Pensiero
Coronamafia: Cosa Nostra a casa nostra

Secondo il computo di Repubblica, i mafiosi usciti dalle patrie galere fino a ieri erano 376. Oggi se ne è aggiunta un’altra decina. Nel frattempo, un altro mezzo migliaio di detenuti ha chiesto di ottenere la scarcerazione.
Una manciata di quelli già tornati a casa era dietro le sbarre in regime di 41/bis: il cosiddetto carcere duro, volto a impedire, con l’isolamento, il passaggio di comunicazioni tra il detenuto e le organizzazioni criminali.
Una misura concepita per punire così severamente la creazione dell’anti-Stato, infliggendo cioè un castigo talmente insopportabile, da ipoteticamente spingere molti a divenire collaboratori di giustizia; nel linguaggio dell’epopea antimafiosa, «pentiti».
Hanno liberato un intero network, che si somma così a quello ricreato e nutrito nel frattempo al di fuori. Un’esplosione di civiltà mafiosa, con buona pace di quelli che hanno speso una vita, o l’hanno proprio perduta, per assicurare i malviventi alla giustizia
Ma qui, di pentimento, non c’è nemmeno l’ombra.
Cosa Nostra a casa nostra
In pratica hanno liberato un intero network, che si somma così a quello ricreato e nutrito nel frattempo al di fuori. Un’esplosione di civiltà mafiosa, con buona pace di quelli che hanno speso una vita, o l’hanno proprio perduta, per assicurare i malviventi alla giustizia.
In questa cittadella di criminali – 376 bastano a fare un comune italiano – quelli che non erano al 41/bis erano comunque in regime di alta sicurezza. Uno di loro partecipò all’operazione nella quale, dopo averlo sequestrato, tenuto per mesi in un capanno e poi ucciso, sciolsero nell’acido il figlio tredicenne di un collega di Cosa Nostra che stava, appunto, sull’orlo di «pentirsi».
Questi 376 (per difetto) criminali finiscono ai domiciliari: esattamente come noi comuni cittadini
Ce lo ricordiamo tutti Giuseppe Di Matteo, il ragazzino di cui rimane solo una foto a cavallo. Non una sua molecola si è salvata, del suo carceriere invece si è salvato tutto, persino la libertà di uscire all’aperto.
Questi 376 (per difetto) criminali finiscono ai domiciliari: esattamente come noi comuni cittadini. Il regime, tra noi e loro, è stato sostanzialmente equiparato. Lo Stato-Repubblica Italiana e lo Stato-mafia paiono come aver trovato questo equilibrio umano e umanitario. Cosa Nostra a casa nostra.
Il regime, tra noi e loro, è stato sostanzialmente equiparato. Lo Stato-Repubblica Italiana e lo Stato-mafia paiono come aver trovato questo equilibrio umano e umanitario. Cosa Nostra a casa nostra
Noi del 41/bis
L’enormità della trovata non si era granché percepita, se non tra gli addetti ai lavori. Finché non è deflagrata una bomba in diretta televisiva, tra le mani di uno stranito Massimo Giletti, con l’intervento telefonico a sorpresa dell’idolo degli antimafiosi Nino Di Matteo e contestuale non-risposta telefonica del ministro della giustizia Bonafede.
Ecco che partono i fuochi d’artificio. Starnazzamenti assortiti di maggioranze e opposizioni, mentre Cosa Nostra, da a casa sua, si sfrega le mani, in attesa che i picciotti tornino a baciarle.
E i cittadini incensurati, reclusi tramite gragnuola di decreti notturni, pagano il conto per tutti (maggiorato delle multe elargite a volontà dai solerti funzionari dello stesso Stato che scarcera i mafiosi): pagano per i politici, pagano per i criminali, pagano per quelli che continuano a essere importati, virus o non virus.
Pagano per uno Stato incapace di espletare la sua funzione primaria: difenderli. Uno Stato incapace di proteggere i cittadini dai virus cinesi e dai criminali, ma capacissimo di vessare ristoratori e cristiani superstiti, runner e famigliari accompagnatori di malati.
I cittadini contribuenti pagano per uno Stato incapace di espletare la sua funzione primaria: difenderli
Noi, che apparteniamo alla categoria di questi contribuenti privi di protezione e posti con violenza agli arresti domiciliari in regime di massima sicurezza, in attesa dell’applicazione del 41/bis telematico grazie ai nuovi dispositivi di tracciamento – quelli per cui si sono inventati Colao e la app pubblica dello Stato italiano a capitale privato e cinese – ci permettiamo di buttare lì qualche domanda.
Dov’è don Ciotti? E dove sono le frotte di bambinetti cattocomunisti capofila del corteo, i boy-scout agli ordini dei partiti di sistema in crisi di consenso?
Don Ciotti batti un colpo
Dov’è don Ciotti? Parliamo del fondatore e animatore di Libera contro le mafie, la iperattiva «associazione di promozione sociale» che rastrellava gli studenti nelle scuole, li portava in piazza a scioperare «contro le mafie e per la legalità»mettendo loro in mano quattro sbiaditi stracci arcobaleno e in bocca qualche slogan beota per simulare una parvenza di impegno civico. Non pervenuto.
E dove sono le frotte di bambinetti cattocomunisti capofila del corteo, i boy-scout agli ordini dei partiti di sistema in crisi di consenso, al traino dell’associazionismo paracattolico, al soldo dei filantropi globali?
Uno Stato incapace di proteggere i cittadini dai virus cinesi e dai criminali, ma capacissimo di vessare ristoratori e cristiani superstiti, runner e famigliari accompagnatori di malati
Forse sappiamo dove sono: sono impegnati a promuovere il nuovo modello educativo implementato dall’agenzia vaticana in ossequio alla teologia dell’ONU e dei plutotecnocrati transnazionali. Il Global compact of education in programma per maggio, causa pandemia e “per adempiere appieno alle aspettative di un patto globale”, è slittato a ottobre, e c’è bisogno di manovalanza. La mafia può attendere.
Buonanotte Saviano
Dov’è Roberto Saviano? Dov’è il prodotto di laboratorio mediatico incubato nella Mondadori di Marina Berlusconi e poi coltivato come clava antiberlusconiana nell’ammucchiata arcobaleno Espresso-Repubblica-Feltrinelli eccetera eccetera, l’intellettuale cosmopolita condannato per plagio che gira il mondo con la controversa scorta armata, anch’essa pagata dal contribuente?
Lo sentiamo emettere qualche suono disarticolato e confuso a favore della scarcerazione di quegli stessi che pareva lo volessero morto.
Saviano lo sentiamo emettere qualche suono disarticolato e confuso a favore della scarcerazione di quegli stessi che pareva lo volessero morto.
Sì, perché, come spiega ai comuni mortali che attendono i suoi oracoli, «un carcere democratico combatte la mafia», qualsiasi cosa questo significhi. Saremmo felici ora se, con qualche ulteriore diecina di camorristi a spasso, Saviano a differenza di noi riuscisse a dormire sonni tranquilli. Buonanotte.
Falci e Martelli
Dov’è Martelli, l’ex giovane e baldanzoso guardasigilli socialista che nel 1992 vantava l’inasprimento del 41/bis nella sua lotta alla mafia senza pietà? Noi lo sappiamo dov’è.
