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Politica

Aborto, Trump ha incoraggiato Melania a «scrivere ciò in cui crede» nel suo libro. La manovra elettorale continua

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L’ex presidente e attuale candidato repubblicano alla presidenza Donald Trump ha dichiarato giovedì di aver dato la sua benedizione alla moglie Melania Trump affinché sostenga il «diritto fondamentale» all’aborto nelle sue prossime memorie.

 

La notizia ulteriore sull’accaduto arriva in un momento in cui i rapporti tra la lista del Partito Repubblicano e la base pro-life del partito sono già piuttosto tesi.

 

All’inizio di questa settimana era stato pubblicato un estratto anticipato del libro dell’ex First Lady , in cui dichiara che «il diritto fondamentale di una donna alla libertà individuale, alla propria vita, le garantisce l’autorità di interrompere la gravidanza se lo desidera. Limitare il diritto di una donna di scegliere se interrompere una gravidanza indesiderata equivale a negarle il controllo sul proprio corpo».

 

Dopo le reazioni di disapprovazione di vari sostenitori della vita, il giornalista di Fox News Bill Melugin aveva chiesto spiegazioni all’ex presidente in un’intervista andata in onda giovedì.

 

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«Ne abbiamo parlato. E ho detto, dovete scrivere ciò in cui credete», ha detto Trump. «Non ti dirò cosa fare. Devi scrivere ciò in cui credi. È molto amata, la nostra ex First Lady, posso dirvelo».

 

«Ma ho detto che doveva seguire il suo cuore. L’ho detto a tutti, dovete seguire il vostro cuore», ha continuato, riecheggiando un ritornello comune che ha usato nei suoi appelli per stupro, incesto ed eccezioni mediche alle leggi pro-life. «Ci sono alcune persone che sono molto, molto di destra sulla questione, cioè senza eccezioni, e poi ci sono altre persone che la vedono in modo un po’ diverso».

 

La dichiarazione pro-aborto della signora Trump era arrivata la stessa settimana in cui suo marito, con un post sui social scritto tutto in lettere maiuscole quasi fosse un antico attivista grillino, aveva chiarito che «non avrebbe sostenuto un divieto federale sull’aborto, in nessuna circostanza, e, di fatto, avrebbe posto il veto».

 


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La dichiarazione segnala la costante trasformazione della sua posizione sull’aborto rispetto alla sua campagna del 2016 e al suo primo mandato.

 

Trump ora si oppone a ulteriori azioni federali sull’aborto, sostiene la distribuzione delle pillole abortive per posta e ha criticato gli stati per i divieti di aborto eccessivamente «duri». Attraverso questo lavoro, si è preso il merito di aver reso il Partito Repubblicano «meno radicale» sull’aborto, anche riscrivendo la piattaforma nazionale del partito per riflettere la sua posizione più liberale.

 

«La svolta di sinistra di Trump sull’aborto ha angosciato molti pro-life, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua vittoria del 2016, scatenando un dibattito tra molti sulla possibilità di votare o astenersi alle elezioni di novembre» scrive LifeSite. «Allo stesso tempo, tuttavia, le divergenze tra Trump e i democratici su questioni come la “transizione” dei minori con incertezze di genere e l’agenda politica di estrema sinistra dei democratici gli garantiscono un continuo sostegno tra molti conservatori e repubblicani».

 

L’avversaria di Trump, la vicepresidente democratica Kamala Harris, si candida con una piattaforma assolutista per l’aborto su richiesta che include il finanziamento dell’aborto da parte dei contribuenti, opponendosi a qualsiasi limite alla pratica, firmando una legge che obbliga tutti i 50 stati a consentire nuovamente l’aborto e, più di recente, abolisce l’ostruzionismo del Senato per ottenere che una legge del genere finisca sul tavolo.

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Nei suoi discorsi, la vicepresidente Harris ha iniziato a promuovere l’aborto come una normale procedura da eseguire per qualsiasi motivo una donna voglia, come sbarazzarsi di un bambino che interferirebbe con i suoi piani di carriera.

