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Albione, la Russia e l’Italia: la guerra allo spirito dal Risorgimento all’Ucraina odierna

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Come noto, alcune delle parole più lucide scritte sull’Italia vennero da Teodoro Dostoevskij, che osservava il farsi di un nuovo Stato sotto la tragedia massonica chiamata Risorgimento.

 

Dostoevskij non era interessato a questioni politiche – quelle, sappiamo, sono gli spiccioli della storia. 

 

Il genio può vedere oltre la storia – e la geografia.

 

Sostanzialmente, nessun altro Europa comprese cosa significavano gli eventi italiani del suo tempo: nessuno, in realtà, voleva leggerne il significato spirituale – e quindi le enormi conseguenze a lungo termine, nella storia e nella metastoria, nella metafisica della civiltà.

 

Perché, quando tocchi lo spirito, che è cosa di Dio, non puoi che aspettarti sconvolgimenti immani. L’Ottocento fu, in pratica, poco più che questo: la lotta totale contro lo Spirito, la sua slatentizzazione storica e politica, con quindi le titaniche conseguenze che dobbiamo aspettarci.

 

 La mia idea è che, alcune di quelle catastrofi conseguenti le stiamo vivendo in questo stesso momento, mentre i cannoni e carri armati cantano nello spazio delle Russie, e forse a breve anche qui…

 

Per capire il mondo bisogna saper leggere l’Italia: è una realtà che vale da qualche migliaio di anni.

 

Scriveva Dostevskij nel suo Diario di uno scrittore:

 

«Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale».

 

«I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano».

 

«La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (Ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno dì second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unita mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!».

 

Sono parole profetiche, e tremende. Nessuno può negare, un secolo e mezzo dopo, la profonda verità di quanto scritto dal genio russo.

 

Esse ricalcavano, in realtà, non solo una verità spirituale, ma anche una profonda questione geopolitica, forse proprio da essa informata.

 

È per lo più sconosciuto ai nostri sussidiari che gli Zar posero, come potevano, una netta opposizione all’idea dell’Unità d’Italia.

 

Il perché non è difficilissimo da trovare: il Risorgimento, la prima «rivoluzione colorata» – diciamo pure «tricolorata» – che il mondo vedrà a raffica sino al Maidan e oltre, era già allora senza ombra di dubbio un’operazione di sovversione con pupari piuttosto evidenti.

 

Il Risorgimento – era il pensiero cattolico d’un tempo – altro non era se non una lunga e costosa operazione anglo-massonica, con qualche aiuto da parte magari degli ebrei di Livorno (luogo interessante, anche per fatti successivi, nonché una delle poche città italiche ad avere un nome anche in inglese, Leghorn), quelli che ospitavano Mazzini.

 

Sì, Mazzini: quello strano «eroe» risorgimentale cui dedicano ancora oggi statue, vie e scuole, celebrato come Garibaldi: tuttavia, sono tutti dimentichi del fatto che mentre l’orecchio mozzato che disse «obbedisco» ebbe tutti gli onori (al punto da essere implicato nel crack della Banca Romana, trappolone bancario popolare ante litteram, con il figlio Ricciotti e il ministro massone 33 grado Antonio Mordini), Mazzini morì in esilio da latitante, nascosto come un boss mafioso, rintanato in una stanzetta convinto di avere ancora il potere di incidere sulla  storia, come un Bin Laden a caso.

 

Sappiamo da dove veniva Mazzini, chi lo curava, lo finanziava, gli elargiva passaporti. Si tratta dello stesso Paese con cui i Savoia, per le guerre dell’unità, fecero quei debiti di cui parla Dostoevskij. Si tratta della Nazione che più aveva da guadagnare con il «Risorgimento». Si tratta del nemico storico della Russia, su ogni piano possibile.

 

Il lettore sa che parliamo di Albione.

