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Così Washington e Ankara hanno cambiato il regime di Damasco

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Con sorprendente sfacciataggine la stampa internazionale ci assicura che in Siria è in corso non già un cambiamento militare di regime, bensì una rivoluzione per rovesciare la Repubblica Araba siriana. Ci nascondono la presenza dell’esercito turco e delle forze speciali statunitensi. Ci inondano con una propaganda, peraltro più volte smentita, sui crimini di «Bashar». Trasformano sgozzatori feroci in rispettabili rivoluzionari. Per l’ennesima volta la stampa internazionale ci mente intenzionalmente.

 

In 11 giorni la Repubblica araba siriana, che dal 2011 ha resistito valorosamente agli attacchi degli jihadisti sostenuti dalla più grande coalizione della storia, è stata rovesciata. Cos’è successo?

 

La prima fase dell’operazione risale al 15 ottobre 2017, quando gli Stati Uniti organizzarono un assedio della Siria vietando ogni scambio commerciale con Damasco e impedendo alle Nazioni Unite di partecipare alla ricostruzione del Paese (1). Nel 2020 questa strategia fu estesa al Libano, con il Caesar Act (2).

 

Noi, Paesi membri dell’Unione europea, abbiamo partecipato tutti a questo crimine. La maggior parte dei siriani ora soffre di malnutrizione. La lira siriana è crollata: ciò che prima della guerra, nel 2011, valeva una lira, alla caduta di Damasco ne vale 50.000 (la lira è stata rivalutata tre giorni dopo, grazie a un’iniezione di denaro del Qatar). Stesse cause, medesime conseguenze: la Siria è stata sconfitta come lo fu a suo tempo l’Iraq, quando il segretario di Stato Madeleine Albright si rallegrò per aver causato la morte per malattia e malnutrizione di mezzo milione di bambini iracheni.

 

Del resto, sebbene siano stati formalmente gli jihadisti di Hayat Tahrir al-Cham (HTC) a conquistare Damasco, sul piano militare i vincitori non sono loro. Il 27 novembre l’HTC, armato dal Qatar e organizzato dall’esercito turco camuffato da Esercito Nazionale Siriano (Syrian National Army, SNA), ha preso il controllo dell’autostrada M4 che fungeva da linea di cessate-il-fuoco.

 

Inoltre l’HTC e la Turchia disponevano di droni ad alte prestazioni, manovrati da consulenti ucraini. Infine l’HTC ha portato con sé la colonia uigura del Partito Islamico del Turkestan (TIP), trincerata da otto anni ad al-Zanbaki (3). I teatri operativi israeliano, russo e cinese ora si sono fusi in un unico scenario.

 

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Poi l’insieme di queste forze ha attaccato Aleppo, fino ad allora difesa dai Guardiani della Rivoluzione iraniani. Costoro si sono ritirati senza reagire, lasciando a difesa della città solo la piccola guarnigione dell’Esercito Arabo Siriano. Di fronte a una forza così sproporzionata, il governo siriano ha ordinato alle proprie truppe di ripiegare su Hamah. Così è avvenuto il 29 novembre, dopo una breve battaglia.

 

Il 30 novembre il presidente siriano Bashar al-Assad si è recato in Russia, non per assistere all’esame del figlio Hafez all’università di Mosca, bensì per chiedere aiuto. Ma le forze russe presenti in Siria, esclusivamente aeree, potevano solo bombardare i convogli degli jihadisti. Infatti hanno cercato di sbarrare la strada all’HTC e alle forze sostenute dalla Turchia, non potendo contrastarle sul terreno. Aleppo era irrimediabilmente persa. Del resto, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in linea con la tradizione del proprio Paese (4), non ha mai riconosciuto la perdita dei territori ottomani in Grecia (Salonicco), nell’isola di Cipro, in Siria (Aleppo) e in Iraq (Mosul).

 

Con le cellule jihadiste dormienti riattivate dalla Turchia, l’Esercito Arabo Siriano, già esausto, doveva combattere su più i fronti contemporaneamente. È quanto ha cercato invano di fare il generale Maher al-Assad, fratello del presidente.

