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Civiltà

Stato-civiltà e mondo moderno. Il discorso integrale di Putin al Club Valdai 2023

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Renovatio 21 pubblica il discorso integrale tenuto dal presidente della Federazione Russa Vladimir Putin all’edizione 2023 del Club Valdai. Renovatio 21 ha pubblicato sabato scorso un sunto del discorso e delle risposte che ha dato al pubblico durante uno scambio dal vivo durato quattro ore. I discorsi di Valdai di Putin rivestono sempre un’importanza considerevole. Renovatio 21 ha pubblicato negli scorsi anni la trascrizione del discorso 2022 e 2021.

 

 

Partecipanti alla sessione plenaria, colleghi, signore e signori,

 

Sono lieto di dare il benvenuto a tutti voi a Sochi all’incontro anniversario del Valdai International Discussion Club. Il moderatore ha già detto che questo è il 20° incontro annuale.

 

In linea con le sue tradizioni, il nostro, o dovrei dire il vostro forum, ha riunito leader politici e ricercatori, esperti e attivisti della società civile provenienti da molti paesi del mondo, riaffermando ancora una volta il suo elevato status di piattaforma intellettuale rilevante. Le discussioni di Valdai riflettono invariabilmente i più importanti processi politici globali del XXI secolo nella loro interezza e complessità.

 

Sono certo che anche oggi sarà così, come probabilmente lo è stato anche nei giorni precedenti in cui avete discusso tra voi. Resterà così anche in futuro perché il nostro obiettivo è fondamentalmente quello di costruire un mondo nuovo. Ed è in queste fasi decisive che voi, miei colleghi, avete un ruolo estremamente importante da svolgere e avete una responsabilità speciale come intellettuali.

 

Nel corso degli anni di lavoro del club, sia la Russia che il mondo hanno visto cambiamenti drastici, e persino drammatici, colossali. Vent’anni non sono un periodo lungo per gli standard storici, ma in epoche in cui l’intero ordine mondiale si sta sgretolando, il tempo sembra ridursi.

 

Penso che sarete d’accordo sul fatto che negli ultimi vent’anni si sono verificati più eventi che nei decenni in alcuni periodi storici precedenti, e sono stati i grandi cambiamenti a dettare la trasformazione fondamentale dei principi stessi delle relazioni internazionali.

 

All’inizio del XXI secolo, tutti speravano che gli Stati e i popoli avessero imparato la lezione dei costosi e distruttivi scontri militari e ideologici del secolo precedente, vedendone la nocività, la fragilità e l’interconnessione del nostro pianeta, e comprendendo che i problemi globali del l’umanità richiede un’azione congiunta e la ricerca di soluzioni collettive, mentre l’egoismo, l’arroganza e il disprezzo per le sfide reali porterebbero inevitabilmente a un vicolo cieco, proprio come i tentativi dei paesi più potenti di imporre le proprie opinioni e interessi a tutti gli altri. Questo dovrebbe essere diventato ovvio per tutti. Avrebbe dovuto, ma non è stato così. Non è così.

 

Quando ci siamo incontrati per la prima volta alla riunione del club quasi 20 anni fa, il nostro Paese stava entrando in una nuova fase del suo sviluppo. La Russia usciva da un periodo di convalescenza estremamente difficile dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Abbiamo lanciato energicamente e con buona volontà il processo di costruzione di un nuovo ordine mondiale, che consideravamo più giusto. È un vantaggio che il nostro Paese possa dare un enorme contributo perché abbiamo cose da offrire ai nostri amici, ai partner e al mondo nel suo insieme.

 

Purtroppo il nostro interesse per un’interazione costruttiva è stato frainteso, visto come obbedienza, come un accordo secondo cui il nuovo ordine mondiale sarebbe stato creato da coloro che si erano dichiarati vincitori della Guerra Fredda. È stato visto come un’ammissione che la Russia era pronta a seguire la scia degli altri e a lasciarsi guidare non dai nostri interessi nazionali ma da quelli di qualcun altro.

 

Nel corso di questi anni, abbiamo avvertito più di una volta che questo approccio non solo avrebbe portato a un vicolo cieco, ma che sarebbe stato irto della crescente minaccia di un conflitto militare. Ma nessuno ci ha ascoltato né ha voluto ascoltarci. L’arroganza dei nostri cosiddetti partner occidentali ha raggiunto le stelle. Questo è l’unico modo in cui posso dirlo.

 

Gli Stati Uniti e i suoi satelliti hanno intrapreso un percorso costante verso l’egemonia negli affari militari, nella politica, nell’economia, nella cultura e persino nella morale e nei valori. Fin dall’inizio ci è stato chiaro che i tentativi di instaurare un monopolio erano destinati a fallire.

 

Il mondo è troppo complicato e diversificato per essere soggetto a un unico sistema, anche se è sostenuto dall’enorme potere dell’Occidente accumulato in secoli di politica coloniale. Anche i vostri colleghi – molti di loro oggi sono assenti, ma non negano che la prosperità dell’Occidente è stata ottenuta in larga misura saccheggiando le colonie per diversi secoli. Questo è un fatto. Essenzialmente, questo livello di sviluppo è stato raggiunto derubando l’intero pianeta.

