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Leggere Dostoevskij per comprendere il presente (e anche il futuro)

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Lo spettacolo indecoroso cui stiamo assistendo non è inedito, anche perché i suoi ingredienti fondamentali ne fanno solo una replica – con qualche sostituzione degli attori nelle parti secondarie – di quello a cui assisteva con sconsolata lucidità Dostoevskij, e che annotava nel suo Diario.

 

Aveva sotto gli occhi l’ingrossarsi come un fiume in piena della «questione d’Oriente». Quando cioè centinaia di migliaia di cristiani venivano massacrati nella indifferenza delle potenze occidentali concentrate nell’accaparramento di propri vantaggi territoriali dalla dissoluzione dell’impero turco, e quindi quasi ansiose che la pulizia etnico religiosa fosse portata a termine, quale arma di contenimento della Russia. Questa, infatti, una volta tolto di mezzo l’Impero Ottomano «si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà».

 

«Si mentiva spudoratamente su tutto, allo scopo di eccitare all’odio le masse del popolo non contro i massacratori musulmani, ma contro il presunto imminente nemico».

 

Così come oggi, per bocca di mentitori seriali televisivi, la guerra travestita e preparata dagli Stati Uniti su una terra di confine, per avviare la guerra contro la Russia, capovolge fatti e responsabilità.

 

«E per di più in Europa si negano i fatti», scriveva il nostro autore, «li si smentiscono nei Parlamenti, non si crede, si fa finta di non credere: no, non è successo, è esagerato, sono loro stessi, i bulgari, che hanno trucidato sessantamila dei loro per accusare i turchi». Forse prendendo spunto dal memorabile «Eccellenza, Lei si è frustata da sé» che si legge nell’Ispettore generale di Gogol’.

 

Lo stesso paradosso che non solo viene servito con imperturbabile sfrontatezza dai cucinieri occidentali e dai loro alleati ad est, ma anche digerito beotamente dalle moltitudini teleemancipate. Non per nulla, e per l’eterno ritorno dell’uguale, a queste, comprese forse anche quelle tedesche, è apparso subito evidente che, con straordinario slancio autopunitivo, anche i gasdotti siano stati messi fuori uso dai legittimi proprietari, come le popolazioni russofone del Donbass si siano state autoperseguitate e uccise nel corso di quasi un decennio. Tutti del resto conosciamo una vecchia metafora un po’ scabrosa su certe possibili vendette coniugali autolesioniste che è sconveniente citare per esteso.

 

In quei fatti Dostoevskij ravvisava «l’ultima parola di una civiltà dopo diciotto secoli di evoluzione, di tutta quella umanizzazione del genere umano per cui l’Europa ha distrutto il commercio dei negrieri e il dispotismo, ha proclamato i diritti dell’uomo, creato la scienza, celebrato l’anima umana con l’arte, promesso agli uomini giustizia e verità, per poi voltare le spalle ai cristiani massacrati per ordine del sultano».

 

Del resto, vale la pena di ricordare come qualche decennio dopo quei fatti, con lo stesso cinismo, gli evoluti occidentali abbiano voltato le spalle anche di fronte al genocidio armeno sul quale rimane steso a distanza di più di un secolo un imbarazzante e imbarazzato silenzio, a fronte del clamore attivato su quello hitleriano, almeno finché il suo ricordo è tornato utile. Infatti, ora anche Auschwitz rischia di tornare in penombra perché, se da un lato i tedeschi hanno interiorizzato la colpa fino a cambiare pelle, mettere da parte ogni orgoglio e memoria identitaria, per adattarsi infine anche alla nuova povertà energetica ed economica, dall’altro il nuovo nazismo ucraino a uso e consumo angloamericano viene alimentato e potenziato in vista di una nuova ma da sempre vagheggiata operazione Barbarossa.

 

È il nazismo esibito impunemente sul petto da un signore in visita al vescovo di Roma insieme a un plotone di commilitoni in tuta mimetica, secondo la nuovissima etichetta approvata dalla Segreteria di Stato Vaticana. Una aggiornata etichetta nazionalpopolare che ha esteso il bianco, riservato da secoli alle regine cattoliche in visita al pontefice, anche a quelle delle borgate romane rappresentate per competenza territoriale dalla disinvolta signora Giorgia.