 

L’inviato speciale dell’ayatollah Ali Khamenei, Ali Larijani, si è recato a Damasco per dare spiegazioni del ritiro da Aleppo dei Guardiani della Rivoluzione e per porre le condizioni di un aiuto militare della Repubblica Islamica d’Iran: condizioni culturali inaccettabili per uno Stato laico.

 

In una conversazione telefonica con l’omologo iraniano Massoud Pezeshkian, il presidente al-Assad ha dichiarato che «l’intensificazione dell’azione dei terroristi» è un tentativo di «disgregare la regione, sbriciolarne gli Stati e ridisegnarne la mappa per adattarla agli interessi e agli obiettivi dell’America e dell’Occidente». Tuttavia il comunicato ufficiale non dà conto del tono della conversazione. Il presidente siriano voleva sapere chi aveva ordinato ai Guardiani della rivoluzione di abbandonare Aleppo. Non avendo ottenuto risposta, ha avvertito il presidente Pezeshkian delle conseguenze sull’Iran di un’eventuale caduta della Siria. Ancora nessuna reazione: Teheran ha continuato a pretendere le chiavi della Siria in cambio della sua difesa.

 

Il 2 dicembre il generale Jasper Jeffers III, comandante in capo delle Forze speciali degli Stati Uniti (UsCoCom), arriva a Beirut. La ragione ufficiale è controllare l’applicazione del cessate-il-fuoco verbale tra Israele e Libano. Tenuto conto del suo ruolo, è evidente che questa è solo una parte della sua missione: sovrintenderà infatti alla conquista di Damasco da parte della Turchia, nascosta alle spalle dell’HTC.

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Il 5 dicembre, al Consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti rilanciano le accuse al presidente al-Assad di usare armi chimiche per reprimere il suo stesso popolo; accuse che ignorano completamente le numerosissime contestazioni, testimonianze e indagini che hanno dimostrato come si tratti solo di propaganda di guerra. Le armi chimiche sono il principale argomento della gigantesca macchina di fango anglosassone.

 

Sono queste false accuse che il numero due delle Nazioni Unite, Jeffrey Feltman, ha preso a pretesto per impedire la ricostruzione della Siria. Accuse reiterate sino a convincere l’opinione pubblica occidentale che «Bashar è il boia di Damasco» e a incolparlo di tutti i morti causati dalla guerra scatenata contro di lui e il suo Paese.

 

Contemporaneamente, il Pentagono fa sapere all’HTC e all’esercito turco che possono continuare ad avanzare, prendere Damasco e rovesciare la Repubblica Araba Siriana.

 

Il 6 e 7 dicembre in Qatar si svolge il Forum di Doha. Vi partecipano molte figure di spicco del Medio Oriente, nonché il ministro russo degli Esteri, Sergej Lavrov. A margine del Forum viene data garanzia alla Russia, che rappresenta il presidente al-Assad, che i soldati dell’Esercito Arabo siriano non saranno perseguiti e che le basi militari della Federazione di Russia non saranno attaccate. All’Iran viene invece garantito che i santuari sciiti non saranno distrutti, ma pare che Teheran lo sapesse già.

 

Secondo il ministro turco degli Esteri, Hakan Fidan, Benjamin Netanyahu e Joe Biden ritenevano che l’operazione dovesse finire lì. È stato il Pentagono che, di concerto con il Regno Unito, ne ha deciso la prosecuzione fino al rovesciamento della Repubblica Araba Siriana (5).

 

A New York il Consiglio di sicurezza adotta all’unanimità la risoluzione 2761 (6). Essa autorizza a non tener conto delle sanzioni contro gli jihadisti durante «operazioni umanitarie».

 

Le Nazioni Unite, che non hanno mai autorizzato il soccorso alle popolazioni schiacciate sotto il giogo di Daesh, improvvisamente autorizzano gli scambi commerciali con l’HTC.

 

Questo rovesciamento della posizione del Consiglio di sicurezza risponde alle istruzioni del consigliere delle Nazioni Unite, Noah Bonsey, che le aveva già enunciate a febbraio 2021, quando lavorava per George Soros (7).