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La storia dell’Occidente è essenzialmente la cronaca di un’espansione infinita. L’influenza occidentale nel mondo è un immenso schema piramidale militare e finanziario che ha costantemente bisogno di più «carburante» per sostenersi, con risorse naturali, tecnologiche e umane che appartengono ad altri. Questo è il motivo per cui l’Occidente semplicemente non può e non intende fermarsi. I nostri argomenti, ragionamenti, appelli al buon senso o proposte sono stati semplicemente ignorati.

 

L’ho detto pubblicamente sia ai nostri alleati che ai nostri partner. C’è stato un momento in cui ho semplicemente suggerito: forse dovremmo aderire anche noi alla NATO? Ma no, la NATO non ha bisogno di un Paese come il nostro. No. Voglio sapere, di cos’altro hanno bisogno? Pensavamo di essere diventati parte della folla, di aver messo piede nella porta. Cos’altro avremmo dovuto fare? Non c’era più alcun confronto ideologico. Quale era il problema? Immagino che il problema fossero i loro interessi geopolitici e l’arroganza verso gli altri. La loro autoesaltazione era ed è il problema.

 

Siamo costretti a rispondere alla pressione militare e politica sempre crescente. Ho detto molte volte che non siamo stati noi a dare inizio alla cosiddetta «guerra in Ucraina». Al contrario, stiamo cercando di porvi fine.

 

Non siamo stati noi a orchestrare un colpo di stato a Kiev nel 2014 – un colpo di stato sanguinoso e anticostituzionale. Quando [fatti simili] accadono in altri luoghi, sentiamo subito tutti i media internazionali – soprattutto quelli subordinati al mondo anglosassone, ovviamente – che questo è inaccettabile, questo è impossibile, questo è antidemocratico. Ma il colpo di stato di Kiev era accettabile. Hanno anche citato la quantità di denaro spesa per questo colpo di stato. Tutto era improvvisamente accettabile.

 

A quel tempo, la Russia fece del suo meglio per sostenere il popolo della Crimea e di Sebastopoli. Non abbiamo cercato di rovesciare il governo o di intimidire la popolazione in Crimea e Sebastopoli, minacciandola di pulizia etnica nello spirito nazista.

 

Non siamo stati noi a cercare di costringere il Donbass a obbedire con bombardamenti e bombardamenti. Non abbiamo minacciato di uccidere chiunque volesse parlare la propria lingua madre.

 

Guardate, qui sono tutti persone informate ed istruite. Potrebbe essere possibile – scusate il mio «mauvais ton» – fare il lavaggio del cervello a milioni di persone che percepiscono la realtà attraverso i media. Ma dovete sapere cosa stava succedendo veramente: bombardavano il posto da nove anni, sparando e usando carri armati. Quella è stata una guerra, una vera guerra scatenata contro il Donbass. E nessuno ha contato i bambini morti nel Donbass. Nessuno ha pianto per i morti in altri Paesi, soprattutto in Occidente.

 

Questa guerra, quella che il regime di Kiev ha iniziato con il vigoroso e diretto sostegno dell’Occidente, dura da più di nove anni e l’operazione militare speciale della Russia mira a fermarla. E ci ricorda che i passi unilaterali, indipendentemente da chi li intraprende, porteranno inevitabilmente a ritorsioni. Come sappiamo, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Questo è ciò che fa ogni Stato responsabile, ogni Paese sovrano, indipendente e che si rispetti.

 

Tutti si rendono conto che in un sistema internazionale dove regna l’arbitrarietà, dove tutte le decisioni spettano a coloro che si credono eccezionali, senza peccato e nel giusto, qualsiasi paese può essere attaccato semplicemente perché non piace a un egemone, che ha perso ogni senso di proporzione – e aggiungerei, qualsiasi senso della realtà.

 

Purtroppo dobbiamo ammettere che i nostri omologhi occidentali hanno perso il senso della realtà e hanno oltrepassato ogni limite. Davvero non avrebbero dovuto farlo.

 

La crisi ucraina non è un conflitto territoriale e voglio chiarirlo. La Russia è il Paese più grande del mondo in termini di superficie e non abbiamo alcun interesse a conquistare ulteriore territorio. Abbiamo ancora molto da fare per sviluppare adeguatamente la Siberia, la Siberia orientale e l’Estremo Oriente russo. Questo non è un conflitto territoriale e non un tentativo di stabilire un equilibrio geopolitico regionale. La questione è molto più ampia e fondamentale e riguarda i principi alla base del nuovo ordine internazionale.

 

Una pace duratura sarà possibile solo quando tutti si sentiranno sicuri e protetti, capiranno che le loro opinioni sono rispettate e che esiste un equilibrio nel mondo in cui nessuno può forzare o obbligare unilateralmente gli altri a vivere o comportarsi come piace a un egemone, anche quando è in contraddizione con la sovranità, gli interessi genuini, le tradizioni o i costumi dei popoli e dei Paesi. In un simile accordo, il concetto stesso di sovranità viene semplicemente negato e, purtroppo, gettato nella spazzatura.

