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Alimentazione

Guerra alla carne bovina: gli allevatori americani a sostegno della protesta degli olandesi

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R-CALF USA, la più grande associazione di allevatori di bestiame indipendenti negli Stati Uniti, il 21 luglio, ha rilasciato una dichiarazione di sostegno agli agricoltori dei Paesi Bassi, che stanno protestando contro gli impossibili obblighi del governo dell’Aia per ridurre le emissioni di azoto il 2023.

 

Bill Bullard, il CEO di R-CALF USA, ha dichiarato che «gli agricoltori olandesi stanno affrontando una minaccia immediata per i loro mezzi di sussistenza, libertà e indipendenza. Gli allevatori e gli allevatori di bestiame americani sono sul punto di subire la stessa sorte, motivo per cui R-CALF USA sostiene i contadini-manifestanti olandesi che stanno combattendo in prima linea».

 

Per l’americano il governo olandese sta ignorando «qualsiasi preoccupazione per le riduzioni della produzione alimentare che si verificheranno quasi sicuramente nell’ambito dell’obbligo».

 

R-CALF USA sta per Ranchers-Cattlemen Action Legal Fund United Stockgrowers of America. Con sede nel Montana, ha guidato la battaglia dei piccoli allevatori negli ultimi anni, combattendo nei tribunali, nel Congresso e nell’arena pubblica, contro il cartello dei cosiddetti Big Four , i quattro maggiori confezionatori di carne che dominano l’85% della lavorazione della carne bovina degli Stati Uniti: Tysons, Cargill, JBS e Marfrig.

 

Bullard ha denunciato il governo olandese per aver tentato di «sottomettere molti o tutti gli agricoltori della sua Nazione. Esortiamo tutti gli americani a unirsi a noi nell’ammonire l’azione del governo olandese e a sostenere gli agricoltori olandesi».

 

Bullard ha sottolineato il punto in particolare che il suo gruppo di allevatori si è opposto da tempo a consentire l’importazione di carne bovina negli Stati Uniti dai Paesi Bassi, un grande esportatore di carne bovina, o da altre nazioni di origine dell’esportazione per i cartelli mondiali della carne, ma che R-CALF USA sostiene gli agricoltori olandesi .

 

«Non si tratta di politica commerciale. I Paesi Bassi sono il punto di partenza per uno sforzo globalizzato per controllare l’approvvigionamento alimentare e coloro che lo producono» ha detto Bullard, che ha rilasciato una dichiarazione video sulla protesta degli agricoltori olandesi la scorsa settimana. Le sue dichiarazioni stanno circolando anche in tedesco.

 

R-CALF USA ha quindi rivelato come l’agenda «verde» venga utilizzata come copertura per attaccare gli allevatori di bovini e tagliare l’approvvigionamento alimentare, come nel caso della Global Roundtable for Sustainable Beef (GRSB).

 

Tracy Hunt, un allevatore e avvocato del Wyoming, leader di R-CALF USA, ha smascherato il GRSB come un gruppo di facciata-

 

«Il GRSB è iniziato nel 2014 ed è composto da circa 350 persone che si sono riunite e hanno deciso di voler creare quella che chiamano carne bovina sostenibile. Chi sono queste persone? Confezionatori, ristoranti, trasformatori, rivenditori, associazioni, banche e gruppi ambientalisti. Wal-Mart, McDonalds, JBS, Cargill, Allflex, Merck, Elanco, Rainforest Alliance e il WWF» aveva raccontato Hunt ad un incontro in Sud Dakota ancora nel 2014.

 

In pratica, megagruppi industriali e finanziari, enti iper-ambientalisti. Una sorta di grande cartello, la cui agenda potrebbe coincidere con quella di Davos, che sull’agricoltura ha varato e implementato vari programmi, con l’invito persistente a consumare proteine d’insetto.

 

Il Grande Reset del settore alimentare è finalmente qui. E i soldi di Bill Gates ci sono già, a finanziare la carne sintetica, la bioingegneria CRISPR anche per gli alimentari e supermercati biologici – questi ultimi, in Olanda, hanno avuto qualche recente difficoltà, però: uno di essi ha preso fuoco.

 

 

 

 

 

 

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Alimentazione

Il Pakistan rischia una crisi alimentare come i Paesi in guerra

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

L’allarme lanciato da Fao e World Food Programme. Gli effetti a lungo termine delle alluvioni della scorsa estate, da cui il Paese deve ancora riprendersi, si intrecciano con l’instabilità politico-finanziaria. La mancanza di valuta estera e il deterioramento del potere d’acquisto impediscono di importare e comprare generi alimentarli, facendo al contrario aumentare l’inflazione.