 

Abu Mohammad al-Jolani, leader dell’HTC, rilascia un’intervista a Jomana Karadsheh per la CNN. La giornalista fa notare che il sito Rewards for Justice del Dipartimento di Stato offre ancora dieci milioni di dollari di ricompensa in cambio di qualsiasi informazione che permetta di arrestare il capo jihadista (8).

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Il 7 dicembre l’HTC e la Turchia prendono il controllo della prigione siriana di Saïdnaya. Un obiettivo strategico per alimentare la propaganda di guerra, che l’ha soprannominata «mattatoio umano». La campagna mediatica sostiene che vi sono state torturate e giustiziate migliaia di persone, i cui cadaveri sono stati bruciati in un forno crematorio.

 

Per tre giorni i Caschi Bianchi, ONG che ha al tempo stesso salvato vite e partecipato ai massacri, perlustrano la prigione e i suoi dintorni alla ricerca di passaggi segreti sotterranei, di camere di tortura e del forno crematorio. Purtroppo non trovano prove. Alla fine la giornalista Clarissa Ward mette in scena per CNN la liberazione di un prigioniero che per tre mesi non ha visto la luce del giorno, ma è pulito, ben vestito e con le unghie curate (9).

 

È tanto più arduo sostenere le accuse ad al-Assad di torture e di esecuzioni sommarie se si considera che il presidente siriano già nel 2011 emanò norme per vietare ogni forma di tortura, ha istituito il ministero per la Riconciliazione nazionale, per il reinserimento dei siriani che si erano uniti agli jihadisti, e infine che ha attuato amnistie generali in circa quaranta occasioni.

 

L’8 dicembre il presidente al-Assad ordina ai propri uomini di deporre le armi. Damasco cade senza colpo ferire. Gli jihadisti srotolano immediatamente striscioni – stampati con largo anticipo – e appuntano il simbolo del nuovo regime sulle loro uniformi. L’ex combattente di Al Qaeda, poi numero due di Daesh, Abu Mohammad al-Jolani, il cui vero nome è Ahmad al-Sharaa, prende il potere. Consigliato da britannici esperti in comunicazione, tiene un discorso nella Grande Moschea degli Omayyadi, sul modello di quello pronunciato dal califfo di Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, nella Grande Moschea di Al-Nuri di Mosul, nel 2019.

 

L’HTC ora considera i cristiani mustamin (così gli islamici chiamano gli stranieri non mussulmani che risiedono in modo limitato in territorio mussulmano), esentandoli dal patto del dhimmi (serie di diritti e oneri riservati ai non-mussulmani) e dal pagamento della tassa della jizya. A settembre 2022, per la prima volta in un decennio, nella chiesa armena di al-Yacoubiyah, nella campagna di Jisr al-Shugur, a ovest di Idlib, si è tenuta una cerimonia in onore di Sant’Anna.

 

Tremila soldati dell’Esercito Arabo Siriano si esiliano in Iraq. Vengono disarmati e alloggiati in tende al valico di frontiera di Al-Qaim, poi trasferiti in una base militare a Rutba. Bagdad annuncia che sta cercando di ottenere garanzie per il loro rientro in patria. (10)

 

Le Forze di Difesa Israeliane (FDI) lanciano un’operazione per distruggere l’equipaggiamento e le fortificazioni dell’Esercito Arabo Siriano. In quattro giorni 480 bombardamenti affondano la flotta e incendiano armerie e magazzini. Contemporaneamente squadre di terra uccidono gli scienziati più importanti del Paese.

 

Dopo aver fatto visitare ai giornalisti le fortificazioni siriane lungo la costa, ormai vuote, Benny Kata, un comandante militare israeliano, dice ai suoi ospiti: «È chiaro che resteremo qui per un certo tempo. Siamo preparati».

 

Le FDI già cominciano a rosicchiare sempre più il territorio siriano, oltre la linea di cessate-il-fuoco del Golan, che già occupano. Annunciano di voler creare in territorio siriano una seconda zona-cuscinetto per proteggere quella attuale, che è un modo per annettersi crescenti porzioni di Siria. Annettono anche il monte Hermon, così da poter sorvegliare l’intera regione.