Il tempo è passato anche per lui, ora va per l’ottantina, ma ha appena impalmato in quel di Tel Aviv una che di mestiere fa la deputata PD e conta 39 anni meno di lui e due cognomi, anzi tre: Lia Quartapelle Procopio in Martelli.
Forse la saggezza senile e la premura per la pax domestica hanno preso il sopravvento sulle passioni giustizialiste di gioventù. Succede.
Dov’è Marco Travaglio? Quello che se il congiunto o un non congiunto ti incrociava dal droghiere, il giorno dopo partiva contro di te un’inchiesta giornalistica e un libro a quattro mani con Peter Gomez?
Travaglio in Bonafede
E Travaglio? Dov’è Marco Travaglio? Dov’è l’implacabile cavaliere dell’integrità morale e dell’illibatezza civica, civile e penale, quello che se il congiunto (id est: parente entro il sesto grado) di un mafioso, ma anche un non congiunto (cioè oltre il sesto grado), ti incrociava dal droghiere, il giorno dopo partiva contro di te un’inchiesta sul quotidiano e un libro a quattro mani con Peter Gomez?
Eccolo, lo vediamo: Travaglio è sotto la scrivania che fischietta e intanto si spreme le meningi su come promuovere la reputazione del suo ministro, ingiustamente trascinato in codeste pretestuose polemiche. È tutto un equivoco, il ministro è stato frainteso e del resto la competenza del ministro in materia giuridica è ormai acclarata e quindi indiscutibile.
Bonafede infatti sarà rimembrato dai posteri per l’inaugurazione di quella scuola di pensiero per la quale l’ordinamento contempla i reati penali, evidentemente nascondendo da qualche parte anche reati non penali (civili? amministrativi?).
Sfavillante dottrina giuridica di Bonafede secondo cui «quando il reato non si riesce a dimostrare il dolo…diventa un reato colposo»
Oppure quell’altra sfavillante dottrina, ulteriore dimostrazione delle non comuni doti speculative del suo autore, secondo cui «quando il reato non si riesce a dimostrare il dolo…diventa un reato colposo». Prendete nota, penalisti, filosofi del diritto, appassionati di enigmistica, pittori surrealisti.
Il Crepuscolo dei Papelli
Dove sono tutti quelli che per oltre un decennio ci hanno ossessionato con la storia del «papello», la trattativa Stato-Mafia, con un signore che forse vi era coinvolto e che poi veniva fatto Presidente, e dopo lasciava la poltrona a un siciliano con meriti antimafiosi acquisiti in linea collaterale?
Dov’è la grande, unica epopea rimasta alla Repubblica Italiana, l’unico poema epico prodotto dalla prima Repubblica, l’unico ethos comune professato nei ministeri romani, e cioè il mito immarcescibile della Lotta alla Mafia?
Dov’è la grande, unica epopea rimasta alla Repubblica Italiana, l’unico poema epico prodotto dalla prima Repubblica, l’unico ethos comune professato nei ministeri romani, e cioè il mito immarcescibile della Lotta alla Mafia?
Lasciamo perdere persino i dipartimenti antimafia e i ministri e viceministri e i sottosegretari e le commissioni antimafia, e le fiction TV, la Piovra di Michele Placido e Gomorra, lasciamo perdere gli sbirri incappucciati, i titoloni sul giornale, Falcone e Borsellino: pensiamo soltanto ai miseri «professionisti dell’antimafia», come li chiamava Sciascia, gli scribacchini di piccolo cabotaggio che, al pari di tutti quelli di cui sopra, per anni e anni hanno campato strillando a giorni alterni sul pericolo incombente di Cosa Nostra – letteralmente, «l’antimafia di carta», con certo stipendio annesso.
Dove sono, dunque, tutti questi idoli e idoletti, che grazie all’invisibile virus cinese conoscono niccianamente il loro crepuscolo?
Dove erano due mesi fa, i nostri eroi antimafiosi, quando già si manifestavano avvisaglie di ciò che covava sotto la cenere: quando cioè, agli albori del caos epidemico, i primi a rivoltarsi con inedita sincronia, in tutto il territorio nazionale, con morti e feriti e incendi e allagamenti e fughe, furono proprio i carcerati?
Dove erano due mesi fa i nostri eroi antimafiosi, quando a rivoltarsi con inedita sincronia, in tutto il territorio nazionale, con morti e feriti e incendi e allagamenti e fughe, furono proprio i carcerati?
Romanzo infernale
La nostra immaginazione, sicuramente fervida, decisamente falsa, pura fantasia da romanzetto, si spingeva fino a intravvedere uno Stato debole, dinanzi a un’incognita sanitaria totale, accordarsi con le tribù del territorio per prevenire le probabili rivolte in meridione nel caso di catastrofe epidemica. Pura fantasia, lo sottolineiamo.
Ma in questa bizzarra fantasia lo Stato non giunge al negoziato con le mafie da una posizione di forza, come ai tempi del papello, quando era stata la mafia a citofonare a suon di bombe, a Firenze, Roma, Milano.
In questa bizzarra fantasia lo Stato non giunge al negoziato con le mafie da una posizione di forza, come ai tempi del papello, quando era stata la mafia a citofonare a suon di bombe, a Firenze, Roma, Milano
Oggi invece, in questa stramba fantasia, è lo Stato ad aver chiamato per chiedere aiuto. Tregua. Bando. Do ut des. Time-Out. Insomma, quello che possono essersi detti perché Napoli, Palermo, Bari, Salerno, Reggio Calabria e poi Roma, Milano, Padova, eccetera, non diventassero altrettante Beirut europee, con inevitabile contagio di altre città ancora fino al fiammante inferno del collasso sociale.
Ed ecco che una protesta al supermercato, o all’ospedale, o davanti a una caserma – tutte manifestazioni spontanee, certo – degenera. Ci scappano i morti, le auto incendiate, le prime razzie di farmacie e negozi (che altrove si sono già viste, anche se a bassa intensità). Poi quei milioni di africani che hanno importato a spese nostre – abbiamo elargito più soldi noi a loro che Bill Gates all’OMS e alle sue mega-campagne vaccinali – si organizzano, e del resto uno Stato collassato è per loro lo stato naturale.
Ma ecco che, di fronte alla minaccia della Repubblica Italiana travolta in un domino rovinoso e inarrestabile, appare all’orizzonte una spregiudicatissima, ma praticabile, soluzione di garanzia: i garanti propongono, lo Stato accetta…et voilà, la nostra fantasia si esaurisce qui.
In questa stramba fantasia, è lo Stato ad aver chiamato per chiedere aiuto perché Napoli, Palermo, Bari, Salerno, Reggio Calabria e poi Roma, Milano, Padova, eccetera, non diventassero altrettante Beirut europee, fino al fiammante inferno del collasso sociale
Genio in buona fede
Ma no, svegliamoci, dai. Torniamo alla realtà: abbiamo un ministro della giustizia bello vispo che, come abbiamo visto sopra, mastica di diritto e mostra dimestichezza con gli istituti giuridici e con la pratica giudiziaria. Ogni volta che si esprime è una rivelazione.