 

Chiaramente, l’impegno verso approcci basati sui blocchi e la spinta a portare il mondo in una situazione di continuo confronto «noi contro loro» è una brutta eredità del XX secolo. È un prodotto della cultura politica occidentale, almeno delle sue manifestazioni più aggressive.

 

Per ribadire, l’Occidente – almeno una certa parte dell’Occidente, l’élite – ha sempre bisogno di un nemico. Hanno bisogno di un nemico per giustificare la necessità di un’azione e di un’espansione militare. Ma hanno anche bisogno di un nemico per mantenere il controllo interno all’interno di un certo sistema di questa stessa potenza egemone e all’interno di blocchi come la NATO o altri blocchi politico-militari. Deve esserci un nemico affinché tutti possano radunarsi attorno al «leader».

 

Il modo in cui gli altri Stati gestiscono la propria vita non è affar nostro. Tuttavia, vediamo come le élite al potere in molti di essi stanno costringendo le società ad accettare norme e regole che le persone – o almeno un numero significativo di persone e persino la maggioranza in alcuni Paesi – non sono disposte ad abbracciare. Ma sono ancora spinti a farlo, con le autorità che inventano continuamente giustificazioni per le loro azioni, attribuiscono crescenti problemi interni a cause esterne e fabbricano o esagerano minacce inesistenti.

 

La Russia è l’argomento preferito di questi politici. Naturalmente ci siamo abituati nel corso della storia. Ma cercano di ritrarre coloro che non sono disposti a seguire ciecamente questi gruppi di élite occidentali come nemici. Hanno utilizzato questo approccio con vari Paesi, inclusa la Repubblica popolare cinese, e hanno provato a fare lo stesso con l’India in determinate situazioni. Adesso ci stanno flirtando, come possiamo vedere molto chiaramente.

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Siamo consapevoli e vediamo gli scenari che stanno utilizzando in Asia. Vorrei dire che la leadership indiana è indipendente e fortemente orientata a livello nazionale. Penso che questi tentativi siano inutili, eppure continuano con loro. Cercano di dipingere il mondo arabo come un nemico; lo fanno in modo selettivo e cercano di agire in modo accurato, ma questo è il punto.

 

Cercano perfino di presentare i musulmani come un ambiente ostile, E così via e così via. Infatti, chiunque agisca in modo indipendente e nel proprio interesse viene immediatamente visto dalle élite occidentali come un ostacolo da rimuovere.

 

Nel mondo vengono imposte associazioni geopolitiche artificiali e vengono creati blocchi ad accesso limitato. Lo vediamo accadere in Europa, dove da decenni viene perseguita una politica aggressiva di espansione della NATO, nella regione dell’Asia-Pacifico e nell’Asia meridionale, dove stanno cercando di distruggere un’architettura di cooperazione aperta e inclusiva. Un approccio basato sui blocchi, se diciamo le cose col loro nome, limita i diritti dei singoli Stati e restringe la loro libertà di svilupparsi lungo il proprio percorso, tentando di chiuderli in una «gabbia» di obblighi.

 

In un certo senso, ciò equivale ovviamente all’espropriazione di parte della loro sovranità, spesso seguita dall’applicazione delle proprie soluzioni non solo nel campo della sicurezza ma anche in altri settori, in primo luogo l’economia, cosa che sta accadendo ora nelle relazioni tra i Paesi Stati Uniti ed Europa. Non c’è bisogno di spiegarlo adesso. Se necessario, ne potremo parlare in dettaglio durante la discussione dopo il mio intervento di apertura.

 

Per raggiungere questi obiettivi, cercano di sostituire il diritto internazionale con un «ordine basato su regole», qualunque cosa ciò significhi. Non è chiaro quali siano queste regole e chi le abbia inventate. È solo spazzatura, ma stanno cercando di piantare questa idea nella mente di milioni di persone. «Devi vivere secondo le regole». Quali regole?

 

E in realtà, se posso permettermi, i nostri «colleghi» occidentali, soprattutto quelli degli Stati Uniti, non si limitano a stabilire arbitrariamente queste regole, ma insegnano agli altri come seguirle e come gli altri dovrebbero comportarsi in generale. Tutto ciò viene fatto ed espresso in modo palesemente maleducato e invadente. Questa è un’altra manifestazione della mentalità coloniale. Ogni volta che sentiamo «devi», «sei obbligato», «ti stiamo avvertendo seriamente».

 

Chi sei tu per farlo? Che diritto hai di avvisare gli altri? Questo è semplicemente fantastico. Forse coloro che dicono tutto questo dovrebbero liberarsi della loro arroganza e smettere di comportarsi in modo tale nei confronti della comunità globale che conosce perfettamente i suoi obiettivi e interessi, e dovrebbero abbandonare questo modo di pensare dell’era coloniale? A volte voglio dirglielo: svegliatevi, quest’era è finita da tempo e non tornerà mai più.

 

Dirò di più: per secoli, tale comportamento ha portato alla replica di una cosa: grandi guerre, con varie giustificazioni ideologiche e quasi morali inventate per giustificare queste guerre. Oggi questo è particolarmente pericoloso.