 

Il 9 dicembre il generale Michael Kurilla, comandante in capo delle forze statunitensi nel Medio Oriente Allargato (CentCom), si reca ad Amman per incontrare il generale Yousef Al-H’naity, presidente dello Stato-Maggiore di Giordania. Gli ribadisce l’impegno degli Stati Uniti a sostenere la Giordania in caso di minacce provenienti dalla Siria durante il periodo di transizione.

 

Il 10 dicembre il generale Kurilla visita le truppe statunitensi e quelle delle Forze Democratiche Siriane (mercenari kurdi) in diverse basi della Siria. Predispone un piano affinché Daesh non esca dalla zona assegnatagli dal Pentagono e non interferisca nel cambiamento di regime a Damasco. Immediatamente intensi bombardamenti impediscono a Daesh di muoversi.

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L’HTC nomina Mohammed al-Bashir, ex «governatore» jihadista di Idlib, primo ministro del nuovo regime. È un membro dei Fratelli Mussulmani, sponsorizzato dall’MI6 britannico. La Francia, che con il suo inviato speciale Jean-Yves Le Drian aveva negoziato la nomina di Riad Hijab (ex segretario del consiglio dei ministri nel 2012), si rende conto di essere stata bidonata.

 

La sera stessa viene scartata la possibile nomina di Le Drian a primo ministro francese. L’Eliseo fa invece invitare al telegiornale di France2 il procuratore per l’antiterrorismo di Parigi, che mette fine alle acclamazioni del nuovo potere a Damasco deplorando che l’HTC sia implicato nell’assassinio nel 2020 del professore francese Samuel Paty e nel massacro di Nizza del 2016, in cui morirono 86 persone. La stampa francese cambia di spalla al fucile e inizia a mettere in discussione il nuovo governo di Damasco, che la stampa internazionale continua a dipingere come rispettabile.

 

L’11 dicembre le principali fazioni palestinesi presenti in Siria (Fronte per la liberazione della Palestina, Fronte democratico per la liberazione della Palestina, Movimento della Jihad islamica, Fronte palestinese di lotta popolare, Comando generale) si riuniscono a Yarmuk (Damasco) alla presenza di delegati dell’HTC (Dipartimento delle Operazioni militari). Fatah e Hamas non vi partecipano. Si chiede loro di rappacificarsi con l’alleato israeliano. Si decide anche che nessuna fazione godrà di uno statuto privilegiato e che tutte saranno trattate allo stesso modo. Tutti i gruppi s’impegnano a deporre le armi.

 

Il generale Kurilla visita in tre giorni prima il Libano poi Israele. A Beirut incontra il generale Joseph Aoun, comandante delle forze armate libanesi, ma soprattutto il proprio collega, il generale statunitense Jasper Jeffer III. A Tel Aviv incontra i capi di stato-maggiore israeliani e il ministro della Difesa, Israel Katz. In questa occasione dichiara: «Le mie visite in Israele, Giordania, Siria, Iraq e Libano degli ultimi sei giorni hanno voluto sottolineare l’importanza di guardare le sfide e le opportunità attuali attraverso gli occhi dei nostri partner, dei nostri comandanti sul campo e dei membri di servizio. Dobbiamo fare in modo che i partenariati continuino a essere solidi per affrontare le minacce attuali e future che pesano sulla regione».

 

Il 12 dicembre Ibrahim Kalin, direttore dell’Organizzazione nazionale dell’Intelligence turca (Millî İstihbarat Teşkilatı, MIT) è il primo alto funzionario straniero a rendere visita al nuovo potere di Damasco. Lo stesso giorno i mercenari kurdi, che amministrano il nordest della Siria per conto dell’esercito di occupazione statunitense, issano la nuova bandiera verde, bianca e nera con tre stelle, la stessa del mandato francese sulla Siria. Il 15 dicembre una delegazione del Qatar segue l’esempio di Kalin.

 

Per convalidare le accuse di torture rivolte al regime spodestato, Clarissa Ward, decisamente in forma, mette in scena per CNN i cadaveri rinvenuti nell’obitorio di un ospedale di Damasco, così come la stessa CNN mandò in scena i cadaveri di un obitorio di Timisoara, durante il rovesciamento di Ceausescu, nel 1989 (11).

