaccino mRNA a tutti i suoi abitanti e lavoratori, a terra e in volo, con espulsione de facto dei renitenti, lasciapassare vaccinale controllato dalle guardie svizzere e qualche incontro segreto tra il romano pontefice e il CEO di Pfizer Alberto Bourla. L’accordo fra i due, come capita agli altri patti tra Big Pharma e Stati nazionali e pure transnazionali, tutt’ora non è noto.
Il Piccolo Lessico scrive che la decisione di rinunciare ad antibiotici, trasfusioni, rianimazioni, è del malato, che i trattamenti bisogna «calibrarli (…) secondo criteri di (…) effettiva corrispondenza alle richieste del paziente e con i suoi valori ed esigenze spirituali».
Il giochino è lo stesso che abbiamo visto fare ai nemici della vita da decenni: se il risultato è la morte, si inneggia alla libertà. Se invece è la libera scelta per la salute, si sguaina l’obbligo. Abbiamo qui in nuce l’essenza della necrocultura: innestata nel profondo della società, essa prevede che la forza di gravità delle cose umane debba attrarre verso la morte, verso l’annientamento dell’uomo. Una tendenza velata dalla maschera sempre più trasparente e ridicola della «libertà», della «autonomia», della «democrazia» e di tutto il corredo individualista, cioè liberale, dell’Occidente suicida.
È stato notato che il modello di DAT proposto nel libello della PAV è molto simigliante a quello pubblicato nel 2020 da Aggiornamenti sociali, rivista della rete gesuita legata alla Fondazione culturale San Fedele di Milano, istituzione della Compagnia di Gesù da cui provenivano il vecchio arcivescovo meneghino Carlo Maria Martini e lo stesso Bergoglio.
Nel 2017 vi si era trattato il tema DAT riguardo a nutrizione e idratazione artificiali (NIA) affermando che «nella riflessione cattolica si è spesso affermato che questi mezzi sono sempre doverosi; in realtà, la NIA è un intervento medico e tecnico e come tale non sfugge al giudizio di proporzionalità (…) poiché non si può escludere che in casi come questi la NIA divenga un trattamento sproporzionato, la sua inclusione fra i trattamenti rifiutabili è corretta».
Vale la pena di chiedere, a questo punto: i sondini che alimentavano Eluana Englaro erano un trattamento sproporzionato? Era quindi giusto uccidere Eluana? I gesuiti stanno dicendo questo?
Un modello di DAT scaricabile nel 2020 dal sito del rotocalco gesuita conteneva la facoltà di dire no a «trasfusione di sangue o di suoi derivati; antibiotici, salvo in caso di tutela della salute di terzi; trattamenti di supporto vitale, quali: ventilazione meccanica invasiva, tracheostomia, ventilazione meccanica non invasiva, emodialisi, manovre di rianimazione cardio-polmonare». I medesimi trattamenti salvavita dei quali parla il Piccolo lessico di fine vita fresco di stampa vaticana, e non sappiamo se nella versione ebook vi sia pure un «CLICCA QUI» per autocompilare online il modulo con cui defungere neocattolicamente.
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E quindi: sono i gesuiti che stanno guidando la deriva eutanatica? Sappiamo che sono loro – in particolare quelli legati ad un’altra testata della Compagnia, America magazine – a condurre la campagna di omotransessualizzazione ecclesiastica. Padre Martin non perde occasione per ricordarcelo e Bergoglio, che lo porta in palmo di mano – l’ultima lettera di incoraggiamento per incontri di trans risale a una settimana fa – ci mostra quanto seria è la storia per cui il papa si opporrebbe alla «frociaggine».
Per incidens, poiché tutto torna, va ricordato che monsignor Paglia, oltre che per la sua passione per i vaccini, è noto pure per la storia del Duomo di Terni, la sua diocesi, per il quale una decina di anni fa ha commissionato un enorme affresco definito «omoerotico».
Abbiamo inoltre già visto su queste pagine come in realtà la PAV stia sdoganando la riproduzione artificiale, e la foto di Bergoglio circondato dai figli di Elon Musk – tutti usciti dalla provetta – è la dimostrazione che la decisione riguarda il papato profondo.
Più chiaro ancora, rammentiamo che il monsignore recentemente ha specificato che la legge genocida 194/78 rappresenta «un pilastro della nostra società».
Ci è chiaro, a questo punto, cosa sia davvero la «dolce morte» nel disegno complessivo. Ci diranno che è per chi decide di morire, nel giro di poco saremo overtonianamente passati dal volente al nolente, con la strage totale dei malati (come Adolfo, meglio di Adolfo) come logica conseguenza.
Guardate il Canada: l’eutanasia spinta in Quebecco è divenuta, in breve, una campagna di morte in tutto il Paese, dove si sopprime non solo il tumorato, ma anche il quadriplegico, il depresso, l’eco-ansioso, l’autistico, persino il povero – e ovviamente si discute dei bambini.
La macchina assassina – ora completamente normalizzata, anzi, sacralizzata – non si ferma mica lì: ecco che si moltiplicano i casi di invalidi (tra cui, cucù, i danneggiati COVID) a cui gli assistenti sanitari offrono, in forma sempre meno strisciante, l’opzione del MAiD, ossia della loro terminazione ad opera dello Stato canadese. Nel 2022, una persona ogni 25 in Canada moriva uccisa dal «suicidio assistito» – primato che consente un altro grande primato caro al mondo moderno, quello della predazione degli organi.
Vediamo bene cosa è successo: lo hanno venduto come un «diritto», era solo un grande massacro di innocenti. Il solito. E il Vaticano, ha detto qualcosa del Canada del fondamentalismo eutanasico? Non ci pare: nemmeno quando Bergoglio volò laggiù, si mise il copricapo da nativo e partecipò ad un rito pagano in mondovisione.
Insomma, ci è chiaro come non vi sia pratica della necrocultura che la neochiesa non voglia sdoganare, e sembra pure aver fretta di farlo.
Una fretta del diavolo, verrebbe da dire.
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
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Eutanasia
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