 

Come sapete, l’umanità ha i mezzi per distruggere facilmente l’intero pianeta e la continua manipolazione mentale, incredibile in termini di scala, porta alla perdita del senso della realtà. Evidentemente bisognerebbe cercare una via d’uscita da questo circolo vizioso. A quanto ho capito, amici e colleghi, è per questo che siete venuti qui per affrontare queste questioni vitali nella sede del Valdai Club.

 

Nel concetto di politica estera della Russia il nostro Paese è caratterizzato come uno Stato-civiltà originale. Questa formulazione riflette in modo chiaro e conciso il modo in cui comprendiamo non solo il nostro sviluppo, ma anche i principi fondamentali dell’ordine internazionale, che speriamo prevalgano.

 

Dal nostro punto di vista, la civiltà è un concetto sfaccettato soggetto a varie interpretazioni. Una volta esisteva un’interpretazione esteriormente coloniale secondo la quale esisteva un «mondo civilizzato» che fungeva da modello per il resto, e si supponeva che tutti si adeguassero a quegli standard. Coloro che non erano d’accordo sarebbero stati costretti a entrare in questa «civiltà» dal manganello del maestro «illuminato».

 

Questi tempi, come ho detto, appartengono ormai al passato e la nostra comprensione della civiltà è molto diversa.

 

Innanzitutto, esistono molte civiltà e nessuna è superiore o inferiore a un’altra. Sono uguali poiché ogni civiltà rappresenta un’espressione unica della propria cultura, tradizioni e aspirazioni della sua gente. Nel mio caso, ad esempio, incarna le aspirazioni del mio popolo, di cui ho la fortuna di far parte.

 

Eminenti pensatori di tutto il mondo che sostengono il concetto di un approccio basato sulla civiltà si sono impegnati in una profonda contemplazione del significato di «civiltà» come concetto. È un fenomeno complesso composto da molte componenti. Senza addentrarci troppo nella filosofia, cosa che qui forse non è appropriata, proviamo a descriverla in modo pragmatico così come si applica agli sviluppi attuali.

 

Le caratteristiche essenziali di uno Stato-civiltà comprendono la diversità e l’autosufficienza, che, a mio avviso, sono due componenti chiave. Il mondo di oggi rifiuta l’uniformità e ogni Stato e società si sforza di sviluppare un proprio percorso di sviluppo che sia radicato nella cultura e nelle tradizioni, e sia intriso di geografia e di esperienze storiche, sia antiche che moderne, nonché dei valori sostenuti dalla sua gente. Questa è una sintesi intricata che dà origine a una comunità di civiltà distinta. La sua forza e il suo progresso dipendono dalla sua diversità e dalla sua natura multiforme.

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La Russia si è modellata nel corso dei secoli come una Nazione di diverse culture, religioni ed etnie. La civiltà russa non può essere ridotta a un unico denominatore comune, ma non può nemmeno essere divisa, perché prospera come un’unica entità spiritualmente e culturalmente ricca. Mantenere l’unità coesa di una tale nazione è una sfida ardua.

 

Nel corso dei secoli abbiamo dovuto affrontare sfide difficili; ce l’abbiamo sempre fatta, a volte a caro prezzo, ma ogni volta abbiamo imparato la lezione per il futuro, rafforzando la nostra unità nazionale e l’integrità dello Stato russo.

 

Questa esperienza che abbiamo acquisito è davvero preziosa oggi. Il mondo sta diventando sempre più diversificato e i suoi processi complessi non possono più essere gestiti con semplici metodi di governance, dipingendo tutti con lo stesso pennello, come diciamo, cosa che alcuni Stati stanno ancora cercando di fare.

 

C’è qualcosa di importante da aggiungere a questo. Un sistema statale veramente efficace e forte non può essere imposto dall’esterno. Cresce naturalmente dalle radici della civiltà di paesi e popoli e, a questo proposito, la Russia è un esempio di come ciò accade realmente nella vita, nella pratica.

 

Affidarsi alla propria civiltà è una condizione necessaria per il successo nel mondo moderno, purtroppo un mondo disordinato e pericoloso che ha perso l’orientamento. Sempre più Stati stanno giungendo a questa conclusione, diventando consapevoli dei propri interessi e bisogni, delle opportunità e dei limiti, della propria identità e del grado di interconnessione con il mondo che li circonda.

 

Sono fiducioso che l’umanità non si stia muovendo verso la frammentazione in segmenti rivali, verso un nuovo confronto tra blocchi, qualunque siano le loro motivazioni, o verso l’universalismo senz’anima di una nuova globalizzazione. Al contrario, il mondo si avvia verso una sinergia di civiltà-stati, grandi spazi, comunità che si identificano come tali.

 

Allo stesso tempo, la civiltà non è un costrutto universale, uno per tutti: non esiste una cosa del genere. Ogni civiltà è diversa, ognuna è culturalmente autosufficiente, attingendo alla propria storia e alle proprie tradizioni per principi e valori ideologici. Il rispetto di sé deriva naturalmente dal rispetto degli altri, ma implica anche il rispetto degli altri. Ecco perché una civiltà non impone nulla a nessuno, ma non permette nemmeno che si imponga nulla. Se tutti vivono secondo questa regola, possiamo vivere in una convivenza armoniosa e in un’interazione creativa tra tutti nelle relazioni internazionali.