 

Nel frattempo, secondo le Nazioni Unite, oltre un milione di siriani sta cercando di fuggire dal proprio Paese. Non credono che gli jihadisti dell’HTC si siano improvvisamente civilizzati.

 

Thierry Meyssan

NOTE

1) « Paramètres et principes de l’assistance des Nations Unies en Syrie », di Jeffrey D. Feltman, Réseau Voltaire, 15 ottobre 2017.

2) «Secondo Hassan Nasrallah gli Stati Uniti vogliono provocare la fame in Libano», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 17 giugno 2020.

3) «I 18.000 uiguri di Al Qaeda in Siria», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 20 agosto 2018. «Uyghur fighters in Syria vow to come for China next», Sophia Yan, The Telegraph, 13 dicembre 2024.

4) «Serment national turc», Réseau Voltaire, 28 gennaio 1920.

6) «Résolution portant exemption des sanctions contre les jihadistes», Réseau Voltaire, 6 dicembre 2024.

7) «In Syria’s Idlib, Washington’s Chance to Reimagine Counter-terrorism», New Crisis Group, Noah Bonsey & Dareen Khalifa, febbraio 2021.

8) «Muhammad al-Jawlani», Rewards for Justice, sito consultato il 14 dicembre 2024.

9) «Muhammad al-Jawlani», Rewards for Justice, sito consultato il 14 dicembre 2024.

10) «خاص»
محمد عماد, 11 ديسمبر

11) «Battered corpses show the horrors of life and death under Syria’s Assad», CNN, 12 dicembre 2024.

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

Fonte: «Così Washington e Ankara hanno cambiato il regime di Damasco», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 17 dicembre 2023.

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Economia

I mercati argentini salgono dopo la vittoria elettorale di Milei, che ringrazia il presidente Trump

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Il presidente argentino Javier Milei ha conquistato una vittoria schiacciante alle elezioni di medio termine del suo Paese, considerate un importante banco di prova per il sostegno alle sue riforme radicali di «terapia d’urto» e alla sua politica economica «a motosega».   Il partito di Milei, La Libertad Avanza, ha ottenuto il 40,8% dei voti a livello nazionale per la camera bassa del Congresso e ha prevalso in sei delle otto province che hanno eletto un terzo del Senato.   L’opposizione di sinistra, rappresentata dai peronisti, ha raccolto il 31,7% dei voti. Sebbene Milei non abbia conquistato la maggioranza assoluta in Congresso, questo risultato complicherà notevolmente gli sforzi dei suoi oppositori per ostacolare il suo programma.   Milei ha implementato un ambizioso piano libertario, caratterizzato da tagli significativi a normative, spesa pubblica, politiche statali e dipartimenti governativi, con l’obiettivo di risollevare l’Argentina da decenni di stagnazione economica.   Il suo approccio ha ricevuto il sostegno del presidente statunitense Donald Trump, che ha offerto supporto finanziario per garantire l’avanzamento delle riforme, soprattutto dopo il recente crollo drammatico del peso argentino.   Durante un incontro alla Casa Bianca con Milei la settimana scorsa, Trump ha promesso un pacchetto di aiuti da 20 miliardi di dollari, con la possibilità di raddoppiarlo in caso di successo alle elezioni di medio termine.   «Se non vince, siamo fuori», ha dichiarato Trump. «Se perde, non saremo generosi con l’Argentina».