 

Bettino Craxi, nei suoi anni, spinse il rifiuto dell’Italia come «portaerei inaffondabile» (di fatto, più o meno per questo lo fecero fuori). Ebbene, l’Italia lo era già nell’Ottocento. Di lì a poco sarebbe stato aperto il canale di Suez, Malta (terra italofona stranamente mai considerata irredente da Mazzini e confratelli) poteva non bastare come approdo per la rotta che avrebbe consolidato per sempre i commerci britannici dalle Indie.

 

Il dominio inglese sull’Italia risorgimentale in nessun caso è più chiaro che in quello di Ernesto Nathan, ebreo di origine inglese, gran maestro del Grande Oriente d’Italia affiliato alla loggia Propaganda, primo sindaco di Roma estraneo all’aristocrazia terriera, quindi segno incarnato della fine dell’epoca papalina, di quell’idea spirituale universale che pure l’ortodosso Dostoevskij non sentiva di poter negare.

 

Nathan era nato a Londra nella famiglia che più tardi ospitò Mazzini, che divenne suo precettore. La madre, l’ebrea pesarese Sara Levi Nathan, fu «finanziatrice e confidente» (così la pudìca enciclopedia online) di Mazzini; le malelingue insinuano di più, parlando di «affinità (…) riscontrabili – c’è chi è pronto a giurarlo, anche nei lineamenti» (Valeria Arnaldi, SPQR, 2014).

 

La figlia di Sara Nathan, Jeanette Nathan, sorella del futuro sindaco di Roma ospitò a Pisa Mazzini in punto di morte. 

 

E mentre inglesi massoni ed altri lottavano per l’Italia unita, la storia registra l’appoggio dello Zar di tutte le Russie al Regno delle Due Sicilie, che pure era concorrente dei russi per l’export del del grano.

 

In un saggio di Eldo Di Gregorio, Le relazioni tra il Regno di Napoli e l’Impero di Russia tra il 1850 e il 1860 nelle carte dell’Archivio dei Borbone (Edizioni Scientifiche Italiane, 2006) analizza la corrispondenza diplomatica. Appare evidente come la Russia considerasse nefando il ruolo dell’Inghilterra e di Lord Palmerston, «fautore di e promotore di tutte le rivoluzioni che accadano nel Continente» (p.114), e si offre quindi di consigliare Napoli contro i falsi rivoluzionari.

 

Di fatto, di queste rivoluzioni continentali («colorate») la Russia ne subì di lì a non troppo tempo una coloratissima, quella dell’Ottobre 1917. Non fu l’ultima: quella a Kiev nel 2004 e 2014 («Euromaidan») non sono dissimili per dinamiche di intersse internazionale.

 

Al tempo dei Borbone minacciati dagli anglomassoni, San Pietroburgo non escluse l’opzione di aiuto militare tramite le proprie navi, ma desiderava prima raggiungere un accordo con la Francia. Lo si evince da una comunicazione di Napoleone III all’ambasciatore dei Savoia a Parigi:

 

«Il Principe Gorčakov [cancelliere dell’Impero Russo dal 1863 al 1883, ndr] mi accusa di favorire la rivoluzione, e dichiara che giammai la Russia sarà nel campo dei rivoluzionari; egli propone un intervento marittimo in favore del Re di Napoli, e annuncia formalmente che mai la Russia permetterà l’annessione della Sicilia al Piemonte» (p.179).

 

L’indecisione militare dei Borbone irritarono i pragmatici Zar: «Non si comprende perché il Real Governo avendo in mano la risposta del Conte Cavour, in cui è detto in nome del Re Vittorio Emanuele che Garibaldi usurpa onninamente il nome di S.M. Sarda e che il Governo Piemontese disapprova tutti gli atti di quel condottiero, non l’abbia immediatamente pubblicata nel Giornale Officiale di Napoli e che la tenga tuttavia celata invece di spargerla per le stampe ed accrescere così gli imbarazzi di Garibaldi e compromettere nel tempo medesimo il Governo Sardo» (p.181).