 

Naturalmente, proteggere la propria scelta di civiltà è un’enorme responsabilità. È una risposta alle violazioni esterne, allo sviluppo di relazioni strette e costruttive con altre civiltà e, soprattutto, al mantenimento della stabilità e dell’armonia interne. Tutti noi possiamo constatare che oggi l’ambiente internazionale è, purtroppo, instabile e piuttosto aggressivo, come ho sottolineato.

 

Ecco un’altra cosa essenziale: nessuno dovrebbe tradire la propria civiltà. Questa è la via verso il caos universale; è innaturale e, direi, disgustoso. Da parte nostra abbiamo sempre cercato e continuiamo a cercare di offrire soluzioni che tengano conto degli interessi di tutte le parti. Ma le nostre controparti in Occidente sembrano aver dimenticato i concetti di ragionevole autocontrollo, di compromesso e di volontà di fare concessioni in nome del raggiungimento di un risultato che soddisfi tutte le parti. No, sono letteralmente fissati su un solo obiettivo: far valere i propri interessi, qui e ora, e farlo ad ogni costo. Se questa sarà la loro scelta, vedremo cosa ne verrà fuori.

 

Sembra un paradosso, ma la situazione potrebbe cambiare domani, il che è un problema. Ad esempio, elezioni regolari possono portare a cambiamenti sulla scena politica interna. Oggi un Paese può insistere per fare qualcosa ad ogni costo, ma la sua situazione politica interna potrebbe cambiare domani, e inizieranno a promuovere un’idea diversa e talvolta addirittura opposta.

 

Un esempio lampante è il programma nucleare iraniano. L’amministrazione statunitense ha promosso una soluzione, ma l’amministrazione successiva ha ribaltato la situazione. Come si può lavorare in queste condizioni? Quali sono le linee guida? Su cosa possiamo contare? Dove sono le garanzie? Sono queste le «regole» di cui ci parlano? Ciò è insensato e assurdo.

 

Perché sta succedendo questo e perché tutti sembrano a proprio agio? La risposta è che il pensiero strategico è stato sostituito con gli interessi mercenari a breve termine nemmeno di paesi o nazioni, ma dei successivi gruppi di influenza. Ciò spiega l’incredibile, se giudicata in termini di Guerra Fredda, irresponsabilità dei gruppi di élite politica, che si sono liberati di ogni paura e vergogna e si considerano innocenti.

 

L’approccio civilizzatore si oppone a queste tendenze perché si basa sugli interessi fondamentali a lungo termine degli Stati e dei popoli, interessi che sono dettati non dall’attuale situazione ideologica, ma dall’intera esperienza storica e dall’eredità del passato, su cui si basa l’idea di un futuro armonioso riposa.

 

Se tutti fossero guidati da questo, credo che ci sarebbero molti meno conflitti nel mondo e gli approcci per risolverli diventerebbero molto più razionali, perché tutte le civiltà si rispetterebbero a vicenda, come ho detto, e non cercherebbero di cambiare chiunque in base alle proprie nozioni.

 

Amici, ho letto con interesse la relazione predisposta dal Club Valdai per l’incontro di oggi. Dice che attualmente tutti si sforzano di comprendere e immaginare una visione del futuro. Ciò è naturale e comprensibile, soprattutto per gli ambienti intellettuali. In un’epoca di cambiamenti radicali, in cui il mondo a cui siamo abituati si sta sgretolando, è molto importante capire dove stiamo andando e dove vogliamo essere. E, naturalmente, il futuro si sta creando adesso, non solo davanti ai nostri occhi, ma anche con le nostre stesse mani.

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Naturalmente, quando sono in corso processi così massicci ed estremamente complessi, è difficile o addirittura impossibile prevederne il risultato. Indipendentemente da ciò che facciamo, la vita apporterà dei cambiamenti. Ma in ogni caso dobbiamo renderci conto di ciò a cui miriamo, di ciò che vogliamo ottenere. In Russia esiste una tale comprensione.

 

Primo. Vogliamo vivere in un mondo aperto e interconnesso, dove nessuno proverà mai a mettere barriere artificiali sulla via della comunicazione delle persone, della loro realizzazione creativa e della prosperità. Dobbiamo sforzarci di creare un ambiente privo di ostacoli.

 

Secondo. Vogliamo che la diversità del mondo sia preservata e serva da base per lo sviluppo universale. Dovrebbe essere vietato imporre a qualsiasi paese o popolo come dovrebbero vivere e come dovrebbero sentirsi. Solo una vera diversità culturale e di civiltà potrà garantire il benessere delle persone e l’equilibrio degli interessi.

 

In terzo luogo, la Russia rappresenta la massima rappresentanza. Nessuno ha il diritto o la capacità di governare il mondo per gli altri e per conto degli altri. Il mondo del futuro è un mondo di decisioni collettive prese ai livelli in cui sono più efficaci e da coloro che sono veramente in grado di dare un contributo significativo alla risoluzione di un problema specifico. Non è che una persona decida per tutti, e nemmeno tutti decidono tutto, ma chi è direttamente interessato da questa o quella questione deve mettersi d’accordo su cosa fare e come farlo.