 

Ma leggiamo ancora nel Diario«da che deriva tutto ciò? Perché non si vuol vedere, sentire, e si mente? perché si getta del fango su se stessi? È perché c’è di mezzo la Russia. Infatti, la Russia disturba, è colpevole di essere la Russia, che come un’orda barbarica si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà, quella civiltà, appunto, che ad un tratto si è rivela un bluff» 

 

Dunque, nulla pare cambiato da allora. E la civiltà è quella che è capace di sequestrare le opere d’arte dell’Hermitage in prestito alle gallerie occidentali. Di impossessarsi indebitamente dei beni privati e dei depositi bancari dei cittadini russi. Che ha sottoscritto trattati di pace solo allo scopo di ingannare strategicamente la controparte, trasgredendo la sola regola cogente vantata dal vantato diritto internazionale elaborato dalla civiltà occidentale, ovvero il pacta sunt servanda. Mentre questa stessa regola rimane «intangibile» per continuare a stringere al collo gli inermi sudditi europei imprigionati a Maastrichtt.

 

Ma occorre essere realisti. Ha vinto a tutto campo l’utilitarismo anglosassone, versione plebea e becera del fine che giustifica i mezzi adottato anche dagli ottusi abitatori continentali delle istituzioni europee, forniti o meno di titoli nobiliari o accademici che non impediscono di fare affari milionari privati con tutti i malfattori transatlantici, a spese dell’ignaro contribuente della stessa UE. Senza contare gli svizzeri che, dell’utilitarismo essendo i cultori assoluti, hanno messo l’armatura anche alla loro amata e proverbiale neutralità.

 

Del resto, la separazione tra politica ed etica, era problema antico e presente alla coscienza ben prima di Machiavelli che tuttavia, scriveva Croce, «scopre la necessità e l’autonomia della politica, che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta».

 

Anche se, aggiungeva, «quello che di solito non viene osservato, è l’acre amarezza con la quale il Machiavelli accompagna questa asserzione della politica e della sua necessità».

 

Infatti, in ogni caso, l’utilità del tranello e della strage di Senigallia ordita dal duca Valentino si iscrive, nelle intenzioni dell’autore, nell’utile ma non certo nell’onore.

 

Come nel caso di Remirro de Orco, luogotenente del duca, che pacificata la regione per mezzo di inaudite efferatezze, fu messo una mattina sulla piazza di Cesena «in due parti con un coltello sanguinoso a lato sicché i cittadini rimasero satisfatti e stupidi».

 

Possiamo inoltre osservare come la stessa politica internazionale abbia uno statuto «etico» a sua volta differenziato anche rispetto a quello della politica interna. Si tratta di una diversità venuta a formarsi spontaneamente per la diversità degli interessi e degli obiettivi in gioco, che sono, anzi dovrebbero essere, in una visione ideale, la pacifica convivenza fra i popoli da un lato, e il bene della comunità nazionale dall’altro.

 

Ma anche questa differenza cade, quando, come oggi, le nazioni europee, non più indipendenti e sovrane, non godono più di autonomia politica perché in stato di vassallaggio rispetto gli Stati Uniti, non solo dal punto di vista militare, ma anche, tramite l’UE che ne è la longa manus, per le direttive educative, culturali, economiche e «ideologiche». Sicché neppure di vassallaggio è corretto parlare, quanto di totale, mortificante asservimento.

 

Ma Dostoevskij, a partire dalla autonomia di fatto riconosciuta proprio della politica internazionale, fa un passo ulteriore. Egli non era di certo un ingenuo e sprovveduto idealista incapace di afferrare il problema filosofico della doppia moralità che segna rispettivamente il proprium della politica e della vita individuale.

 

Tuttavia, si chiede: «Dove sono le verità conquistate con tante sofferenze? Basta una causa pratica, e tutto vola via?».

 

Infatti, aveva ben presente quello che Machiavelli non poteva ancora prendere in considerazione perché venuto dopo di lui. Tutto il lavorio di pensiero, tutta quella riflessione sulla realtà della politica, e tutti quei fatti storici che avevano portato, attraverso un travaglio interconnesso di eventi e di idee, alla concezione dello stato moderno e alle altre conquiste di cui si fregia il pensiero politico della cosiddetta civiltà occidentale.

 

Quella approdata poi malamente alla vuota retorica sui diritti, sulla democrazia, sulla coesistenza pacifica, sulla libertà e l’uguaglianza, sullo stato di diritto, sulla protezione delle minoranze, e chi più ne ha più ne metta, ovvero su tutta una congerie di parole prive di senso vero che servono a mascherare l’involuzione verso il rinnegamento di quello che era stato venduto, ma anche sentito dalle masse, come progresso.