 

Come già scritto da Renovatio 21, è piuttosto certo che l’uscita di Melania – che è davvero abortista, oltre che filo-LGBT – rappresenta una manovra politica per recuperare voti non solo a sinistra (dove ora la campagna può osare, grazie all’agglutinamento dell’elettorato di Robert F. Kennedy jr. e dell’ex democratica Tulsi Gabbard, ambedue abortisti) ma anche presso certo elettorato «suburbano» di donne borghesi, il cui supporto si pensa sia sparito dopo la sentenza della Corte Suprema Dobbs v. Jackson che tre anni fa ha defederalizzato l’interruzione di gravidanza, cagionando – secondo un’analisi di vari osservatori – un’emorragia di voti per il Partito Repubblicano che ha portato alla mezza sconfitta delle elezioni midterm 2022, quando invece tutti attendevano una red wave, ossia uno tsunami di voti repubblicani che avrebbero fatto conquistare al Grand Old Party Camera e Senato.

 

La Melania abortista, secondo il nostro ragionamento, è l’esca, la garanzia per far tornare a casa quei voti, nella certezza che i cattolici, nonostante qualcuno che fa la voce grossa, non molleranno Trump.

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Immagine di Marc Nozell via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0

 

 

 

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Politica

Musk si pente per gli attacchi a Trump, che dice di poterlo perdonare

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Elon Musk ha affermato di essere andato «troppo oltre» con alcuni dei suoi recenti post sui social media che prendevano di mira il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. I due si sono scambiati minacce e insulti online la scorsa settimana, in una lite che è stata ampiamente considerata la fine del loro «bromance», termine americano per definire una storia di intensa amicizia tra uomini.   «Mi pento di alcuni dei miei post sul presidente Donald Trump della scorsa settimana. Sono andati troppo oltre», ha detto Musk sul suo account X mercoledì mattina presto.  

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Musk non ha chiarito a quale dei suoi post si riferisse. I media hanno suggerito che i suoi collaboratori e la Casa Bianca siano impegnati in comunicazioni riservate volte ad allentare le tensioni.   Musk afferma di aver sponsorizzato la corsa di Trump per un secondo mandato alla Casa Bianca con centinaia di milioni di dollari, cifra che, a suo dire, è stata cruciale per la vittoria del candidato repubblicano lo scorso novembre, accusando il presidente di «ingratitudine». Dopo l’insediamento, Trump ha nominato Musk a capo del neonato Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE), con il compito di ridurre gli sprechi nella spesa pubblica.   Nelle ultime settimane, tuttavia, l’imprenditore tecnologico si è fatto notare come un acceso critico del cosiddetto Big Beautiful Bill («grande, bellissimo disegno di legge») di Trump , che richiede l’approvazione del Congresso per finanziare le priorità politiche del secondo mandato del presidente. Musk ha bollato la proposta come «piena di frode» e ha affermato che rinnega la promessa elettorale di ridurre il debito federale.   La scorsa settimana Trump ha affermato che Musk si opponeva al disegno di legge per interesse personale, scatenando una raffica di post sempre più ostili tra i due. Il presidente ha definito Musk «pazzo», mentre il miliardario della tecnologia ha accusato Trump di essere complice dei reati sessuali commessi dal defunto finanziere e pedofilo condannato Jeffrey Epstein. Musk ha poi cancellato il post.  
  Musk non ha specificato quale dei suoi post precedenti considerasse ora deplorevole. I media hanno suggerito che i suoi collaboratori e la Casa Bianca stessero collaborando a comunicazioni riservate nel tentativo di allentare le tensioni. Trump ha dichiarato pubblicamente di non essere interessato a contatti diretti con Musk, ma in seguito è sembrato attenuare la sua retorica nei confronti dell’imprenditore.   Nelle scorse ore Trump ha dichiarato che potrebbe perdonare Elon Musk dopo la lite. In un’intervista pubblicata mercoledì dal New York Post, Trump ha dichiarato: «Non provo rancore. Ma sono rimasto davvero sorpreso che ciò sia accaduto».   Il presidente ha definito il disegno di legge «fenomenale» e si è detto deluso dalla risposta di Musk. «Quando lo ha fatto, non ero affatto contento». Alla domanda se potesse perdonare Musk, Trump ha risposto: «Credo di sì», aggiungendo che ora si sta concentrando su come «rimettere in sesto il Paese».   Mercoledì mattina, durante una chiamata di follow-up con il Post, Trump ha risposto alle domande sulle scuse: «Ho pensato che fosse molto carino che lui (Musk) l’avesse fatto».