 

In quarto luogo, la Russia sostiene la sicurezza universale e una pace duratura fondata sul rispetto degli interessi di tutti: dai Paesi grandi a quelli piccoli. La cosa principale è liberare le relazioni internazionali dall’approccio del blocco e dall’eredità dell’era coloniale e della Guerra Fredda. Da decenni affermiamo che la sicurezza è indivisibile e che è impossibile garantire la sicurezza di alcuni a scapito di quella di altri. In effetti, l’armonia in quest’area può essere raggiunta. Basta mettere da parte la superbia e l’arroganza e smettere di considerare gli altri come partner di seconda classe, emarginati o selvaggi.

 

Quinto: sosteniamo la giustizia per tutti. L’era dello sfruttamento, come ho detto due volte, è passata. I Paesi e i popoli sono chiaramente consapevoli dei propri interessi e delle proprie capacità e sono pronti a fare affidamento su se stessi; e questo aumenta la loro forza. Tutti dovrebbero avere accesso ai benefici del mondo di oggi, e i tentativi di limitarlo per qualsiasi paese o popolo dovrebbero essere considerati un atto di aggressione.

 

Sesto: siamo a favore dell’uguaglianza e del diverso potenziale di tutti i paesi. Questo è un fattore del tutto oggettivo. Ma non meno oggettivo è il fatto che nessuno è più disposto a prendere ordini o a far dipendere i propri interessi e bisogni da qualcuno, soprattutto dai ricchi e dai più potenti.

 

Questo non è solo lo stato naturale della comunità internazionale, ma la quintessenza di tutta l’esperienza storica dell’umanità.

 

Questi sono i principi che vorremmo seguire e ai quali invitiamo tutti i nostri amici e colleghi ad aderire.

 

Colleghi!

 

La Russia era, è e sarà una delle fondamenta di questo nuovo sistema mondiale, pronta per un’interazione costruttiva con tutti coloro che lottano per la pace e la prosperità, ma pronta per una dura opposizione contro coloro che professano i principi della dittatura e della violenza. Crediamo che il pragmatismo e il buon senso prevarranno e che si creerà un mondo multipolare.

 

In conclusione, vorrei ringraziare gli organizzatori del forum per la vostra fondamentale e qualificata preparazione, come sempre, così come ringraziare tutti i presenti a questo incontro anniversario per la vostra attenzione.

 

Grazie mille.

 

Vladimir Putin

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 

 

 

 

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Civiltà

Gli Stati Uniti mettono in guardia l’Europa dalla «cancellazione della civiltà»

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L’Europa rischia la «cancellazione della civiltà», in quanto i leader del continente promuovono la censura, soffocano le voci dissidenti e ignorano gli effetti dell’immigrazione incontrollata, avverte la nuova Strategia per la sicurezza nazionale diffusa dall’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump.   Il testo, dal tono aspro e innovativo, reso pubblico venerdì, rileva che, sebbene l’Unione Europea mostri chiari segnali di stagnazione economica, è il suo deterioramento culturale e politico a costituire una minaccia ben più grave.   La strategia denuncia le scelte migratorie dell’UE, la repressione dell’opposizione, i vincoli alla libertà di espressione, il crollo della natalità e la «perdita di identità nazionali e di autostima», ammonendo che il Vecchio Continente potrebbe risultare «irriconoscibile entro 20 anni o anche meno».

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Secondo il documento, numerosi governi europei stanno «intensificando i loro sforzi lungo la traiettoria attuale», mentre Washington auspica che l’Europa «rimanga europea» e si liberi dal «soffocamento regolatorio», un’allusione evidente alle tensioni transatlantiche sulle norme digitali dell’UE, accusate di penalizzare colossi tech americani come Microsoft, Google e Meta.   Tra le priorità degli Stati Uniti figura il «coltivare la resistenza alla traiettoria odierna dell’Europa all’interno delle nazioni europee», precisa il testo.   La strategia trumpiana esalta inoltre l’emergere dei «partiti patriottici europei» come fonte di «grande ottimismo», alludendo al boom di consensi per le formazioni euroscettiche di destra che invocano restrizioni ferree ai flussi migratori in tutto il blocco.   Il documento sentenzia che «l’era delle migrazioni di massa è conclusa». Sostiene che questi flussi massicci abbiano prosciugato le risorse, alimentato la criminalità e minato la coesione sociale, con l’obiettivo americano di un ordine globale in cui gli Stati sovrani «collaborino per bloccare anziché solo gestire» i movimenti migratori.   Tale posizione si inserisce nel contesto delle spinte di Trump affinché i partner europei della NATO incrementino le spese per la difesa. In passato, il presidente aveva ventilato di non tutelare i «paesi inadempienti» in caso di aggressioni, qualora non avessero accolto le sue istanze. Durante un summit europeo all’inizio dell’anno, l’alleanza ha approvato un piano per elevare la spesa complessiva in difesa fino al 5% del PIL, superando di gran lunga la soglia del 2% a lungo stabilita dalla NATO.  

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Civiltà

Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica

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Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.

 

Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.

 

Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.

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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.

 

Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.

 

Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.

 

Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.

 

Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.

 

O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.

 

Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.

 

Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.

 

Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».

 

Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.

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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.

 

Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.

 

Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.

 

Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.

 

Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.