 

Allora come oggi, lo Zar non le manda a dire, ed esorta all’azione concreta: «si desidera dunque vedere il Real Governo agire con più energia, sia nelle operazioni militari, sia nell’azione politica, procurando di riunire i partigiani della Costituzione Siciliana del 1812…» (p.183)

 

Insomma, c’è questo quadro secolare da mettere insieme: la Russia, che parlava perfino dal cuore di Dostoevskij, non voleva l’Italia unita – cioè l’Italia in guerra con la propria religione, il Cattolicesimo.

 

Londra, invece, voleva fortemente il Grande Reset della penisola: distruggere il Papato, tradito secoli prima ma mai del tutto vinto nemmeno in patria; far contrarre il più esteso e duraturo impero cattolico europeo, l’Austria; preparare il Mediterraneo all’apertura di Suez, pacificando possibili coste di conflitto.

 

Il mediterraneo anglicizzato, alla faccia del granaio d’Europa e del Mar Nero. Il mediterraneo lago inglese, rimasto tale alla faccia di Mussolini.

 

Perché il conflitto tra la Londra e gli Zar andava avanti in ogni ambito possibile.

 

Spesso ci si dimentica dell’epica e spettacolare guerra fredda chiamata «Grande Gioco», una lotta di spie – e di eserciti – in tutto il Centrasia, dall’India Settentrionale a Kabul, Kashgar, Samarcanda… Un passato che è emerso anche a inizio anno con oligarchi kazaki in esilio  – quelli che magari hanno fatto sparire un paio di centoni alla principale banca italiana e che ci siamo visti adesso sui giornaloni italioti tranquillamente liberi di fomentare la rivolta Ad Almaty e Astana…

 

Ora, non è un mistero per nessuno che in queste ore sia Albione il più insopportabile attore geopolitico che spinge verso la guerra con la Russia. Il ruolo di Londra nell’escalation ucraina è stato condannato pubblicamente dall’ex ministro degli Esteri austriaco Karin Kneissl così come dal sincero presidente della Croazia, Zoran Milanovic.

 

Così come per le storie sulle azioni delle forze speciali britanniche SAS – a cui qualcuno vorrebbe attribuire le spericolate operazioni di attacco in elicottero su territorio russo così come l’affondamento delle navi russe – le voci si sprecano. Al momento abbiamo la certezza che in Ucraina stanno lavorando, dichiaratamente, addestratori militari di Londra, sulla carta intenti a insegnare agli ucraini l’uso di missili anti-tank NLAW, gentilmente offerti da sua Maestà per distruggere uomini e mezzi del nemico storico e metafisico di Albione.

 

Se pensiamo all’Ottocento, il paragone non riesce, perché nel disastro rivoluzionario angloide dell’ora presente non c’è più una Francia con cui tentare di accordarsi, né un’Austria – né un papa. Nulla.

 

La realtà è che l’Europa tutta è divenuta una… Giovine Europa. L’idea massonico mazziniano, prima nazionalista e poi euronazionalista, è ipostatizzato nella UE, che quindi verso la Russia non può che avere la medesima postura di Londra: capiamolo, la matrice degli avversari di Mosca, spirituale prima che geopolitica, è la medesima.

 

Questa è, credo, la struttura profonda della crisi attuale.

 

È partita dal rifiuto dello spirito dell’Italia. È continuata con la cancellazione dello spirito dall’Europa: il vecchio continente perde l’anima, la vende. E, con ostinazione, il disastro di queste ore si riflette nella guerra eterna lanciata contro la Russia, dove forse invece l’anima ha ancora importanza.

 

I responsabili sono sempre i soliti. Loro l’anima non ce l’hanno più, programmaticamente. L’hanno venduta, o forse peggio: l’hanno data ad un demone che ha promesso loro, secoli fa, ori e terre lontane, il dominio sui mari e sui cuori innocenti.

 

Capiranno che sono stati ingannati?

 

Capiranno la loro maledizione?