 

Così leggiamo ancora nel Diario:

 

«Tuttavia non è neppure giustificato rimanere attestati sul piano brutale del doppio binario e non elevarsi ad un piano speculativo più alto e convincente. Infatti, con questo riconoscimento della santità degli interessi correnti, del guadagno diretto e immediato, del diritto di sputare sull’onore e la coscienza pur di strappare per sé un fiocco di lana, si può andare di certo molto lontani. Ma solo i vantaggi pratici, solo i guadagni correnti rappresentano il vantaggio vero di una nazione e la sua politica “alta”? Al contrario, non è per una grande nazione proprio questa politica dell’onore, della magnanimità e della giustizia la migliore politica, anche se apparentemente in contrasto, ma in realtà non in contrasto, con i suoi interessi? La politica del disinteresse e dell’onore, ovvero le idee grandi e oneste sono quelle che trionfano alla fine nei popoli e nelle nazioni. La politica dell’onore e del disinteresse non è soltanto la più nobile ma forse anche la più vantaggiosa per una grande nazione, appunto perché nobile… mentre il continuo gettarsi di qua e di là, dove è più vantaggioso, riduce uno stato alla meschinità, alla interiore impotenza».

 

Non avrebbe dovuto essere questo il nuovo traguardo della civilizzazione almeno per l’Europa?

 

E ripudiare quelle leggi belluine per cui anche Machiavelli sentiva disgusto? Dopo gli esiti osceni di una rivoluzione approdata nella follia e nelle rapine napoleoniche, dopo le guerre fratricide e i crimini del colonialismo?

 

Ma quell’auspicio era utopistico e la contraddizione è risultata ben più paradossale, perché siamo approdati ad un grado allora inimmaginabile di dissennata disumanizzazione, con le immani tragedie e le oscenità in cui è sfociato nel Novecento il miraggio e la presunzione del progresso dell’umanità, nella degenerazione e nella contraddizione delle idee che avrebbe dovuto assicurarlo.

 

L’Europa è stata risucchiata dentro la egemonia tentacolare statunitense in cambio della distruzione materiale subita, mentre la sbandierata democrazia indigena o di importazione si è trasformata nel dispotismo formalmente autorizzato, modello 1933. E sempre in virtù di un trasformismo indisturbato, ora, dopo ottant’anni di pacifismo di facciata, interrotto senza remore ogni volta che un potere egemone lo ha deciso, dopo ogni tipo di inganno perpetrato ai danni della popolazione inerme in balia delle oligarchie anglosassoni, si getta a capofitto nella guerra che queste hanno programmato ad hoc.

 

Oligarchie tentacolari e aperte ad ogni corruttela, guidate dall’utilitarismo e dalla volontà di potenza che possono sfoggiare impunemente in ogni sorta di menzogna, in ogni rovesciamento di principi prima sbandierati, in ogni falsa morale e farisaica decisione, ogni tradimento e ogni meschinità, ogni intento distruttivo senza pudore e senza assunzione di responsabilità, dietro varie maschere di scena.

 

Come quelle andate a commemorare senza ritegno le vittime della bomba atomica insieme a chi quella bomba non si vergogna di averla sganciata e di quell’orrore non si è mai pentito. Un quadro desolante che sembrava impensabile, quello dei due tristi figuri, l’europea e l’americano insieme, in mezzo ad altrettanti tristi e meschini figuranti. Di cartapesta, si dirà, eppure in grado di muovere indisturbati i destini di infinite e irripetibili vite perché il gregge da cui traggono esistenza è stato debitamente narcotizzato e svirilizzato.

 

Le oligarchie dominanti hanno preso in mano il potere politico grazie alle degenerazioni del sistema democratico e rappresentativo, ma soprattutto alla riduzione preventiva delle capacità di comprensione e reazione dei sudditi. Di uomini a una dimensione, figurine piatte incollate nell’album della storia da burattinai capaci di tutto perché mancanti della coscienza propria degli uomini veri.

 

I politicanti e le politicanti che pullulano oggi nel prestigioso mondo occidentale, ovvero nel giardino fiorito di Borrell, di qua e di là dell’Oceano, prefigurano i pericolosi automi progettati per sollevare l’umanità residuale del futuro dalla fatica di vivere umanamente e di pensare.

 

Non per nulla quelle che erano un tempo le arti della diplomazia, disciplina troppo impegnativa per essere coltivata dalle menti deboli di automi semianalfabeti, sono state soppresse e sostituite da un vaniloquio che oscilla minacciosamente fra tracotanza, stupidità, e menzogna. Cosa che scopre la pericolosità di costoro e degli apparati in cui essi sono annidati.

 

Basti pensare alle dichiarazioni del sempre querulo Stoltenberg, che non perde mai nessuna occasione per mostrare la propria caratura. Esemplare il discorso recentissimo sull’avvicinamento ad una applicazione estensiva dell’articolo 5 del trattato della NATO.