 

Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.

 

la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.

 

La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.

 

Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.

 

Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.

 

Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.

 

Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.

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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.

 

Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.

 

Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.

 

Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».

 

E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.

 

Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.

 

Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.

 

Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.

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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.

 

Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.

 

Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.

 

Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.

 

Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.

 

Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.

 

Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.

 

Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.

 

Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.

 

Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.

 

Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.

 

Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».

 

Patrizia Fermani

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Civiltà

Chiediamo l’abolizione degli assessorati al traffico

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Renovatio 21 propone una soluzione apparentemente drastica, ma invero assai realistica, ad uno dei problemi che affligge l’uomo moderno: il traffico.   Non si parla di una questione da niente, e ci rendiamo conto che essa pertiene propriamente alla catastrofe del mondo odierno, e proprio per questo serve una modifica radicale di carattere, soprattutto, istituzionale.   Lo aveva capito il genio di Marshall McLuhan: «La strada è la fase comica dell’era meccanica (…) Il traffico è l’aspetto comico della città» (Gli Strumenti del comunicare, 1964). Il culmine comico dell’era dell’industria: la civiltà costruisce strade ed automobili per muoversi in libertà e rapidità, e si ritrova imbottigliata per ore, innervosita, massacrata da miriadi di leggi, restrizioni, multe.   Il traffico è un fenomeno generatore di caos e dolore, di isterie e sprechi – il tutto subito sulla nostra pelle, ogni singolo giorno – al quale nessuno sembra trovare soluzione, soprattutto quanti sarebbero preposti a risolverlo. Costoro sembrano invece, consapevoli o no, impegnati nell’aggravarsi del dramma.   Davanti a noi abbiamo la degradazione continua, inarrestabile della mobilità urbana. È difficile trovare qualcuno che possa dire che il traffico è migliorato, o che una soluzione azzeccata adottata su una qualche strada non sia stata poi azzerata da una scelta successiva, calata, come tutte, dall’alto, sul cittadino schiavo inerme.   Crediamo che uno dei motivi di tale regressione diacronica ed ubiqua sua l’esistenza dei cosiddetti assessorati al traffico, che si chiamano in vari modi (uffici mobilità, dipartimento dei trasporti, direzione viabilità), ma che sono tutti costruiti attorno ad uno assunto semplice: spendere un determinato budget per cambiare le strade.

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Probabilmente la questione è davvero così semplice: nell’impossibilità di non spendere l’ammontare di danaro assegnato (grande tabù per qualsiasi ente pubblico: i soldi che risparmi non generano un premio, ma una diminuzione della cifra che arriva l’anno dopo) gli assessori e i loro scherani non possono che mettere mano ovunque, con decisioni a volte incomprensibili, a volte ideologiche, e quasi sempre dannosissime.   Ecco che, perché l’assessorato deve fare qualcosa, invertono un senso unico, cagionando il disorientamento totale del cittadino automunito, che d’un tratto si trova non solo multato, ma anche al centro di un pericolo per sé e per gli altri. Ricordiamo le tecniche dei missionari: cambiare la forma del villaggio è aprire la mente dell’indigeno all’altro, qui tuttavia non c’è il Vangelo a dover essere diffuso, ma il nulla di una decisione burocratica stupida e gratuita – gratuita per modo di dire, perché anche per un’inezia del genere vi è un costo non indifferente per il contribuente.   Ecco che, perché l’assessore deve finire sui giornali, l’area viene pedonalizzata: ZTL laddove prima potevi passare per portare i figli a scuola o fermarti nel negozietto (che ne patirà, ovvio, le conseguenze). Sempre considerando che le ZTL sono da vedersi come riserve indiane degli elettori dei partiti di sinistra, gli unici che possono permettersi di vivere in centro.   Ecco che, perché l’assessore deve far carriere nel partitello con le fisime ecologiche, laddove c’erano due corsie ce ne troviamo una sola, con una, perennemente vuota, riservata ad autobus che fuori dalle ore di scuola sono oramai solo utilizzati da immigrati che con grande probabilità non pagano il biglietto e in caso potrebbero pure picchiare il controllore (succede, lo sapete). Il risultato è, giocoforza, un imbottigliamento ancora più ferale, un’eterogenesi dei fini per politica ecofascista che è, in ultima analisi, solo una mossa di PR inutile quanto oscena.   Ecco la sparizione di parcheggi gratuiti – grande segno della fine della Civiltà – così da scoraggiare, come da comandamento di Aurelio Peccei, l’uso dell’auto che produce anidride carbonica, orrenda sostanza per qualche ragione alla base della chimica organica e quindi della vita stessa, soprattutto quella umana. Chi va all’Estero – non in Giappone, ma in un Paese limitrofo come l’Austria – sogna vedendo la quantità di parcheggi sotterranei creati attorno alle cittadine, senza tanti problemi per gli scavi al punto che, con recente politica, il rampollo Porsche si è fatto il suo tunnel che lo porta da casa al centro di Salisburgo in un batter d’occhio.   Il superamento del traffico attraverso la dimensione infera è stato compreso, con la solita mistura di genio e concretezza, da Elon Musk con la sua Boring Company: se vuoi migliorare la tragedia del traffico l’unico modo di farlo è andando verso il basso, anche se sembrerebbe che il prossimo misterioso modello di Tesla, la Roadster, potrebbe poter operare verso l’alto. Noi, tuttavia, non abbiamo Elone, abbiamo gli assessori al traffico.   E poi, i capolavori – sempre trainati da ideologia verde, interessi cinesi impliciti e tagli di nastro sul giornale – della «micromobilità», con i monopattini e le bici «free-floating» rovinate, abbandonate e utilizzate, in larghissima parte, dalle masse di eleganti africani, che magari con esse si spostano con più agilità per certe loro attività, come lo spaccio di droga: massì, vuoi non pagargli, oltre che vitto-alloggio-acqua-gas elettricità-internet-telefonino-avvocato-sanità-bei vestiti alla moda anche dei mezzi di trasporto con cui, appunto, possono evitare il traffico? Tipo: un inseguimento di una gazzella della Polizia nel traffico contro un criminale in monopattino, come finisce? L’eterogenesi dei fini qui non è nemmeno comica, è tragicomica, o tragica e basta.