Ricordiamo ancora, ad esempio, il discorso che Alfonso Bonafede pronunciò in Aula nel luglio del 2015 sul Forteto, quando spiegò come il dramma senza fondo e senza fine della cooperativa toscana dipendesse dal fatto che il PM democristiano Casini, quello che inquisiva i vertici della cooperativa degli orrori, non si parlava con il presidente del tribunale dei minori, quel Meucci che al Forteto i bambini continuava imperterrito a mandarli: meri problemi di comunicazione tra figure istituzionali, insomma. Bastava i due facessero pace.
Oggi se hai sciolto un bambino nell’acido vai agli arresti domiciliari. Proprio come tutti noi
Ascoltatevelo: «cioè il dubbio che c’è dietro a tutta questa situazione è che questi bambini abbiano subito i danni mortificazioni abusi sessuali a causa della farsa delle… del… dei.. litigi e… battaglie o pseudo battaglie tra sinistra e destra».
Anche in questo caso si tratta di un’altra lettura di una vicenda umana e giudiziaria, storica e metastorica fondamentale, una lettura simile per acume a quelle che, su tanti temi importanti, ci squaderna il nostro Guardasigilli nell’ora presente.
Bene. Oggi, sempre per via di quella straordinaria creatività, se hai sciolto un bambino nell’acido vai agli arresti domiciliari. Proprio come tutti noi.
Giovanni Falcone: «Dove comanda la mafia, i posti di comando vengono dati ai cretini»
Pare che Giovanni Falcone ci abbia lasciato questo aforisma folgorante: «Dove comanda la mafia, i posti di comando vengono dati ai cretini».
Indovinello: se il giudice-martire aveva ragione, chi comanda ora davvero in Italia?
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
Una versione di questo articolo è precedentemente apparsa su Ricognizioni
Pensiero
La società del ricatto, della censura e della schedatura di massa. Renovatio 21 intervista Marcello Foa

Renovatio 21 ha incontrato in margine ad una conferenza ad Assisi Marcello Foa, giornalista che ha mosso i primi passi della sua carriera professionale ne Il Giornale diretto da Indro Montanelli. Foa è una figura che da anni opera nel mainstream massmediatico, già presidente della Rai Dal 26 settembre 2018 al 16 luglio 2021, quando fu nominato dall’allora governo gialloverde, per concludere il suo mandato con il governo tecnico di Mario Draghi.
Dottor Foa, partirei dal presente. La trasmissione in onda su Rai Radio Uno Giù la maschera, che la vedeva nella veste di conduttore insieme ad altri suoi colleghi, ha subìto uno stop improvviso. Questa chiusura l’ha colta di sorpresa o in un certo qual modo se lo aspettava?
È molto semplice. C’è stato un cambio alla direzione di Rai Radio Uno, il nuovo direttore è entrato in funzione e in Rai, essendo stato presidente, so cosa significa. Bisogna affrontare l’assalto dei partiti, ed è sempre così quando ci sono delle nomine. Davo quasi per certa una riconferma della mia trasmissione, perché aveva molta visibilità, avevamo molto equilibrio nell’approcciare gli argomenti e con me c’erano giornalisti e intellettuali di diverso orientamento politico che garantivano un pluralismo: Peter Gomez, Alessandra Ghisleri, Giorgio Gandola e all’inizio anche Luca Ricolfi.
Il nuovo direttore Nicola Rao, che conosco da tempo, mi telefona e mi dice: «Ti chiamo tra quindici giorni e poi facciamo il punto della situazione». Sparito [ride]! Nel frattempo ho capito che tirava una brutta aria e ho cercato di capire e sensibilizzare la questione, ma ho incontrato un muro di gomma. Nessuna interlocuzione costruttiva, nessun tipo di spiegazione. Finché arrivo a fine agosto quando iniziano ad arrivare segnali molto netti che non ero in palinsesto. Un po’, a quel punto, lo avevo intuito. Mi aspettavo però che perlomeno avessero la cortesia di giustificare la decisione. A quel punto ho deciso di uscire pubblicamente, rompendo gli schemi dell’establishment romano, perché di solito uno non esce così, ma ho ritenuto giusto farlo.
Il «protocollo Rai» non prevede questo tipo di comunicazione?
No, ma diciamo così: può entrare nella logica dello scambio o del ricatto [ride], parafrasando il mio ultimo libro… ma io questa logica la rifiuto e sono uscito con un video nei miei social dove non mi sono messo a inveire, ma ho usato toni pacati, ma molto oggettivo perché ho descritto quello che accadeva. Il messaggio che viene mandato all’opinione pubblica è sbagliato per il centrodestra. Vengono premiate le voci di partito, mentre le voci libere, che interpretano altre sensibilità e che di certo non erano strumentalizzabili né dall’opposizione, né dal governo, anziché essere valorizzate a testimonianza del buon servizio pubblico, vengono punite.
Purtroppo questa è la morale di questa storia e mi auguro che qualcuno faccia delle opportune riflessioni, anche se non so se accadrà [ride].
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Questa decisione di chiudere il suo programma appare quantomeno strana per un governo di centro destra dove è presente una forza politica come la Lega che all’epoca di quel governo giallo verde, da tutti etichettato come sovranista e di certo apparentemente voltato verso destra, la portò a essere nominato Presidente della Rai.
Le spiego come andò. Fu molto semplice. A quel tempo io lavoravo in Svizzera, avevo un mio blog su Ilgiornale.it, continuavo a svolgere il mio ruolo di opinionista ed ero stimatissimo sia da Gianroberto Casaleggio del Movimento Cinque Stelle, sia da Matteo Salvini. A un certo punto erano in un empasse per trovare un nome per il nuovo presidente. A quell’epoca il M5S e Lega — sembra un tempo lontanissimo – erano entrambi intenzionati e desiderosi di dare una ventata di vero cambiamento. In questa misteriosa alchimia individuano in me la persona giusta per dare un segnale forte di cambiamento, benché il ruolo di presidente non sia quello di amministratore delegato.
La Rai la gestisce l’amministratore delegato. Il presidente ha un ruolo di rappresentanza molto forte, ma ha pochi poteri reali. Fatto sta che mi chiamarono, non perché ero l’espressione di una logica di partito, ma perché rappresentavo un intellettuale che era fuori dall’establishment. Oggi tutto si ricollega e sembra un ritorno alle origini [ride].
Quando lei venne nominato presidente, qualcuno lamenta che poco dopo il suo insediamento il suo nome sparì dalle cronache.
Questo lo spiegai alla fine. Il mio nome scomparve per una ragione che all’epoca io stesso non avendo avuto nessuna esperienza istituzionale, avevo sottovalutato. Retrospettivamente avrei dovuto spiegarla subito, cosa che poi ho fatto a fine mandato: quando tu sei presidente della Rai, parli sempre a nome della Rai, qualunque cosa tu dica. Ricoprire quel ruolo, per me sono stati tre anni di sofferenza e mi rendevo conto che qualsiasi cosa dicessi – a parte che veniva strumentalizzata in maniera incredibile – veniva interpretata che era la Rai a parlare e non Marcello Foa. Ruolo delicatissimo. Periodo complesso perché sono partito con il governo gialloverde, poi Salvini rompe e diventa un governo giallorosso e quindi Conte diventa un presidente di opposizione, tra virgolette
Con i Cinquestelle devo dire che ho avuto sempre rapporti discreti, il PD mi vedeva come fumo negli occhi. Poi alla fine del mio mandato c’è stato addirittura il governo di Mario Draghi. In tutto questo c’è stata anche la crisi del COVID.