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr  
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Politica

Violenza e guerriglia a Los Angeles. Finito il manuale delle rivoluzioni colorate: trappola di sangue per Trump?

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La città di Los Angeles è stata messa a ferro e fuoco, da giorni da torme mascherate che sventolano bandiere messicane, vestiario antifa e talvolta simboli di Hamas. Si tratta di una rivoluzione colorata: o meglio, di un capitolo ulteriore del manuale di regime-change che il deep state americano ha inflitto a popolazioni in tutto il mondo.

 

L’idea che ricaviamo è che disperazione di non riuscire a scalfire in alcun modo Trump – la cui unica opposizione nelle ultime ore sembra essere divenuta Elon Musk – sono giunti alla violenza pura e semplice, con la speranza che la reazione di Washington, che sta mandando truppe della Guardia Nazionale e dei Marines, possa sfociare in un bagno di sangue capace di erodere il potere del presidente.

 

I fatti: sabato proteste anti-ICE (l’ente di controllo dell’immigrazione USA) sono sfociate in violenti scontri a Paramount, dove la folla si è radunata vicino a un Home Depot, un punto vendita di una grande catena di distribuzione di mobili e arredo. L’ICE ha dichiarato che non è avvenuto alcun raid nel grande magazzino, ma il personale della Border Patrol e gli agenti dello sceriffo della contea di Los Angeles sono stati costretti a usare gas lacrimogeni e «proiettili non letali» dopo che la folla in protesta si è scontrata con gli agenti.

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Scontri simili si sono verificati venerdì, quando l’ICE ha condotto tre raid a Los Angeles, che hanno portato a 44 arresti amministrativi.

 

Il governatore della California Gavin Newsom ha dichiarato di aver schierato sabato gli agenti della California Highway Patrol (CHP) per «garantire la sicurezza sulle autostrade di Los Angeles e mantenere la pace», ma ha sottolineato: «con è compito della CHP assistere nell’applicazione delle leggi federali sull’immigrazione».

 

«Il governo federale sta seminando il caos per avere una scusa per intensificare la tensione. Non è questo il comportamento di nessun Paese civile», ha detto Newsom.

 

 

 

 

 

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Il Newsom (già belloccio sindaco democratico di San Francisco, uomo legato alla famiglia di petrolieri Getty, il cui padre aiutò nel pagamento del riscatto alla ‘Ndrangheta per il rampollo rapito a Roma) ha criticato la decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di inviare truppe della Guardia Nazionale a Los Angeles, definendo l’azione «volutamente provocatoria» e avvertendo che avrebbe portato a un’escalation.

 

La Casa Bianca ha affermato che il dispiegamento è avvenuto dopo due giorni di proteste e aggressioni al personale dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) statunitense durante le operazioni di immigrazione nella California meridionale. Trump ha sostenuto che i funzionari californiani non erano riusciti a controllare i disordini e che il governo federale sarebbe intervenuto per ristabilire l’ordine.

 

In un post su X, Newsom ha incoraggiato i dimostranti a continuare a «parlare pacificamente» e ha messo in guardia dal «ricorrere alla violenza». «Il governo federale sta prendendo il controllo della Guardia Nazionale della California e sta schierando 2.000 soldati a Los Angeles, non perché ci sia carenza di forze dell’ordine, ma perché vogliono uno spettacolo», ha detto. «Non dategliene uno».

 

Nelle ultime ore, Trump, che ha definito la ridda di violenti come «insurrezionisti pagati», ha invitato il capo dell’ICE Tom Homan ad arrestare il governatore Newsom per favoreggiamento e complicità di bande insurrezionaliste che ora stanno bruciando Los Angeles. Newsom, a questo punto, ha sfidato la Casa Bianca.

 

 

I funzionari federali hanno criticato il dipartimento di polizia di Los Angeles per aver impiegato più di due ore per rispondere ai disordini avvenuti in un edificio federale venerdì sera. «La violenza con cui i rivoltosi senza legge prendono di mira le forze dell’ordine a Los Angeles è spregevole», ha affermato il vicesegretario del DHS Tricia McLaughlin.

 

Nel frattempo, lo sceriffo della contea di Los Angeles, Robert Luna, ha dichiarato che il suo dipartimento ha supportato i colleghi dopo che gli agenti federali sono stati attaccati sabato. «Alla fine, la folla è cresciuta fino a raggiungere tra le 350 e le 400 persone, e alcune hanno iniziato a lanciare oggetti contro gli agenti», ha detto Luna ai giornalisti in merito allo scontro a Paramount.