 

 

Il Pakistan soffre di insicurezza alimentare come se fosse un Paese in guerra a causa dell’instabilità politica, degli shock economici e in conseguenza alle devastanti alluvioni dello scorso anno da cui il Paese non si è ancora ripreso.

 

L’ultimo rapporto di allerta sulla fame pubblicato ieri dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) e dal World Food Programme (WFP) sottolinea che l’insicurezza alimentare acuta è destinata ad aumentare nei prossimi mesi in 22 Paesi del mondo, la maggior parte dei quali prostrati da conflitti: Burkina Faso, Haiti, Mali, Sudan e Sud Sudan, Afghanistan, Nigeria, Somalia, Yemen sono le nazioni per cui è stata alzata la massima allerta.

 

Ma anche la Repubblica Centrafricana, il Congo, l’Etiopia, il Kenya, il Pakistan e la Siria rientrano tra i Paesi che destano forte preoccupazione, insieme al Myanmar, da oltre due anni devastato dalla guerra civile scaturita dal colpo di Stato militare del primo febbraio 2021. Si tratta di aree in cui un gran numero di persone in situazione di insicurezza alimentare acuta rischia un peggioramento delle proprie condizioni a causa di fattori politici, economici e ambientali che minano la vita della popolazione.

 

La sicurezza alimentare viene misurata in base a un indice chiamato a livello internazionale IPC (Integrated Food Security Phase Classification o classificazione di fase della sicurezza alimentare integrata). Le fasi sono cinque: si va dalla generale sicurezza alimentare all’insicurezza moderata, passando poi alla fase acuta, fino all’emergenza e infine alla carestia.

 

In Pakistan, le Nazioni unite hanno raccolto dati da 3 province del Paese dove, tra settembre e dicembre 2022, 6 milioni di persone hanno sofferto di insicurezza alimentare acuta e 2,6 milioni hanno dovuto affrontare una situazione di emergenza in uno Stato di oltre 230 milioni di abitanti.

 

L’ONU ritiene che le condizioni rischiano di peggiorare entro la fine dell’anno a causa della crisi politico-finanziaria che sta riducendo il potere d’acquisto delle famiglie e quindi la possibilità di comprare beni alimentari. Islamabad dovrà infatti rimborsare 77,5 miliardi di dollari di debito estero entro giugno 2026, un importo considerevole se si considera che nel 2021 il PIL del Pakistan era di 350 miliardi di dollari.

 

L’instabilità politica, caratterizzata dal confronto tra il governo, appoggiato dall’esercito, e l’ex primo ministro Imran Khan, il cui arresto a inizio mese ha scatenato violente proteste in tutto il Paese, impedisce l’erogazione di una nuova linea di credito da parte del Fondo monetario internazionale o da parte di Paesi partner. Si prevede inoltre un aumento dei disordini prima delle elezioni previste a ottobre di quest’anno, mentre in alcune aree aumenta l’insicurezza a causa della minaccia terroristica.

 

Per fare un confronto, nel vicino Afghanistan, senza più fondi internazionali e in crisi economica a seguito della riconquista dei talebani ad agosto 2021, si prevede che 15,3 milioni di persone dovranno affrontare una situazione di insicurezza alimentare acuta tra maggio e ottobre 2023, mentre circa 2,8 milioni di persone si troveranno in situazione di emergenza.

 

La carenza di riserve estere e il deprezzamento della valuta stanno riducendo la capacità di importare beni alimentari, causando al contrario un aumento dell’inflazione e costringendo il governo del Pakistan a imporre tagli all’energia per mancanza di carburante.

 

L’inflazione dei beni alimentari è passata dall’8,3% di ottobre 2021, al 15,3% a marzo 2022, poi al 31,7% a settembre 2022, e infine ha raggiunto il 35% a dicembre 2022. Gli operai, che in media guadagnano due dollari al giorno, hanno perso il 30% del loro potere d’acquisto.

 

Ma all’origine di questa situazione ci sono le alluvioni della scorsa estate che hanno inondato due terzi del Paese e hanno provocato la morte di oltre 11 milioni di capi di bestiame e la distruzione di oltre 9,4 milioni di acri di terra coltivata (circa l’80% di tutti i terreni agricoli del Paese) nelle province del Balochistan e del Sindh, aree già insicure in termini di disponibilità di cibo.

 

Secondo la Banca mondiale, in tutta l’Asia meridionale la produzione alimentare è stata interrotta a causa delle piogge monsoniche superiori al normale, mentre in altre aree si sono verificate precipitazioni inferiori.