È stato difficile?
Difficilissimo. Ho cercato di trincerarmi dietro al mio ruolo istituzionale. Vedendo da quella prospettiva il mondo politico, la mia fiducia nei confronti della politica si era molto raffreddata. Ero proprio stufo di farmi strumentalizzare per qualsiasi cosa dicessi o facessi. Finisco i tre anni e non mi dimetto come certe forze politiche avrebbero voluto che io facessi. Mi hanno fatto delle pressioni inimmaginabili. Alla fine ho spiegato il tutto, molti hanno capito, mentre alcuni ancora mi scrivono rimproverandomi che io non sono stato in grado di cambiare la Rai, ma di fatto non ne avevo il potere. Quello che è accaduto adesso dimostra che c’era una coerenza nel mio discorso.
All’epoca del governo gialloverde i grillini si sono presentati come una forza antisistema, ma in un batter di ciglia sono diventati una forza funzionale al sistema.
C’è stata una metamorfosi, ma non mi riguarda. Dovrebbe chiederlo a Conte e a i suoi.
Nel suo libro Gli stregoni della notizia atto II spiega bene il ruolo della comunicazione politica e dello spin doctor. Mi sovviene il caso di Rocco Casalino con Conte durante il COVID, che dirigeva le domande dei giornalisti per il presidente. Se dovesse scrivere l’atto III, come la descriverebbe nel suo libro?
Casalino ha avuto un ruolo molto importante e molto deciso e ha dimostrato quello che ho spiegato nel libro, ovvero che gli spin doctor hanno un ruolo decisivo nel rapporto con la stampa e anche nell’orientarla. Lui, pur non essendo un giornalista, da quel punto di vista ha fatto il suo dovere [ride]. Poi possiamo discuterne se oggi sia giusto comunicare in quel modo o no. Io dico di no, nel senso che, sempre se sia possibile ristabilire un senso di fiducia tra la politica e l’opinione pubblica, questo rapporto va ricostruito su basi di autenticità e non di orientamento.
Mi permetta un’osservazione: finché Conte era l’espressione del governo gialloverde era il nemico della stampa. Facevano le pulci al suo curriculum, sulla sua vita privata, eccetera. Quando è diventato presidente del governo giallorosso, quindi di una forza di establishment, graditissima al Quirinale tra le altre cose, ecco che di Conte, almeno nella grande stampa, non si è letto più un articolo critico.
A riprova del fatto che la stampa non è oggettiva, cioè la stampa è diventata sempre di più, a parte qualche lodevole eccezione, uno strumento di lotta politica o comunque di accompagnamento di una narrazione ufficiale.
In era pandemica la comunicazione e l’informazione, hanno prese delle «strettoie» impensabili fino a poco tempo prima. È stato un momento molto particolare.
È stato un momento terribile. Peraltro come sta emergendo adesso, le decisioni che furono prese – lo vediamo dalla desecretazione delle riunioni del CTS [Comitato Tecnico Scientifico, ndr] – i medici e gli scienziati sono stati del tutto superati dalla politica. Si sono uniformati a decisioni politiche prese da Speranza [ex ministro della salute, ndr] che non ha alcuna competenza medica. Gravissimo. La stessa cosa è accaduta negli Stati Uniti o peggio, perché sappiamo che tra l’amministrazione Biden e Fauci c’è stata una vera e propria operazione di manipolazione dell’opinione pubblica.
Oltre a questo c’è stata una violazione sostanziale dei nostri diritti costituzionali. È stata una pagina molto, molto buia. Come già spiegavo nei miei saggi precedenti, oggi si tende a non aprire una vera riflessione, a parte qualche giornale. C’è un meccanismo psicologico ben noto anche agli spin doctor per cui quando tu commetti un grave errore e sei indotto a commetterlo dalla pressione delle istituzioni, è molto difficile che a livello collettivo ci sia una presa di coscienza e una rabbia che si instaura, perché uno tendenzialmente non vuole ammettere che sia stato ingannato in maniera così evidente.
Per cui la tendenza è quella di dire: «Si, ma va beh, ma c’era l’emergenza…». Con il passare degli anni la verità verrà fuori, ma quando verrà fuori tra dieci o quindici anni, non avrà più la stessa spinta emotiva. Poi scommetto che ci saranno i giornalisti ai convegni che diranno: «è vero che durante il covid noi siamo stati troppo asserviti… Ma questo non accadrà più!». Possiamo essere certi che al prossimo giro capiterà di nuovo.
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Troppo spesso osserviamo il «ring» dei talk show più seguiti che legittima di fatto gli ospiti a esperti del tal argomento di attualità, lasciando però fuori le centinaia di altri esperti che non la pensano come loro e che potrebbero alimentare un sano dibattito. Inoltre sono sempre gli stessi personaggi che passano da un salotto televisivo ad un altro a pontificare. È un problema per la pluralità di informazione.
È un classico. Il talk show equilibrato è un’altra cosa e l’ho dimostrato con Giù la maschera. Il talk show televisivo ha preso un’altra piega ed è quella che il moderatore è un finto equidistante, mentre in realtà ha la sua agenda, le sue convinzioni che lascia trapelare, perché il programma è impostato per avere un certo tipo di approccio ideologico e dunque attirare un certo tipo di pubblico, che lo segue in quanto sanno di trovare ciò che vogliono e desiderano.
Tendenzialmente la stampa è di sinistra e la maggior parte dei talk show sono di sinistra. Lo schema è quello classico: tu hai bisogno di qualcuno che faccia da contraltare per avere un dibattito, però non c’è equità nella ripartizione dei ruoli. Di solito hai quattro da una parte e uno dall’altra. Quattro contro uno di solito è difficile difendersi. Sono cose che le vediamo ogni giorno ed è anche una delle ragioni perché i talk show tendono un po’ a stufare il pubblico.
Sul lungo il pubblico, o una parte di esso, potrebbe anche intuire che vi è uno squilibrio nel dibattito e di conseguenza non seguire più quel programma.
Più che altro, secondo me, c’è una disaffezione molto forte tra il pubblico, i media e la politica, per cui questo approccio così strumentale, così prevedibile, interessa meno.
Lei ha anche scritto che i nuovi guardiani dell’informazione sono i social network. Abbiamo avuto la prova provata di ciò in epoca Covid quando hanno dettato una linea di pensiero unidirezionale. Le voci in dissonanza venivano bannate.
C’è stato un cambiamento di paradigma – e la cosa è passato un po’ sottotraccia, perché non ho letto grandi analisi su questo – ma abbiamo assistito a una operazione vergognosa. Oggi, per certi versi, tutti criticano Trump per i suoi modi, però Biden, o meglio chi e per conto di, magari usurpando Biden, ha applicato una censura molto invasiva e non dichiarata sui social media, quindi doppiamente insidiosa. Oggi lo sappiamo e abbiamo visto che Zuckerberg è uscito pubblicamente ammettendo ciò, come Elon Musk quando ha acquisito X.