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All’inizio di questo mese, il segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent ha stipulato uno swap valutario da 20 miliardi di dollari con la banca centrale argentina per stabilizzare il mercato obbligazionario del Paese in vista delle elezioni. Bessent ha chiarito che il pacchetto di aiuti non va considerato un «salvataggio», ma piuttosto una «Dottrina Monroe economica», richiamando la politica del XIX secolo volta ad affermare la supremazia degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale.   Il segretario del Tesoro USA ha sottolineato che il successo dell’Argentina è nell’interesse degli Stati Uniti, non solo per stabilizzare il Paese, ma anche per renderlo un «faro» per altre nazioni della regione. «Non vogliamo un altro Stato fallito o sotto l’influenza cinese in America Latina», ha affermato Bessent.   Le obbligazioni, la valuta e le azioni argentine hanno registrato un’impennata lunedì mattina, dopo che il partito del presidente Javier Milei ha ottenuto una decisiva vittoria alle elezioni di medio termine. Il risultato è fondamentale per preservare il radicale rilancio economico di Milei in un Paese devastato da decenni di mala gestione socialista che ha distrutto la nazione.   Le riforme del libero mercato e l’aggressivo programma di austerità di Milei hanno già iniziato a raffreddare l’inflazione e a stabilizzare le condizioni finanziarie, segnalando agli investitori che il percorso di ristrutturazione resta intatto.   Milei ha poi ringraziato Trump su X:     «Grazie, Presidente Trump, per la fiducia accordata al popolo argentino. Lei è un grande amico della Repubblica Argentina. Le nostre nazioni non avrebbero mai dovuto smettere di essere alleate. I nostri popoli vogliono vivere in libertà. Contate su di me per lottare per la civiltà occidentale, che è riuscita a far uscire dalla povertà oltre il 90% della popolazione mondiale».

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Geopolitica

Sudan, le Forze di Supporto Rapido rivendicano la cattura del quartier generale dell’esercito

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Le Forze di Supporto Rapido (RSF), milizia paramilitare sudanese, hanno annunciato di aver assunto il controllo del quartier generale dell’esercito nella città di Al-Fashir, devastata dal conflitto.

 

La capitale del Darfur settentrionale è sotto assedio da parte delle milizie da oltre un anno, con le Nazioni Unite che denunciano attacchi sistematici contro i civili, inclusi l’uccisione e la mutilazione di oltre 1.000 bambini.

 

Domenica, un portavoce delle RSF ha dichiarato in un comunicato che il gruppo ha conquistato completamente il comando della Sesta Divisione di Fanteria delle Forze Armate Sudanesi (SAF) dopo «battaglie eroiche caratterizzate da operazioni mirate e assedi strategici».

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«La liberazione… segna una svolta cruciale nelle battaglie condotte dalle nostre valorose forze. Traccia le basi per un nuovo Stato a cui tutti i sudanesi contribuiranno», ha affermato il rappresentante delle RSF.

 

Si ritiene che il quartier generale della Sesta Divisione di fanteria fosse l’ultima roccaforte dell’esercito nel Darfur, dove i combattimenti tra SAF e RSF infuriano da oltre due anni.

 

Da quando ha assediato Al-Fashir nell’aprile 2024, le RSF sono state accusate di attacchi indiscriminati contro i civili, con droni e artiglieria. Secondo le Nazioni Unite, circa 260.000 civili, di cui 130.000 bambini, sono intrappolati in condizioni disperate, isolati dagli aiuti umanitari nella città.

 

Secondo organizzazioni per i diritti umani, all’inizio di questo mese almeno 20 persone sono state uccise in attacchi contro una moschea e l’ospedale saudita, l’ultima struttura medica operativa di Al-Fashir, dopo l’uccisione di circa 100 civili a settembre.

 

Domenica, Tom Fletcher, coordinatore degli aiuti d’emergenza delle Nazioni Unite, si è detto «profondamente allarmato» dalla situazione ad Al-Fashir, chiedendo un cessate il fuoco immediato in tutto il Sudan. Il Fletcher sottolineato che i combattenti continuano ad avanzare in città, bloccando le vie di fuga e lasciando i civili intrappolati, affamati e terrorizzati.

 

Il conflitto tra l’esercito e le RSF, scoppiato a Khartoum nell’aprile 2023, ha generato quella che l’ONU considera una delle peggiori crisi umanitarie al mondo.

 

L’esercito non ha ancora commentato la presunta perdita del quartier generale di Al-Fashir, ma il suo comandante, Abdel Fattah Al-Burhan, ha discusso con l’ambasciatore turco Fatih Yildiz di questioni come gli sforzi per revocare l’assedio alla capitale della regione, secondo una nota ufficiale.

 

Come riportato da Renovatio 21, il comandante delle Forze di supporto rapido (RSF) paramilitari sudanesi, Mohamed Hamdan Dagalo, ha prestato giuramento come capo di un governo rivale del Sudan.

 

Come riportato da Renovatio 21, la RSF aveva annunciato un «governo di pace e unità» parallelo ancora lo scorso febbraio.