 

Capiranno i secoli di devastazione che hanno inflitto all’umanità?

 

Capiranno che «l’idea dell’unione di tutto il mondo» di cui parla Dostoevskij, non è la loro, ma quella di quello Spirito immortale che, sempre più provocato nell’ira, potrebbe spazzarli via per sempre?

 

 

Roberto Dal Bosco

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Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

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I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.

 

L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.

 

Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.

 

Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.

 

Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.

 

Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.

 

Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.

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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.

 

Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.

 

Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.

 

Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.

 

Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.

 

I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.

 

Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».

 

Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.

 

Patrizia Fermani

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Putin: il futuro risiede nella «visione sovrana del mondo»

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Le nazioni devono basarsi sulle proprie tradizioni storiche e spirituali, oltre che su una «visione sovrana del mondo», mentre plasmano il loro avvenire, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin in un messaggio scritto ai partecipanti del II Simposio Internazionale «Inventare il Futuro» a Mosca. L’evento, in programma il 7 e 8 ottobre, accoglierà oltre 7.000 partecipanti provenienti da quasi 80 Paesi.   Discussioni aperte e innovative sul futuro dell’umanità supportano i governi nel rispondere adeguatamente alle nuove sfide, ha osservato il presidente russo. «Le conclusioni e i risultati di un dialogo così profondo e sostanziale sono di grande valore», ha aggiunto Putin. «Sono fiducioso che dobbiamo creare il nostro futuro sulla base di una visione del mondo sovrana».   Promosso su iniziativa del presidente russo, il simposio comprende circa 50 eventi, organizzati in tre aree tematiche: società, tecnologia e cooperazione globale. Il forum ospiterà oltre 200 relatori provenienti da Russia, Cina, Stati Uniti, Italia e da Paesi di Africa, America Latina, Medio Oriente e Sud-est asiatico, che discuteranno di temi che spaziano dalle sfide demografiche all’intelligenza artificiale (IA) e all’esplorazione spaziale.

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Nel primo giorno del simposio si è svolta una tavola rotonda incentrata sul futuro delle tecnologie di intelligenza artificiale e sul loro potenziale di diventare non solo uno strumento professionale di nicchia, ma una base per un’infrastruttura globale e un nuovo «linguaggio della realtà» per governi e imprese private.   Un altro dibattito tenutosi martedì si è concentrato sulle prospettive di collaborazione tra Russia e Africa nei prossimi decenni, fino al 2063. Mosca mira a rafforzare i legami con il continente, promuovendo attivamente la condivisione di tecnologie con le nazioni africane, contribuendo a garantire la sicurezza regionale e sostenendo la sovranità degli attori locali, oltre a favorire un approccio più equo nelle relazioni internazionali.   Al forum del Club Valdai, a Sochi, giorni prima Putin aveva parlato dei «valori tradizionali» anche in merito alla «disgustosa atrocità» dell’assassinio di Charlie Kirk.   «Sapete, questa disgustosa atrocità, e ancora di più, dal vivo», ha detto Putin a un forum organizzato dal Valdai Discussion Club a Sochi, in Russia. «In effetti, l’abbiamo vista tutti, ma non so, è davvero disgustoso. Era orribile». «Prima di tutto, naturalmente, porgo le mie condoglianze alla famiglia del signor Kirk e a tutti i suoi cari», ha continuato il leader russo. «Siamo solidali e solidali, soprattutto perché ha difeso quei valori tradizionali».   Putina aveva aggiunto che la sparatoria mortale è il segno di una «profonda frattura nella società», secondo Reuters. «Negli Stati Uniti, non credo ci sia bisogno di aggravare la situazione all’esterno, perché la leadership politica del Paese sta cercando di ristabilire l’ordine a livello nazionale», ha affermato Putin.