È gravissimo che in democrazia FBI, CIA, Dipartimento del governo americano andassero a convocare i responsabili dei vari social media dicendogli di cancellare certe opinioni, addirittura indicando le personalità da bannare direttamente o facendo lo shadow banning. Tutto questo è stato un vero e proprio attentato ai valori democratici e quelli che dovevano essere i valori imprescindibili della costituzione americana. Il fatto che su questo tema ci sia stato silenzio, a parte poche eccezioni, è gravissimo. Noi viviamo in un mondo virtuale in cui tutti parlano di democrazia, di valori liberaldemocratici e quant’altro, ma poi noi stessi, come occidente, li abbiamo violati questi valori.
Oggi i nostri dati più sensibili siamo noi stessi, che tramite le piattaforme social, li affidiamo a coloro che poi ci sorvegliano e ci controllano. Di fatto è il contrario di quello che effettuavano le agenzie di intelligence, come la Stasi ad esempio, nei decenni passati, che cercavano in ogni modo di entrare nella quotidianità dei cittadini per spiarli. Il famoso film Le vite degli altri è esplicativo. La massa pare sia inconsapevole di ciò.
Esatto. Da una parte c’è l’ego, che solleticandolo metti la foto con quel tizio, nel posto tal dei tali, le foto della famiglia, dei viaggi e via dicendo. Ma l’altra cosa che pochi sanno che in realtà, nonostante Snowden abbia rivelato la vicenda della sorveglianza di massa elettronica una decina di anni fa, suscitò un gran clamore, ma non è che poi, forti di quell’esperienza, siamo stati più tutelati.
Oggi ci sono le cosiddette back door – ne parlo nel mio libro La società del ricatto – che sono delle porticine di servizio che vengono usate dai servizi di intelligence o chi per loro, per leggere i nostri dati. Le cito una frase dell’ex capo dei servizi segreti svizzeri contenuta in un libro: «Fate attenzione quando voi mandate una mail, quella mail passa – simbolicamente – per Londra e Washington dove viene copiata e archiviata prima che arrivi a destinazione». Di fatto noi siamo scrutinati, archiviati, profilati. Tornando al film Le vite degli altri, praticamente con questo ecosistema digitale, così tanto esaltato ed elogiato, in realtà si sta realizzando il sogno dei servizi di sicurezza di tutti i regimi, ovvero la schedatura di massa.
I social network sono anche divulgatori di notizie estremamente sintetiche, si parla per slogan cosicché la gente legge un titolo per conoscere quel tal avvenimento senza un minimo di lettura dei fatti, tantomeno di approfondimento. Recentemente negli Stati Uniti stiamo osservando che molti podcaster stanno raccogliendo numeri di pubblico molto consistenti. È come se una fetta di popolazione nutrisse una sana curiosità di conoscenza dei fatti più strutturata e approfondita. Questo cambiamento lo si intravede anche in Italia secondo lei?
In Italia ci sono le potenzialità perché questo accada. In Italia c’è stata una frammentazione molto più marcata e ci sono siti che hanno avuto e stanno avendo buoni risultati, nonostante manchi il Tucker Carlson o il Joe Rogan della situazione. Io percepisco nettamente, e la mia esperienza me lo ha dimostrato, che c’è una parte importante del pubblico che non va più a votare, non compra più i giornali, guarda sempre meno la televisione e si interroga su ciò che sta accadendo in giro per il mondo e non ottiene più risposte concrete da parte dei media ufficiali. Per cui il fatto che emergano realtà autorevoli e credibili, che poi alcune scadono nel complottismo, che non significa che i complotti non esistano. Esistono e come, la storia è fatta di complotti, però non puoi vedere sempre tutto solo attraverso questo filtro sennò diventi maniacale. La necessità di un approccio davvero credibile, di gente che si interroga, è sempre più necessaria e secondo me sempre più ricercato.
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Ciò mi fa ben sperare per il futuro.
Ma sì.
La società del ricatto è il titolo del suo ultimo libro, che mi pare sia un unicum su questo tema. Come le è venuta l’idea di scrivere di questa argomentazione?
Credo sia il primo saggio in assoluto che parla di questo problema. Mi sono reso conto, osservando la politica, osservando le relazioni internazionali, ma anche frequentemente parlando con amici, editori, manager, professionisti, osservando certe dinamiche della nostra società, che il ricorrere al ricatto è così diffuso che è diventato quasi un malcostume. Ho cominciato a riflettere su queste tematiche: «perché questo accade, c’è un filo comune?». La risposta è sì, c’è un filo comune. In questo libro si arriva fino alle relazioni personali e di come il ricatto emotivo è uno delle ragioni principali per cui le persone vanno in crisi e per cui così in tanti vanno dallo psicologo. Provo a lanciare un sasso nello stagno per dire: «attenzione, sotto questo fenomeno c’è una crisi valoriale molto forte e se vogliono, stiamo dando ragione a Machiavelli quando diceva il “fine giustifica i mezzi”».
Io invece trovo che alla fine non dobbiamo mai trascendere dai nostri fini che devono essere quelli valoriali più nobili, sapendo che ci sarà sempre un’imperfezione. Questo deve essere un anelito molto forte. La diffusione del ricatto come mezzo per raggiungere i propri scopi, in politica è devastante. In politica internazionale è stato obliquo e silenzioso per trent’anni e poi è diventato esplicito con Trump. Non può essere accettato passivamente.
Un ricatto politico importante fu quello all’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel 2011.
Terrificante.
In quel periodo oltretutto Berlusconi si portava appresso una costruzione di odio contro la sua figura che nell’opinione pubblica ha giocato a favore di quel ricatto politico che subì. Silvio Berlusconi è stato il primo grande politico a subire ricatti sul piano personale. Prima di lui si cercava di screditare l’avversario più sui fatti e meno su ciò che era la vita privata.
Abbiamo due situazioni diverse. Una è l’uso della privacy per fare lotta politica e questo è molto diffuso e sistematico. Molti personaggi della vecchia classe politica avevano delle amanti e si sapeva, ma nessuno le usava come elemento per screditare la propria moralità. Secondo me era meglio così. Berlusconi, dal punto di vista dell’immagine, è caduto sul «bunga bunga». Però quello che è successo nel 2011 è molto più grave, perché lì c’è stata una manovra di establishment condotta dall’Unione europea con una lettera, oramai famosa, firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, il presidente della BCE uscente e quello entrante. Questo tanto per sottolineare quanto sia patriota il signor Mario Draghi.
Fu un fatto abbastanza grave.
Molto grave, con la complicità di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Lì vennero esercitate delle pressioni molto forti, palesemente ricattatorie, il cui fine era quello di estromettere Berlusconi dalla politica. Cosa che poi è avvenuta. Fu costretto a cedere.
Lo spread fu il grimaldello che fece cadere il governo Berlusconi.
Fu un’operazione vergognosa. Purtroppo oggi la politica si esercita molto attraverso questa forma di ricatto.
Sbaglio o una volta lei disse, sempre in quel frangente, che Berlusconi fu ricattato perché in una riunione di capi di Stato europei disse di volere far uscire l’Italia dall’Euro?