 

 

 

 

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Alimentazione

L’ONU riduce le razioni alimentari dei profughi Rohingya

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Il Programma Alimentare Mondiale ha dichiarato di essere stato costretto per la mancanza di fondi, nonostante la regione sia appena stata devastata dal passaggio del ciclone Mocha. Secondo alcuni osservatori molti rifugiati potrebbe sentirsi costretti a tornare nello Stato Rakhine, in Myanmar, dove però la situazione resta difficile a causa del conflitto civile.

 

 

La comunità birmana dei Rohingya ha espresso preoccupazione per la decisione delle Nazioni unite di ridurre nuovamente le razioni alimentari di assistenza previste il milione di profughi ospitati nel campo di Cox’s Bazar, in Bangladesh.

 

l Programma alimentare mondiale (PAM) ha dichiarato di essere stato costretto a ridurre il sostegno a causa della mancanza di fondi: si tratta del secondo taglio in tre mesi, e arriva in un momento di grande difficoltà per la popolazione locale a seguito del passaggio del ciclone Mocha, che il 14 maggio ha colpito lo Stato birmano al confine del Rakhine. Secondo le stesse Nazioni unite almeno 800mila persone necessitano di assistenza umanitaria urgente.

 

Il portavoce dell’organizzazione, Kun Lee, ha spiegato ai media che dopo essere passati da 12 a 10 dollari al mese, i sussidi saranno ridotti da 10 a 8 dollari al mese a partire dal primo giugno. Saranno necessari 56 milioni di dollari per continuare a fornire razioni complete, ha aggiunto.

 

Peter Saiful, un cristiano di etnia Rohingya (nonostante la comunità sia in prevalenza di fede islamica) parlando con AsiaNews ha elencato i rischi che derivano dalla scelta dell’ONU: «molti gruppi criminali spingono i Rohingya a fare un uso improprio dei sussidi e i giovani possono venire adescati. Inoltre, dal momento che il governo del Bangladesh non permette ai Rohingya di lavorare, alcuni potrebbero fuggire dai campi nel tentativo di fare soldi in zone isolate del Paese. Infine, senza il cibo necessario a sopravvivere, potrebbero aumentare le malattie o addirittura alcuni potrebbero accettare di tornare in Myanmar nonostante non sia un ambiente sicuro».

 

Il primo febbraio 2021 la giunta militare del Myanmar ha estromesso il precedente governo e preso il potere con un colpo di Stato, dando avvio a un cruento conflitto civile. I Rohingya, una comunità concentrata nello Stato occidentale del Rakhine, perseguitata e resa apolide dal governo birmano, sono scappati in Bangladesh a partire dal 2017 per sfuggire alle violenze dei militari contro di loro.

 

«Il Bangladesh non può costringere i Rohingya ad andarsene se non con il rimpatrio volontario. Nessun Rohingya ha accettato di tornare in Myanmar» ha commentato Peter Saiful, che è membro della Chiesa protestante Bethel. «Potrebbe esserci dietro il tentativo di costringere il Programma Alimentare a ridurre le razioni di cibo e i beni di prima necessità per spingere i Rohingya a rientrare», ha aggiunto.

 

La scorsa settimana la prima ministra Sheikh Hasina ha dichiarato alla BBC che i Rohingya sono stati accolti in Bangladesh nel rispetto dei diritti umani: «quando erano in pericolo abbiamo permesso loro di entrare nel nostro Paese, abbiamo preso provvedimenti per loro. Almeno 40mila donne erano incinte. Abbiamo dato loro cibo e assistenza sanitaria. All’inizio si è fatto avanti nessuno, ma la gente del nostro Paese li ha aiutati», ha dichiarato la premier.

 

Nel frattempo le condizioni di vita nei campi si sono progressivamente deteriorate: negli ultimi cinque anni e mezzo sono stati registrati almeno 164 omicidi.

 

Alcuni Rohingya sono coinvolti nel traffico di droga e di esseri umani e sembra che dietro alle violenze ci siano faide tra diversi gruppi per il controllo del commercio di stupefacenti all’interno del campo.

 

Inoltre, negli ultimi mesi, alcuni soldati bangladeshi sono stati uccisi durante le imboscate delle milizie etniche del Myanmar. Per questa ragione Dhaka vede sempre meno di buon occhio la presenza di così tanti profughi sul proprio territorio.

 

 

 

 

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Immagine di Mohammad Tauheed via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0)

 

 

 

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Alimentazione

Legame tra cibo processato e salute mentale: il ruolo del microbioma

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L’alimentazione moderna avrebbe effetti negativi sulla salute mentale. Lo riportano una serie di studi citati dal New York Times.

