Geopolitica
India, bombardamenti sui tribali che si oppongono alle miniere
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
La denuncia di un’eurodeputata portoghese per fatti che sarebbero avvenuti nelle scorse settimane nel distretto di Bastar. Nell’area è forte la presenza dei naxaliti, la guerriglia maoista che si oppone al governo di Delhi. Dal 2017 l’esercito ha lanciato l’operazione Samadahn-Prahar per sradicare l’insurrezione che frena le attività estrattive. Ma negli ultimi tre anni parecchi giovani rimasti senza lavoro si sono uniti ai miliziani, in un ciclo senza fine di violenza.
All’inizio di aprile l’India avrebbe bombardato gruppi di adivasi nel distretto di Bastar, nello Stato orientale di Chhattisgarh, per scoraggiare i movimenti ambientalisti indigeni nella loro lotta contro la costruzione di miniere sui loro territori.
A denunciarlo è l’eurodeputata portoghese Marisa Matias con un’interrogazione parlamentare presentata nei giorni scorni scorsi a Strasburgo: l’India ha condotto quattro attacchi aerei a Bastar negli ultimi tre anni, ha affermato Matias sottolineando che l’ultimo di questi incidenti è avvenuto a Bijapur il 7 aprile, quando il governo indiano «ha inviato tre elicotteri per scaricare pesanti colpi di mitragliatrice sugli abitanti del villaggio».
«Questi attacchi – ha aggiunto l’eurodeputata – violano gravemente il diritto alla vita delle popolazioni indigene in India e contribuiscono a una diffusa distruzione ambientale».
Bastar è una zona dell’India nota per essere controllata dai maoisti, o naxaliti, i combattenti che negli anni ‘60, dopo rivolta tribale di Naxalbari, nel Bengala Occidentale, hanno dato vita, sotto l’ombrello del Partito comunista indiano-maoista, a un movimento violento contro lo sfruttamento economico e ambientale del governo centrale, a loro detta per proteggere gli adivasi, le tribù indigene.
In alcuni casi, però, sono stati documentati anche episodi di violenza dei maoisti contro i civili, comprese donne e bambini, utilizzati come scudi umani o arruolati nella guerriglia. L’organizzazione (compreso il suo braccio armato, la People’s Liberation Guerrilla Army o PLGA), in quanto «estremismo di sinistra» è stata messa al bando dal governo indiano, che però non è riuscito (almeno finora) a sradicarla del tutto.
Delhi ha ingaggiato una vera e propria battaglia contro i maoisti per il controllo delle terre tribali – ricche di risorse naturali e minerali preziosi che fanno gola a diverse aziende, in particolare quelle appartenenti al gruppo Adani.
Il governo indiano, guidato dal partito ultranazionalista indù del Bharatiya Janata Party (BJP) ha lanciato nel 2017 l’operazione Samadahn-Prahar, che prima della pandemia aveva dato un duro colpo ai naxaliti. Tuttavia negli ultimi tre anni parecchi giovani rimasti senza lavoro si sono uniti ai maoisti, in un ciclo senza fine di violenza: la Commissione militare centrale del Pci-m aveva ammesso, a dicembre 2020, di aver ucciso circa 3mila poliziotti, 222 politici e oltre 1.100 informatori della polizia, e di aver perso circa 4.500 suoi combattenti dal 2001.
Va ricordato che la difesa dei diritti delle popolazioni adivasi era stata anche la battaglia di padre Stan Swamy, il gesuita indiano morto nel 2021 a 84 anni dopo nove mesi di detenzione in un carcere di Mumbai proprio per essere stato falsamente accusato di legami con la guerriglia maoista. Non è affatto raro che il governo di New Delhi associ ai naxaliti chiunque opera per i diritti dei tribali, come faceva padre Swami Stan nel Jarkhand.
Dopo il presunto bombardamento la testata indiana Scroll è andata a verificare i fatti: i residenti di quattro villaggi hanno confermato di aver assistito agli attacchi aerei e di aver sentito spari nella foresta, mentre le forze di sicurezza hanno negato le accuse. Tuttavia l’ispettore generale Saket Kumar Singh, capo locale della Central Reserve Police Force (una sezione della polizia che si occupa delle operazioni di contro-insurrezione) ha ammesso che i suoi uomini hanno sparato per «autodifesa» durante uno degli attacchi.
I giornalisti di Scroll hanno inoltre recuperato diversi resti in metallo e plastica e del materiale elettronico sulle colline dove pare sia avvenuto il bombardamento del 7 aprile. Gli esperti non sono stati in grado di identificarli con precisione, ma hanno avanzato l’ipotesi che possa trattarsi di proiettili esplosivi progettati per colpire un bersaglio specifico.
Secondo quanto dichiarato dal PCI-M a gennaio di quest’anno, in occasione di un altro bombardamento, le truppe governative non riescono a penetrare nell’entroterra degli Stati tribali a causa dell’ostilità della popolazione locale, per cui si riducono a bombardare i villaggi nel tentativo di fiaccare la resistenza.
Il PCI-M, nel suo comunicato, continua sottolineando la necessità di impedire al governo di vendere le terre indigene e dare nuove concessioni per la costruzione di miniere.
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Immagine di Government of India via Wikimedia pubblicata su licenza GODL-INDIA.
Geopolitica
Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati
Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.
In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».
Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.
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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.
Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.
L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.
«Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».
Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».
Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.
«Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.
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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato
Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.
L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.
Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.
Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.
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Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
Geopolitica
Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine
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Geopolitica
L’Iran minaccia ancora una volta di spazzare via Israele
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.
Raisi è arrivato in Pakistan lunedì per una visita di tre giorni. Martedì ha parlato delle recenti tensioni tra Teheran e Gerusalemme Ovest in un evento nel Punjab.
«Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», ha detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.
Israele non ha mai riconosciuto ufficialmente un attacco aereo del 1° aprile sul consolato iraniano a Damasco, in Siria, che ha ucciso sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Teheran ha tuttavia reagito il 13 aprile, lanciando decine di droni e missili contro diversi obiettivi in Israele.
L’Iran si è scrollato di dosso una serie di esplosioni segnalate vicino alla città di Isfahan lo scorso venerdì, che si diceva fossero una risposta da parte di Israele. Lo Stato degli ebrei non ha riconosciuto l’attacco denunciato, pur criticando un ministro del governo che ne ha parlato a sproposito. Teheran ha scelto di ignorarlo piuttosto che attuare la rapida e severa rappresaglia promessa.
La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il «regime sionista», espressione con cui spesso chiama Israele.
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Martedì, parlando a Lahore, il Raisi ha promesso di continuare a «sostenere onorevolmente la resistenza palestinese», denunciando gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo come «i più grandi violatori dei diritti umani», sottolineando il loro sostegno al «genocidio» israeliano a Gaza.
Nel suo viaggio diplomatico il Raisi ha promesso di incrementare il commercio iraniano con il Pakistan portandolo a 10 miliardi di dollari all’anno. Le relazioni tra i due vicini sono difficili da gennaio, quando Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei e droni mirati a “campi terroristici” nei rispettivi territori.
Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.
Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.
Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.
Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».
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Immagine di duma.gov.ru via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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