Questa fu una testimonianza di due giornalisti francesi che scrissero un libro bellissimo anni fa, descrivendo che cosa accadeva davvero durante i consigli europei. E Berlusconi era l’unico che, col fatto che le decisioni erano già tutte prese, ogni delegazione poteva dire qualcosa per pochi minuti, e Berlusconi non ci stava a questa situazione. Vediamo che poi fu fatto fuori.
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Lei parla anche di una perdita di valori che di fatto poi va poi a incrementare questa società del ricatto. Viviamo in una società che esalta la liberà scelta di ognuno di noi, ma osservandoci macro dimensionalmente risultiamo tutti omologati in molti aspetti della vita e financo nell’informazione. Mi consenta, ma vedo anche una scristianizzazione sempre maggiore, mentre la cristianità, al contrario, dovrebbe essere una tradizione quantomeno da tenerla più in considerazione.
Assolutamente sì! Noi siamo in una società sempre più edonistica in cui l’interesse personale è quello che prevale. Si perde il senso dell’interesse collettivo in cui si proietta l’immagine in cui si è felici se uno possiede solo beni materiali e se hai successo. Questo ha fatto sì che la coltivazione di valori religiosi, culturali e di tradizione venissero sempre più messi sotto il tacco e il risultato è quello di una società dove si percepisce una disperazione esistenziale molto marcata. E fondamentalmente tutto questo avviene e si materializza anche sotto la spinta di ricatti sociali. C’è sempre questo concetto che ritorna, anche solo nella gestione delle nostre vicende personali, economiche e nel mondo del lavoro. Qualsiasi cosa tu faccia, hai sempre paura di perdere qualcosa e di finire ai margini. Per cui quando questo diventa diffuso, il risultato è l’omologazione e la pavidità, pensare al tuo particolare e fregandotene della collettività.
Il ricatto lo abbiamo visto e vissuto in era pandemica, dove molta gente è stata costretta a delle scelte obbligate.
Se volevi conservare il posto di lavoro dovevi vaccinarti. Ciò è stato di una violenza morale incredibile.
Oggi sembra che questa cosa passi quasi in cavalleria, a parte qualche voce che tiene vivo questo dibattitto.
La stampa non ne parla, la politica, a parte qualche medico meritevole, va avanti, sul resto cala il silenzio. Fortunatamente negli Stati Uniti ora c’è Kennedy che sta facendo un lavoro enorme facendo uscire informazioni importanti. Come vede però, qui da noi arriva un eco molto affievolito.
C’è una frase nel suo libro La società del ricatto, che le cito: «Solo una visione dall’alto permette di cogliere connessioni che da vicino, quando si è troppo immersi in un contesto, risulta impossibile notare». Credo sia un concetto che si riverbera anche nella cultura; più riusciamo a spaziare nelle nostre conoscenze, più avremo un quadro più ampio e uno spirito critico maggiore. Oggi nella società in cui viviamo c’è una scolarizzazione che determina se una persona è brava o meno, e dove si tende molto di più a specializzarsi. Forse, così facendo, mi pare manchi quella visione che possa portarci a un sano spirito critico. Molta gente rimane troppo spesso impassibile al ragionamento di fronte a importanti fatti di cronaca.
Da un lato viviamo l’era della specializzazione, il che si perde una visione dall’alto. Vedi la medicina per esempio: un bravo medico è quello che se tu hai un problema a un ginocchio, tanto per fare un esempio, può essere lo specchio di qualcosa di più profondo. I buoni medici son quelli che vedono queste connessioni. La nostra società è questa.
D’altro canto, riguardo appunto il COVID, quando usi, attraverso la propaganda, l’arma della paura, che è letteralmente un’arma, puoi ottenere qualsiasi cosa anche dalle persone più intelligenti. Li spaventi dicendogli che c’è un virus e che se non ti vaccini può portarti alla morte, alimentando il tutto con le immagini di persone che muoiono.
Lì non è questione di intelligenza o meno: se tu agiti la paura attivi dei meccanismi istintivi e primordiali nell’uomo, per cui anche persone che nella normalità sono brillanti e intelligenti, possono diventare le più appiattite e terrorizzate nel recepire la propaganda, senza rendersi conto, senza nemmeno chiedersi se quella propaganda, se quel che loro credono è frutto di una analisi corretta o se è frutto di una manipolazione. Da qui il ruolo d’importanza della stampa. La stampa dovrebbe essere quella che tira la campanella e dice «Attenzione!» mentre invece nel novanta percento dei casi accompagna la narrativa.
Come vede il giornalismo oggi e quali sono stati, secondo lei, i cambiamenti più significativi negli ultimi decenni?
Il giornalismo si è appiattito sul potere, perché economicamente i giornali e i media hanno difficoltà a mantenersi, per cui se hai un grosso sponsor o un grosso editore, è lui che «suona la musica». Oppure, altra verità di cui non si parla abbastanza, se tu ricevi i fondi pubblici da un governo, dal USAID, tanto per citarne un cosiddetto ente di aiuto per lo sviluppo, o da mecenati che agiscono per conto terzi o ultramiliardari che usano fondazioni, tu suonerai quella musica.
Per cui oggi il giornalismo ufficiale ha questo dilemma: una redazione costa un sacco di soldi e se non hai uno che paga, è finita. È veramente un periodo difficile per la stampa. D’altro canto c’è sempre più bisogno di qualcuno che dica o cerchi la verità. Su questo sentimento si dimostra che nella nostra società c’è una parte importante che non si arrende e che si interroga, che cerca una rappresentanza non politica, ma proprio culturale ed editoriale. È un periodo in rapidissima evoluzione.
Lei insegna da anni all’università. C’è vera libertà d’insegnamento negli atenei italiani?
In teoria sì, ma di fatto si verificano i meccanismi che descrivo ne La società del ricatto, cioè ti adegui alle logiche, agli interessi dominanti del tuo settore. Un professore che vuol far carriera, se il mondo accademico spinge verso certi valori più progressisti, il woke, la relativizzazione e la demonizzazione di certe idee, sarà spinto ad adeguarsi. In più, quel che trova conferma in quello che scrissi ne Il sistema (in)visibile, l’università negli Stati Uniti è finanziata in buona parte – in Europa è statale ed è meno marcato questo fatto – da finanziatori che mettono i soldi, per cui son persone che possono indicarti una cattedra, sponsorizzano programmi di ricerca e se uno dona cinquanta milioni di dollari, il rettore dell’università gli stende il tappeto rosso e naturalmente sarà molto sensibile ai suoi desiderata. Ecco perché le università sono diventate degli strumenti molto importanti di formazione di giovani élite e di lavaggio del cervello costante.
Negli Stati Uniti c’è stata una recente polemica che ha visto il presidente Trump scontrarsi con i principali atenei dello stato.
Ha avuto ragione Trump. Sappiamo che il governo americano ha finanziato lautamente molte università. A me fa sorridere quando la gente elogia l’America come la terra delle opportunità, della libera imprenditoria e quant’altro. C’è uno stato che dietro le quinte sponsorizza e sostiene anche le università. E Trump a un certo punto ha detto: «Se voi fate dei programmi a cui io non credo, questo governo non vi sostiene più».
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Prima di volgere alla conclusione dell’intervista, vorrei rivolgere un’altra domanda. C’è un tremendo conflitto in corso in Medioriente. Lei che idea si è fatto?
Io sono molto critico nei confronti di Israele.