 

Domenica i rivoltosi hanno attaccato l’autostrada, bloccando il traffico losangeleno, noto per essere molto caotico e attaccando con violenza la polizia. Le riprese girate da giornalisti indipendenti locali mostrano una folla di agitatori radunarsi nel centro della città, sulla superstrada 101, dopo che la polizia locale era stata invasa. Le sassaiole e lanci incendiari contro i poliziotti mostrano intenti di violenza espliciti.

 

 

 

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Un altro video girato circolante mostra un uomo che si piazza davanti a un’auto della polizia di Los Angeles prima di essere allontanato da agenti in tenuta antisommossa che utilizzavano munizioni non letali per disperdere la folla. Secondo il reporter Anthony Cabassa a questo punto i dimostranti sarebbero diventati «decine di migliaia»: «È il numero più alto di manifestanti che abbia mai visto da anni» ha dichiarato.

 

 

 

Incendiati anche i robotaxi della società Waymo operanti a Los Angeles. Un fenomeno, quello dei taxi autonomi dai alle fiamme, che avevamo già veduto nella non lontanissima a San Francisco.

 

 

«L’ordine verrà ripristinato, gli immigrati clandestini verranno espulsi», ha scritto Trump nel suo post di domenica sera su Truth Social. Sempre domenica, Trump si è schierato al fianco del Segretario di Stato Marco Rubio e ha dichiarato alla stampa che i funzionari della California saranno accusati se ostacoleranno le forze dell’ordine.

 

«Non permetteremo che questo accada al nostro Paese. Non lasceremo che il nostro Paese sia distrutto sotto Biden e la sua autopen» ha dichiarato Trump.

 

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Nel frattempo, il governatore Newsom, il sindaco Bass e il dipartimento di polizia di Los Angeles stanno minimizzando le proteste, definendole un eccesso di potere da parte della federazione nel mezzo di proteste «pacifiche» tra l’Immigration and Customs Enforcement (ICE) e i dimostranti, dopo che gli agenti dell’ICE hanno effettuato numerosi controlli sull’immigrazione in tutta la contea. Il procuratore generale della California, Rob Bonta, ha dichiarato: «non c’è alcuna emergenza e l’ordine del Presidente di convocare la Guardia Nazionale è inutile e controproducente».

 

In pratica, si prepara la narrativa per cui almeno una parte dell’America (pompata dai grandi media, dall’opposizione politica, e ad un certo punto da governi stranieri ed enti transnazionali) potrà gridare al massacro, alla persecuzione, al fascismo, all’Olocausto. L’ultima trappola per Trump, del quale sono totalmente incapaci di intaccare potere e popolarità.

 

Il manuale del regime-change, delle rivoluzioni colorate che abbiamo visto ovunque, dalla Serbia al Kirghizistan, dalla Georgia all’Egitto, ha finito le pagine: ne stanno iniziando un capitolo nuovo, fatto di guerra civile, innescata, come spesso accade, da un supposto massacro di innocenti.

 

I media mainstream, facendo eco a tutti i politici democratici inclusa Hillary Clinton, stanno appositamente parlando di «proteste pacifiche»: «solo un gruppo di persone a cui piace guardare le auto che bruciano» ha detto un giornalista di ABC7, assicurando che solo l’intervento militare può far degenerare la situazione.

 

 

«Non è una vera rivolta» ha assicurato sempre sul canale sommamente antitrumpiano CNN Dana Bash.

 

 

Come per i mattoni che si materializzavano nei percorsi delle proteste di Black Lives Matter, anche qui saltano fuori forniture interessanti, come caschi antiurto nuovissimi elargiti alle masse in protesta. A dimostrazione che si tratta di violenza architettata, finanziata, e spinta dall’alto.

 

 

Pile di mattoni in strada pronti all’uso, tuttavia, sono comparsi anche a Los Angeles.

 

 

Sempre come ai tempi di BLM, ecco le razzie nei negozi, azioni che tanto aiutano la causa immigrata.

 

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Va valutata anche la posizione del governo messicano, visto il tripudio di bandiere tricolori nel disastro. Nel fine settimana, il presidente Claudia Sheinbaum ha minacciato che se Trump dovesse imporre una tassa sulle rimesse, come previsto dal suo Big Beautiful Bill, «ci mobiliteremo» contro.