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La questione di Heidegger

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Negli scorsi mesi è scoppiata sul quotidiano La Verità una bizzarra diatriba riguardo ad un pensatore finito purtroppo per essere centrale nel nostro panorama filosofico accademico, Martin Heidegger (1889-1976), già noto per la collaborazione con il nazismo e per l’adulterio consumato con la celebre ebrea Hannah Arendt, all’epoca sua studentessa, e da alcuni, per qualche ragione, considerato come un filosofo «cattolico».

 

Un articolista con fotina antica a nome Boni Castellane (supponiamo si chiami Bonifazio, ma lo si trova scritto così, con il diminutivo, immaginiamo) ha cominciato, con un pezzo importante, a magnificare le qualità dell’Heidegger lo scorso 17 agosto:«Omologati e schiavi della Tecnologia – Heidegger ci aveva visti in anticipo».

 

Giorni dopo, aveva risposto un duo di autori, tra cui Massimo Gandolfini, noto, oltre che la fotina con il sigaro, per aver guidato (per ragioni a noi sconosciute) eventi cattolici di odore vescovile, che come da programma non sono andati da nessuna parte, se non verso la narcosi della dissidenza rimasta e il compromesso cattolico. Sono seguite altri botta e risposta sul ruolo del «sacro» secondo l’Heideggerro e la sua incompatibilità con il cristianesimo.

 

Il Gandolfini e il suo sodale scrivono, non senza ragione, che «il dio a cui si riferisce Heidegger non è il nostro». Una verità non nota agli intellettuali cattolici che, in costante complesso di inferiorità nei confronti del mondo, hanno iniziato ad importare il pensatore tedesco dalle Università italiane – dove ha tracimato, dopo un progetto di inoculo sintetico non differente da quello avutosi con Nietzsche – per finire addirittura nei seminari.

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Il progetto, spiegava anni fa Gianni Collu al direttore di Renovatio 21, era del tutto identico a quello visto con Nietzsche, recuperato dall’ambito della cultura nazista, purgato nell’edizione Adelphi di Giorgio Colli e Mazzino Montinari – la cura dell’opera omnia nicciana arriva prima in italiano che in tedesco! – e servito alla massa del ceto medio riflessivo italiota, e mondiale, per distoglierlo dal marxismo e introdurre elementi di irrazionalismo e individualismo nichilista nella vita del popolo – di lì all’esoterismo di massa, il passo diventa brevissimo.

 

Con Heidegger si è tentato un lavoro simile, ma Collu aveva profetizzato allo scrivente che stavolta non avrebbe avuto successo, perché era troppo il peso del suo legame con l’hitlerismo, e troppa pure la cifra improponibile del suo pensiero. Di lì a poco, vi fu lo scandalo dei cosiddetti «Quaderni neri», scritti ritenuti inaccettabili che improvvisamente sarebbero riemersi – in verità, molti sapevano, ma il programma di heidegerizzare la cultura (compresa quella cattolica) imponeva di chiudere un occhio, si vede. Fu ad ogni modo divertente vedere lo stupore di autori e autrici che avevano dedicato una buona porzione della carriera allo Heidegger – specie se di origini ebraiche.

 

L’incompatibilità di Heidegger – portatore di una filosofia oscura e disperata – con il cattolicesimo è, comunque, totale. Di Heidegger non vanno solo segnalati i pericoli, va combattuto interamente il suo pensiero, che altro non è se non un ulteriore sforzo per eliminare la metafisica, e quindi ogni prospettiva non materiale – cioè spirituale – per l’uomo.

 

Molto vi sarebbe da dire sul personaggio, anche a partire dal suo dramma biografico. Lasciamo qui la parola al professor Matteo D’Amico, che ha trattato il tema dell’influenza di Heidegger nel mondo cattolico, e la difformità di questo personaggio e del suo pensiero, in un intervento al Convegno di studi di Rimini della Fraternità San Pio X nel 2017.

 

 

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Immagine di Landesarchiv Baden-Württemberg, Staatsarchiv Freiburg W 134 Nr. 060680b / Fotograf: Willy Pragher via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

 

 

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