Le chiedo scusa, non vorrei sbagliarmi, una parte della sua famiglia ha origini ebraiche, giusto?
Foa è un cognome di tradizione ebraica, ma io sono cattolico. Tornando al conflitto e premesso che io non ho alcuna simpatia per Hamas, il cui cinismo in questi giorni è allucinante. Trattenendo gli ostaggi stanno esponendo scientemente il popolo palestinese a un massacro. Però chi sta facendo questo massacro sono gli israeliani. Di fatto Netanyahu sta applicando i piani della Grande Israele. Netanyahu è figlio di un estremista e fanatico sionista, il cui obiettivo era quello di creare una grande Israele che ha sempre negato il riconoscimento dei palestinesi come popolo. Per lui era una popolazione, è diverso.
Tutto questo sta avvenendo sotto i nostri occhi e il prezzo non lo paga tanto Hamas, ma le decine di migliaia di persone uccise, tra cui molti bambini e molte donne, persone che sono in coda per il cibo e vengono bombardate. Alcuni medici americani che sono andati laggiù all’inizio della crisi, hanno fatto le autopsie e visto i cadaveri dei bambini; molti di questi c’avevano dei proiettili in testa. Vuol dire che dei cecchini gli hanno sparato. Ad uno può anche capitare, magari colpito disgraziatamente da una granata e muore, ma se molti hanno dei proiettili in testa, vuol dire che c’è qualcuno gli ha sparato scientemente a questi bambini. Medici che vengono uccisi, ospedali bombardati, giornalisti uccisi.
Il fatto che Israele decide, da sempre, quanto cibo e quanta acqua deve entrare a Gaza, e lo decide in maniera atroce adesso. Tutto questo non è moralmente accettabile da parte di uno stato che alle sue fondamenta voleva anche essere una ragione di riscatto per gli orrori subiti durante l’olocausto. Ciò a cui noi stiamo assistendo è un orrore inaccettabile e non ho dubbi da questo punto di vista, ma è anche un tradimento di quelli che dovevano essere i valori dello stato ebraico. Come dicevo prima, Hamas è l’integralismo islamico peggiore e Israele è governata dalle forze più estreme del suo schieramento politico e quel che sta facendo, a mio giudizio, è inaccettabile.
A un certo punto ho notato che c’è stata, a distanza di molti mesi dall’inizio delle ostilità israelo-palestinesi, nei media mainstream un’attenzione maggiore per Gaza. Vediamo tanti sedicenti movimenti politici di sinistra o di ONG schierarsi, anche giustamente se vogliamo, per la Palestina. Come la spiega questa questione d’interesse improvviso?
Glielo dico in maniera molto semplice. La sinistra era filopalestinese fino agli anni Novanta, poi è diventata filoisraeliana. Guardi anche come hanno fatto con la Segre erigendola a icona. Quando il 7 ottobre di due anni fa è iniziato tutto, la sinistra era pro-Israele e un po’ tutti lo eravamo, visto l’attacco che ha subito. Quando sono iniziati a uscire i report su quello che stava succedendo nella striscia di Gaza, la sinistra è rimasta silente. Fino a quando con una reazione della società civile, il popolo della sinistra ha visto cosa stava accadendo e ha iniziato a indignarsi.
Il cambiamento c’è stato quando i partiti di opposizione hanno capito che su questo terreno il governo Meloni poteva essere messo in difficoltà ed ecco che improvvisamente i vari Conte e Schlein hanno iniziato a schierarsi dalla parte dei palestinesi. È stato un atteggiamento strumentale perché dovevano capitalizzare le difficoltà del governo Meloni e non potevano staccarsi troppo da quello che è il sentimento della loro base. Han detto: «Tanto stiamo all’opposizione, chi se ne frega».
Io sono convinto che se loro fossero al governo si comporterebbero esattamente come il governo Meloni. Ci vedo una grande dose di ipocrisia
Dottor Foa, la ringrazio.
Grazie a voi!
Francesco Rondolini
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Immagine di Medija centar Beograd via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
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Charlie Kirk, strategia della tensione e inferno sulla Terra

Non abbiamo ancora visto nulla di quello che sta dietro l’assassinio di Charlie Kirk, né di quello che accadrà ora. Perché le radici di quanto successo sono profonde e oscure, mentre le ramificazioni rischiano di essere cruente ed indicibili.
Le ultime parlano di una possibile operazione sorta nell’ambito del mondo cosiddetto trantifa, attivisti transessuali armati e violenti, che operano online come offline: pochi mesi fa è emerso l’arresto sulla costa occidentale degli USA di un’intera setta di trans-terroristi dedita, a quanto riportato, all’omicidio seriale. Le informazioni all’epoca ci erano sembrate ancora confuse, ora non più; Renovatio 21 cercherà di raccontare nei prossimi giorni del caso, che rischia di diventare un ulteriore avvistamento di un pattern devastante, quello della violenza massiva trans, che ora potrebbe farsi organizzata, ed alzare il tiro.
Il cecchino era, come si dice, molto skillato (o… addestrato?) da colpire da 200 iarde la carotide del 31enne, ben conscio che diecine di smartphone avrebbero ripreso, e postato sui social, i fiotti di sangue. Non un particolare da poco: l’assassinio pare fatto proprio per l’era social, indipendentemente dagli algoritmi. Lo snuff movie della fine di Kirk ora è introvabile sui social, ma tutti noi lo abbiamo visto, perché è stato fatto circolare per il tempo giusto a traumatizzare l’utenza globale.
Il colpo è stato, quindi, militarmente e mediaticamente, perfetto. Qualcuno dice: attenzione, a colpire il collo del ragazzo non sarebbe stato un tiro preciso, ma potrebbe essere stato un proiettile rimbalzato dal petto, perché Charlie, come si vede nelle foto, sotto la t-shirta indossava un giubbotto antiproiettile… qualcosa si aspettava, e da tempo. Il risultato, ad ogni modo, non cambia: sparare al petto è un atto da killer professionista, perché è un obbiettivo più largo della testa, e il torso è un insieme infinito di vasi e tubicini, per cui il dissanguamento interno od esterno è assicurato.
A colpire, tuttavia, sono state le reazioni all’assassinio più social del millennio: ci sono i media mainstream, che lo ricordano come putiniano, climate-change scettico e diffusore di fake-news durante il COVID (aggiungiamo: era sempre più tiepido sulla fornitura di armi e danari a Kiev…). Poi ci sono i leoni da tastiera sparsi per tutto l’Occidente, quelli che gioiscono, per un qualche motivo: tanti LGBT fanno festa in rete (notiamo che una bandiera omotransessualista sventolava poco sopra Kirk in un video della sua morte, il quale è spirato mentre rispondeva ad una domanda sugli stragisti trans), poi, come è già stato detto, ci sono i pro-pal pavloviani, che saltellano, anche in Italia, perché Kirk era filoisraeliano – anche se, a quanto pare, sempre meno…
Ci sono stati in rete commenti indicibili: gente che dice che si guarderà in loop il filmato dello «sporco sionista» che viene trafitto appena sotto la testa, di certo un video dell’orrore che non può non colpire l’anima, o lo stomaco, di chi lo consuma. Un ragazzo, ancora giovanissimo, sorridente, padre di due figli piccoli. Un giovane che stava, semplicemente, parlando.