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Potremmo continuare con la lista. Laddove c’era una rotonda che funzionava meglio di un semaforo (ogni tanto, qualcuna la devono azzeccare, ma non dura) ecco che te la cancellano e ci mettono cordoli, fiori, pianticelle, magari perfino un monumento orrendo o una fontana lercia.   Laddove c’era una strada larga, eccotela divorata da un nuovo mega-marciapiede che non usa nessuno, se non i ciclofascisti zeloti, i quali tuttavia divengono presto vittime della follia viabilitaria, con sensi unici e corsie di trenta centimentri anche per i velocipedi.   Laddove c’era una strada dritta che in 50-100 metri ti portava allo snodo, loro, per farti arrivare al medesimo punto, ti costruiscono una deviazione di mezzo chilometro che ti manda sotto un supermercato, un tribunale, una palestra, una pizzeria, appartamenti di lusso e uffici pubblici – insomma un bel progetto di complessone che qualcuno deve aver costruito e in qualche modo venduto, con tutti incuranti del fatto che se all’esame di urbanistica all’Università proponevi una cosa del genere venivi bocciato seduta stante.   Laddove devono costruire una tangenziale, magari con decenni di ritardo, ti rendi conto che si dimenticano di fare le uscite nei comuni che attraversa e ci fanno l’immissione con uno stop invece di una corsia di accelerazione, con il risultato che entri a 0 km/h in una strada dove da sinistra ti arriva uno che viaggia ufficialmente a 70-90 km/h, che poi divengono sempre 100-120 km/h se non, nel caso del tizio con l’Audi in leasing, cinque vaccini e chissà cos’altro in corpo, perfino di più.   E non parliamo dei casi di corruzione che saltano fuori in quegli uffici – dove ci sono appalti, ci sono mazzette, uno pensa. Ma non è nemmeno questo il punto: nel disastro, gli effetti della malizia possono essere indistinguibili da quelli dell’ebetudine conclamata dei soggetti e del sistema.   È difficile, davvero, trovare qualcosa di positivo in quello che fanno quanti sono politicamente preposti al miglioramento della mobilità – cioè dell’esistenza – dei cittadini. Il motivo, lo ripetiamo, è strutturale: gli assessorati sono macchine strutturate per modificare, cioè complicare, le cose. In pratica, sono l’essenza stessa della burocrazia, con effetti fisici però immediati e devastanti.

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La soluzione a tutto questo potrebbe essere davvero facile-facile: abolizione completa degli assessorati al traffico. Con essa, si perderebbe l’incentivo strutturale a cambiare sempre e comunque tutto, e a valutare con più responsabilità le innovazioni.   Immaginiamo che se la viabilità fosse fra le mansioni dirette del sindaco, cioè se la responsabilità fosse la sua, le decisioni sulla mobilità sarebbero più dosate e sensate, perché esposte al popolo con il quale il primo cittadino ha certo un rapporto più diretto, nonché mediato dal voto, passato e soprattutto futuro.   È una proposta che non sappiamo se sia già stata fatta. Certo si possono valutare cose anche più radicali: come la punizione per quanti complicano e distruggono la viabilità delle nostre città. Lo sappiamo, è la mancanza di castigo che crea aberrazioni ed orrori, con la devastazione di tanta parte d’Italia dovuta a questo principio di irresponsabilità della casta politico-burocratica.   La realtà è che, per ottenere qualcosa, il cittadino sincero-democratico automunito deve arrabbiarsi molto di più. Non basta ringhiare al bar, o imprecare dentro l’abitacolo, magari pure, a certe latitudini, suonando il clacsone. Non serve alimentare un sistema che, alla fine, continua a produrre assessori al traffico, e traffico.   No, serve davvero di più. Perché l’auto è davvero un mezzo di libertà, e aggiungiamo, di vita – l’auto è uno strumento della famiglia. Chi vuole togliervela – come quelli di Davos, le cui idee percolano poi giù giù fino al vostro assessorino – odia la vita, odia voi e i vostri figli.   Chiedere l’abolizione degli assessorati al traffico ci sembra il minimo che possiamo fare se vogliamo sul serio lottare per la Civiltà.   Roberto Dal Bosco

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