 

«Se necessario, ci mobiliteremo. Non vogliamo tasse sulle rimesse dei nostri connazionali dagli Stati Uniti al Messico» ha detto Sheinbaum. Una minaccia vaga, ma che diviene chiara con la visione con tutto quello che sta succedendo a Los Angeles.

 

La Sheinbaum sembra dire che i cittadini messicani negli Stati Uniti, legalmente e illegalmente, sono agenti del governo messicano, una quinta colonna, se vogliamo, e possono essere attivati ​​contro il governo degli Stati Uniti, anche con la violenza, se fa cose che al governo messicano non piacciono?

 

 

Una giornalista è arrivata a dire sulla CNN che «La California faceva parte del Messico, tutto il Sud-Ovest è Messico».

 

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Non è chiaro il messaggio dei rivoltosi con la bandiera messicana: se sostengono quel Paese, perché non vi sono rimasti? La realtà è che – lo avevamo visto già nelle prime proteste dopo la seconda elezione di Trump – il Messico è divenuto simbolo di un potere terzomondista che può abbattere la società americana (e occidentale, per estensione), bianca e «patriarcale». Lo stesso è possibile dire dei confusi simboli palestinesi e di Hamas visibili nei tumulti.

 

Il fatto che vengano fatte garrire tra il fumo e le fiamme bandiere di un Paese da cui proviene tanta immigrazione (legale ma soprattutto, negli anni di Biden, illegale) dimostra, in realtà, la necessità delle deportazioni di massa, il programma di remigrazione totale attuato immediatamente dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Trump.

 

Al contempo, l’uso di manovalanza messicana mostra che il deep state sobillatore ha fatto il lavoro frettolosamente, senza preoccuparsi di dare così munizioni all’avversario. Con evidenza, devono fare rapidamente.

 

Vari esponenti democratici in molte altre città americane stanno soffiando sul fuoco, ammiccando alla rivolta. Il nuovo capitolo del libro di istruzioni per le rivoluzioni colorate sembra tendere direttamente ad uno scenario drammatico: la guerra civile. Le scene di Los Angeles, del resto, proprio quello sembrano: una guerra civile americana, con una parte della popolazione pronta a ricorrere alla violenza contro le stesse autorità per far valere le loro ragioni (che sono quelle antinazionali dell’immigrazioni massiva).

 

 

Come riportato da Renovatio 21, della guerra civile, in ispecie nel dopo-2020, si è parlato tantissimo, con ammiccamenti significativi anche da parte dell’élite. Tuttavia il momento potrebbe essere arrivato: le rivolte BLM cinque anni fa servirono per far eleggere Biden, ora, senza più alcuna carta da giocare, l’establishment può optare per la creazione di uno scontro molto più cruento, sempre con il medesimo intento di detronizzare l’intruso alla Casa Bianca, Donald J. Trump.

 

Ora c’è da vedere come risponderà il biondo del Queens. Il quale, oltre a mandare l’esercito – e chissà, forse ad una certa pure le forze speciali, che aveva promesso avrebbe dispiegato contro i narcocartelli appunto messicani – ad inizio mandato aveva lasciato intendere, anche se con meno voce rispetto alla questione del Canada e della Groenlandia, una possibile annessione del Messico.

 

Sappiamo quanto l’uomo ami sorprendere. Sappiamo pure quanto il potere profondo non sappia in alcun modo leggerlo ed anticiparlo – di qui la titillazione della violenza in strada.

 

Stiamo a vedere: più che la Los Angeles messicana rivendicata da rivoltosi e media mainstream, The Donald potrebbe apparecchiare al mondo lo spettacolo di un Messico americano.

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Politica

«Dobbiamo unirci tutti» attorno ai valori musulmani: parla il nuovo premier canadese Mark Carney

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l primo ministro canadese Mark Carney è stato duramente criticato per aver recentemente affermato che i «valori musulmani» sono «valori canadesi», con molti che hanno sottolineato che il Canada è una nazione fondata dai cristiani, non dall’Islam.   Il 6 giugno, Carney ha tenuto un discorso a Ottawa durante la celebrazione dell’Eid al-Adha organizzata dall’Associazione Musulmana del Canada (MAC). Nel suo discorso, Carney ha affermato che «gli insegnamenti e i valori dell’Eid sono gli stessi», aggiungendo: «il nostro Canada è un Paese eterogeneo, orgoglioso di ospitare diverse credenze».   «Possiamo pregare in modo diverso, possiamo riunirci in luoghi di culto diversi, ma tutti noi ci uniamo, tutti noi dobbiamo unirci, attorno ai valori dell’Eid», ha detto Carney.