Kirk era, come tutto l’apparato conservatore USA, filoisraeliano, sì. Qualcosa, tuttavia, stava cambiando. Max Blumenthal, il direttore del sito Grayzone che ha pubblicato la storia di Kirk che stava rivoltandosi contro Netanyahu e i suoi donatori sionisti, ha detto in un’intervista con il comico Tim Dillon che la cosa lo aveva stupito, perché essenzialmente Turning Point USA era un’operazione dei filoisraeliani per mantenere un qualche appiglio presso le giovani generazioni, che non ne vogliono sapere di sostenere Israele, semplicemente aggiungendo la causa della difesa dello Stato Ebraico a tutte quelle tipiche dei conservatori.
Su tutto il resto, di fatto, era schierato bene: con Donald sin dalla prima ora, contro la tirannide COVID, contro la balla climatica, contro la geremiade razziale USA e la sua trappola violenta, vista durante i moti cruenti di Black Lives Matter nel 2020, una vera rivoluzione colorata perpetrata contro gli USA: lo schema è quello che conosciamo, il Deep State prima testa i suoi schemi all’estero, e poi li ritorce contro la stessa popolazione americana
È proprio sull’assassinio Kirk come catalizzazione di una violenza più vasta che bisogna ragionare.
Gioire per la morte di qualcuno perché si dissente da lui è un atto di barbarie vera e propria – è approvare la violenza, gratuita, contro gli inermi, solo perché sono «diversi», cioè non la pensano come te..
È proprio vero: applaudire l’effusione del sangue del ragazzo conservatore non sta a molta distanza da quei soldati IDF che sghignazzano e piazzano su Telegram le loro torture ai palestinesi (il famigerato canale «72 vergini»), gli spari alla folla in cerca di cibo, etc. Anzi: il commentatore internettista non si assume nemmeno la responsabilità dell’azione, gode per interposto carnefice, parassita con voluttà un orrore di cui con probabilità non sarebbe neppure capace. Almeno al momento.
Lo schifo che proviamo deve cedere il posto alla riflessione sul momento del pericolo: stiamo diventando, davvero, quello che un manuale dell’ISIS chiamava «il territorio della crudeltà», il luogo di barbarie in cui, con ulteriore violenza, bisogna implementare una gestione. Quella che i jihadisti stragisti chiamavano, appunto, «gestione della barbarie».
È qui che capiamo come anche coloro che plaudono al sangue siano, involontariamente, pedine di un piano programmato per portare l’inferno sulla Terra: se è lecito uccidere che la pensa in altro modo (apoteosi finale della Cancel Culture, del wokismo realizzato) allora abbiamo davanti a noi una prospettiva di massacri continui, ubiqui.
Perché, a questo punto, chi ride plaude alla violenza sugli inermi, ritenendola politicamente giustificata, non esce di casa e spara su una manifestazione? Cosa lo trattiene? Perché non aggredire chi è diverso, anche solo per il pensiero, da noi?
Di fatto, la cosa sta già accadendo: le stragi dei trans degli ultimi mesi, con scuole e chiese attaccate, mostrano esattamente questa ferale, nichilista, ideologica, sete di sangue, certo condita da ormoni steroidei e psicofarmaci SSRI, e pure questo bisogno di sacrificare l’innocente, qualcosa che nella storia si ripete dagli agnelli sacrificali all’Agnello… la faccia da bravo ragazzo di Kirk, l’evidente mancanza di impulsi violenti in lui, lo rendono forse la vittima più innocente che nel settore poteva trovarsi per questo sacrificio.
E il sacrificio è stato consumato. Ma – attenzione – non per riportare l’ordine nella società, come sostiene la filosofia di Réné Girard, sempre più letto e citato, ultimamente, dai vertici politici ed economici americani. No, qui il sacrificio dell’innocente è stato fatto per evocare nella società il caos. L’oscenità dei commenti in rete è il segno più evidente.
La via è quella che porta non solo ad una guerra civile, ma ad una società di violenza continua, sempre più gratuita, sempre più accettata dalle fazioni di un mondo polarizzato in maniera irreversibile. Non più avversari politici o rivali ideologici, ma nemici da abbattere, anche e soprattutto quando non possono difendersi.
Qualcosa di simile, a dire il vero, lo abbiamo già vissuto anche in Italia: erano gli anni di Piombo, annunciati da violenze politiche belluine su grandi personaggi, poi amplificate in lotte di strada, e poi bombe sui treni, nelle banche, nelle stazioni, nelle piazze piene di gente innocente. A quel tempo, ricordiamo, se credevi che dietro questo gioco di sangue ci fosse una regia, non eri tacciato di complottismo ed espulso dal discorso pubblico. Era evidente che si trattava di una manovra oscura di poteri grandi, occulti, indicibili, che epperò costituivano lo Stato moderno, lo Stato democratico.
Déjà vu. Il gioco è ancora in piedi: ci sono due, forse tre, superpotenze atomiche, e la strategia della tensione non è uno schema che forse vogliono mettere in soffitto. Anzi, a quanto pare l’importazione negli USA delle tecniche di Gladio et similia, dopo che sono state testate negli anni altrove e soprattutto in Italia, è partita da parecchio tempo: l’anniversario dei trent’anni della bomba di Oklahoma City ha sospinto in superficie rivelazioni abissali, come quella riguardo al PATCON, un progetto dei federali americani di infiltrare l’estrema destra americana, e magari dirigerla verso atti precisi. (Renovatio 21 ne parlerà a breve, con un’intervista all’avvocato che più di tutti si è battuto per la verità su Oklahoma City, Jesse Trentadue, che ha visto il fratello arrestato, torturato e ucciso perché ritenuto erroneamente uno degli autori della strage).
La strategia della tensione è viva, e certo, a differenza dell’altra volta, ci sono forme di psicoguerra più potenti: i social. E quindi, c’è la possibilità di isterizzare l’intera popolazione, portarla, tramite traumi e propaganda, alla ferocia più infame e sanguinaria. È possibile, con le camere d’eco algoritmiche dei social, radicalizzare qualsiasi utente, desensibilizzarlo, de-umanizzarlo. È possibile trasformare il cittadino in qualcuno che applaude l’assassinio, e quindi, è forse possibile perfino dire che i social possono trasformare i loro utenti in assassini.
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Non sono più fazioni specifiche della società ad essere polarizzate nel radicalismo sanguinario: non più «gli studenti», «gli autonomi», «i militari», etc., ma l’intera popolazione inghiottita dalla piattaforme informatiche.
La società che può venire fuori da un simile programma dovrebbe terrorizzarci, e pure più degli orrori immani di Gaza, più del massacro dell’Ucraina, più della catastrofe del COVID.
Attenti a fare il gioco degli sterminatori – specie se poi a parole si pensa di combatterli senza capire di esserne in realtà programmati. L’impulso al genocidio, a quanto sembra, qualcuno sta riuscendo ad inocularlo a tutta la società moderna, che ha abbandonato l’unico antidoto alla perpetrazione del ciclo della violenza: Nostro Signore Gesù Cristo.
Togli Dio dalla Terra, e credi che essa non si trasformi in un inferno?
Roberto Dal Bosco
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