 

Le stragi nel Paese non si contano. Due mesi fa si era consumato un orribile massacro a seguito di un attacco aereo ad un mercato. Settimane fa c’era stato un attacco ad un ospedale.

 

Come riportato da Renovatio 21, a fine 2024 le fazioni rivali sudanesi avevano interrotto i negoziati.

 

Il conflitto ha casato già 15 mila morti e 33 mila feriti. Le Nazioni Unite hanno descritto la situazione umanitaria in Sudan come una delle crisi più gravi al mondo. Mesi fa la direttrice esecutiva del Programma Alimentare Mondiale (WFP), Cindy McCain, aveva avvertito che la guerra di 11 mesi «rischia di innescare la più grande crisi alimentare del mondo».

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Gli USA sono stati accusati l’estate scorsa di aver sabotato gli sforzi dell’Egitto per portare la pace in Sudan.

 

Le tensioni in Sudan hanno portato perfino all’attacco all’ambasciata saudita a Karthoum, mentre l’OMS ha parlato di «enorme rischio biologico» riguardo ad un attacco ad un biolaboratorio sudanese.

 

Come riportato da Renovatio 21, il generale Abdel Fattah al-Burhan, leader de facto e capo dell’esercito della nazione africana dilaniata dalla guerra, due mesi fa è stato oggetto di un tentato assassinio via drone.

 

Il Paese è stato svuotato dei suoi seminaristi.

 

La Russia nel frattempo fa ha annunziato l’apertura di una base navale in Sudan.

 

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Geopolitica

Lavrov: falchi europei minano i negoziati tra Russia e Stati Uniti

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L’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump sta affrontando pressioni «incredibili» da parte dei «falchi» in Europa e in Ucraina, determinati a far fallire i negoziati con la Russia, ha dichiarato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.   Queste affermazioni sono state rilasciate durante un’intervista al canale YouTube ungherese Ultrahang, trasmessa domenica.   La Russia non intende influenzare né «interferire» nelle «decisioni interne» della leadership statunitense, che sta subendo crescenti pressioni nel contesto degli sforzi di riavvicinamento con Mosca avviati sotto Trump, ha precisato Lavrov.   «Non vogliamo creare difficoltà agli Stati Uniti, che sono sottoposti a una pressione enorme e straordinaria da parte dei “falchi” europei», di Volodymyr Zelens’kyj dell’Ucraina e «di altri che si oppongono a qualsiasi cooperazione tra Stati Uniti e Russia su qualsiasi questione», ha detto Lavrov.

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«Ci sono molte persone poco ragionevoli che cercano di influenzare i politici di Washington, utilizzando ogni mezzo per ostacolare un processo che avrebbe potuto già raggiungere i suoi obiettivi».   Coloro che tentano di sabotare i negoziati tra Washington e Mosca stanno «cercando di distogliere il presidente Trump dalla linea che ha ripetutamente sostenuto in passato», ha aggiunto Lavrov. Il presidente degli Stati Uniti ha più volte dichiarato che il conflitto in Ucraina deve essere risolto in modo definitivo, una posizione ribadita chiaramente durante l’incontro con il suo omologo russo, Vladimir Putin, in Alaska, ha sottolineato il ministro.   «Tutti concordano che il modo migliore per porre fine alla terribile guerra tra Russia e Ucraina sia raggiungere un accordo di pace definitivo, che metta fine al conflitto, e non un semplice cessate il fuoco. Questo è essenziale», ha affermato.   I recenti cambiamenti nella retorica statunitense, «quando ora si parla di “nient’altro che un cessate il fuoco, un cessate il fuoco immediato, lasciando poi che la storia giudichi”, rappresentano un cambiamento molto radicale», ha osservato Lavrov.   «Questo indica anche che gli europei non stanno fermi, non mangiano e cercano di forzare la mano a questa amministrazione».   Mosca ha dichiarato di perseguire una soluzione duratura al conflitto ucraino, piuttosto che una pausa temporanea. Tuttavia, Kiev e i suoi alleati occidentali hanno ripetutamente richiesto un cessate il fuoco immediato, che Mosca considera un’opportunità per l’Ucraina di riorganizzare le sue forze armate e riarmarsi.  

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