 

Recenti ricerche hanno dimostrato un legame tra alimenti altamente trasformati e umore basso.

 

In uno studio del 2022 su oltre 10.000 adulti statunitensi, più i partecipanti mangiavano cibi ultra-processati (UPF), più era probabile che riferissero di depressione lieve o di sentimenti di ansia. «C’è stato un aumento significativo dei giorni mentalmente malsani per coloro che mangiavano il 60%o più delle loro calorie dagli UPF», scrive il dottor Eric Hecht, epidemiologo allo Schmidt College of Medicine della Florida Atlantic University e autore dello studio. «Questa non è una prova del nesso di causalità, ma possiamo dire che sembra esserci un’associazione».

 

Per alimenti ultraprocessati si intendono qui cibi preparata con ingredienti che vengono usati raramente nelle ricette fatte in casa, come sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio, oli idrogenati, isolati proteici e additivi chimici come coloranti, aromi artificiali, dolcificanti, emulsionanti e conservanti, sostiene uno studio brasiliano del 2009. Tale sistema di classificazione è ora ampiamente utilizzato dai ricercatori nutrizionisti.

 

Gli UPF costituiscono la maggior parte degli alimenti confezionati che trovi nei corridoi dei surgelati nei negozi di alimentari e nel menu dei fast-food: il 70% degli alimenti confezionati venduti negli Stati Uniti sono considerati ultraprocessati.

 

«Gli alimenti ultraprocessati sono accuratamente formulati per essere così appetibili e soddisfacenti da creare quasi dipendenza», afferma il dottor Hecht. «Il problema è che per rendere i prodotti sempre più gustosi, i produttori li rendono sempre meno simili al cibo vero».

 

Una nuova ricerca ha anche trovato una connessione tra un elevato consumo di UPF e il declino cognitivo. Uno studio del 2022 che ha seguito quasi 11.000 adulti brasiliani per un decennio ha trovato una correlazione tra il consumo di cibi ultraelaborati e una peggiore funzione cognitiva (la capacità di apprendere, ricordare, ragionare e risolvere problemi).

 

Non è chiaro il modo in cui l’alimentazione a UPF abbia effetto sulla mente. Gran parte della ricerca si è concentrata su come una cattiva salute dell’intestino potrebbe influire sul cervello. Le diete ad alto contenuto di alimenti ultraprocessati sono in genere povere di fibre, che si trovano principalmente negli alimenti a base vegetale come cereali integrali, frutta, verdura, noci e semi.

 

La fibra aiuta a nutrire i batteri buoni nell’intestino. La fibra è anche necessaria per la produzione di acidi grassi a catena corta, le sostanze prodotte quando si scompone nel sistema digestivo e che svolgono un ruolo importante nella funzione cerebrale, afferma Wolfgang Marx, presidente dell’International Society for Nutritional Psychiatry Research e ricercatore senior presso la Deakin University. «Sappiamo che le persone con depressione e altri disturbi mentali hanno una composizione meno diversificata di batteri intestinali e meno acidi grassi a catena corta».

 

In pratica, il microbiota, fatto di 40 trilioni di esseri simbiotici che vivono dentro di noi, ha effetti diretti sulla psiche delle persone.

 

«Prove emergenti – principalmente da studi sugli animali, ma anche alcuni dati sull’uomo – suggeriscono che i nutrienti isolati (come il fruttosio), gli additivi come i dolcificanti artificiali (come l’aspartame e la saccarina) o gli emulsionanti (come la carbossimetilcellulosa e il polisorbato-80) possono influenzare negativamente l’intestino microbioma», dice al NYT il dottor Marx.

 

La scarsa diversità del microbiota intestinale, così come una dieta ricca di zuccheri, possono contribuire all’infiammazione cronica, che è stata collegata a una serie di problemi mentali e fisici. Si pensa che le interazioni tra l’aumento dell’infiammazione e il cervello guidino lo sviluppo della depressione.

 

Il ruolo del microbioma per la salute mentale era riconosciuta anche da varie ricerche, tra cui quella di quattro anni fa che suggeriva che un trapianto fecale – cioè un cambio di batteri intestinali – potrebbe ridurre i sintomi a lungo termine dell’autismo.

 

Come riportato da Renovatio 21, ricerche sostengono la vitale importanza dell’esposizione dei bambini ai microrganismi, anche all’atto della nascita, quando batteri presenti nel canale vaginale della madre «colonizzano» il neonato (che fino a quel momento è «sterile») in pochi minuti.

 

Tale processo naturale, osservato solo da pochi anni, è, ovviamente, impedito dal taglio cesareo.

 

 

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