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«I valori della comunità, della generosità e sì, del sacrificio. Questi sono valori musulmani, questi sono valori canadesi», ha detto ai presenti.   Le parole di Carney sono state subito pubblicate sui social media, e molti utenti hanno sottolineato che il Canada non è una nazione fondata sull’Islam, bensì sul Cristianesimo.   «I valori islamici non sono valori canadesi. E non c’è niente di bigotto nel dirlo», ha scritto la nota giornalista canadese Rupa Subramanya.   Un altro utente X ha affermato che Carney, che si identifica come cattolico e frequenta la messa domenicale nonostante le sue posizioni radicali pro-aborto e pro-LGBT, non ha potuto nemmeno menzionare «il nome di Gesù Cristo» a Pasqua, ma è felice di promuovere un’altra religione.   «A Pasqua non riusciva nemmeno a pronunciare il Nome di Gesù Cristo e si è inventato la ridicola idea che la festa servisse a celebrare i nuovi inizi (perché è primavera?) e poi ha dipinto le uova. Sappiamo tutti perché», ha commentato un altro utente X.   Un utente di X ha sottolineato che il Canada è stato fondato da missionari cristiani provenienti dall’Europa, che giunsero nel Paese insieme ai francesi e agli inglesi.   Sotto il governo progressista targato Davos del primo ministro Justin Trudeau, il Canada ha accolto un numero record di immigrati, molti dei quali provenienti da nazioni musulmane.   «Il Canada non è stato fondato sulla religione musulmana, né sull’induismo o su qualsiasi altra religione pagana. Il Canada è stato fondato sul cristianesimo, è stato fondato dai francesi e dagli inglesi e siamo per discendenza una nazione cristiana dell’Europa occidentale», ha commentato un utente X in merito ai commenti di Carney.   Il Canada è storicamente una nazione fondata su ideali e principi cristiani. I coloni europei che giunsero in Canada dalla Francia e, in seguito, da quello che oggi è il Regno Unito, erano cristiani e tra questi c’erano anche missionari che cercarono di diffondere la fede cristiana alle popolazioni indigene locali.   Secondo i documenti storici, il Canada festeggia il Natale fin dal 1641, ben prima della sua fondazione ufficiale.

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Come riportato da Renovatio 21, negli ultimi anni abbiamo visto almeno un centinaio di chiese incendiate in Canada.   Dalla primavera del 2021, ben oltre 100 chiese, la maggior parte cattoliche, ma tutte cristiane, sono state bruciate o vandalizzate in tutto il Canada. Tali attacchi alle chiese sono avvenuti poco dopo la scoperta di tombe anonime in  scuole residenziali ora chiuse, un  tempo gestite dalla Chiesa in alcune parti del Canada, nella primavera dello scorso anno, uno scandalo anticlericale in realtà già smontato come bufala da tempo, al quale tuttavia ha dato nuova vita la visita di Bergoglio nel Paese con annesse scuse e riti di negromanzia pagana con i First Nation, gli indigeni canadesi.   Mark Carney è una figura che rappresenta il mondialismo incarnato. Frequentatore di Davos, canadese che per qualche ragione si dichiara «europeo», è stato governatore della Banca Centrale britannica (Bank of England) – non il suo Stato, ma, certo, la nazione-regina del Commonwealth.   Come riportato da Renovatio 21, Carney a Londra è stato pioniere della questione della CBDC, la moneta elettronica emessa da banca centrale. Nel 2019, prima di pandemia, dedollarizzazione  superinflazione e crash bancari che stiamo vedendo, l’allora governatore della Banca d’Inghilterra Carney ne aveva parlato all’annuale incontro dei banchieri centrali di Jackson Hole, nel Wyoming nel 2019.   Carney sostiene che Ottawa vincerà la guerra commerciale con Trump, che ha più volte suggerito una possibile annessione.

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Immagine di Bank of England via Flickr pubblicata su licenza CC BY-ND 2.0
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