 

Un capolavoro di ipocrisia farisaica per dire in soldoni che sulla lettera della norma prevarrà manu militari l’interpretazione, sicché tutti i firmatari saranno obbligati a partecipare anche con i propri eserciti alla guerra accanto alla Ucraina, anche se questa non fa parte della alleanza. Ovvero ha fatto balenare nella nebulosa truffaldina delle parole l’istituzione di fatto di una belligeranza diretta obbligatoria.

 

Più esplicito, nella volgarità della sua violenza primigenia, il ministro ucraino che dopo l’attentato di Lugansk dice: se non ci darete le armi che chiediamo, anche voi dovrete aspettarvi degli attentati. Cosa che penalmente parlando si chiama minaccia, ma la cui abnormità e volgarità sembrano non arrivare ad essere percepite come tali neppure da quanti dovrebbero avere dimestichezza, diretta o attraverso la filmografia, con il codice comunicativo e operativo delle varie cose nostre, gloria nazionale universalmente conosciuta ed esportata.

 

Ora, a proposito di tante manifestazioni eloquenti di un degrado generalizzato, di strumenti truffaldini della politica sempre più sfacciatamente ostentati, c’è da osservare che, a giustificare ogni aporia in nome della ragion di Stato, nell’epoca dell’azzeramento mediatico di ogni coscienza critica, la massa finisce per assorbire l’idea della normalità di quell’etica e di poterla fare propria anche nella vita quotidiana.

 

Se non si percepiscono più come tali la menzogna o il tradimento, il discorso truffaldino e il ricatto, l’obiettivo distruttivo nascosto o la falsificazione della realtà, anche perché genericamente normalizzati e dunque genericamente legittimati; se non li si inseriscono più neppure nel recinto chiuso di una politica che obbedisce ad un codice proprio e particolare, il passaggio verso l’assorbimento di quell’habitus nella morale corrente è quasi obbligato. Quell’etica deviata e particolare di cui non si vedono più la genesi e le articolazioni finisce per diventare moneta corrente anche al di fuori del recinto della politica e anzi diventa un modello accettabile per i rapporti privati arrivando a pervertire la coscienza individuale.

 

Dunque, inutile dire come, in un momento storico al quale non sappiamo neppure se ne potrà seguire realmente un altro, l’auspicio di Dostoevskij di una politica «alta», suoni inattuale. Quanto mai lontana e utopistica appare la possibilità della messa a frutto della ricchezza di storia accumulata dal pensiero occidentale, insieme ad una ininterrotta riflessione filosofica, e al patrimonio della spiritualità cristiana prima della sua contaminazione. Sembra impossibile in questo sfascio culturale, la sublimazione con cui la vita matura controlla gli eventi guardando al di là di ciò che è meschino e particolare, fasullo e insignificante da un orizzonte più ampio ed elevato.

 

Questo è il momento degli sciacalli e delle iene, o forse dei marabunta. E nell’avvento di animali superiori pare quasi impossibile anche poter sperare.

 

Tuttavia, non bisogna neppure dimenticare che anche i figuranti di cartapesta, per quanto nefasti, al pari del terribile giudice Morton nemico di Roger Rabbit, con un po’ di impegno e tanta fortuna potrebbero essere dissolti nel nulla proprio grazie alla loro reale inconsistenza.

 

Almeno in questo dobbiamo tornare a sperare, forse… anche al di là di ogni ragionevole dubbio!?

 

 

Patrizia Fermani

 

 

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

 

 

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Attrici giapponesi che si vestono da uomini bullizzano collega fino a spingerla al suicidio

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Dal Giappone arriva l’eco di un episodio di bullismo e violenza sistematica sfociati in un suicidio all’interno di una struttura esclusivamente femminile. Una sorta di suicidio femminicida, ma ad opera di femmine.

 

Teatro della vicenda è per il corpo teatrale Takarazuka, un’istituzione più che secolare nel mondo dello spettacolo giapponese. Il concetto alla base del corpo teatrale è che sono soltanto attrici a salire in scena, interpretando anche i ruoli maschili. Tale idea, di per sé spiazzante, inverte completamente la tradizione del teatro tradizionale Kabuki, dove sono gli attori maschi a ricoprire tutti i ruoli.

 

Gli spettacoli del Takarazuka sono tuttavia distanti anni luce dal rigido formalismo del Kabuki: qui si tratta di musical che attingono dalle fonti più disparate, da West Side Story all’Evgenij Onegin, spesso spingendo a tavoletta su elementi che qualche anno fa si definivano camp o kitsch, in italiano lo si potrebbe semplicemente chiamare «pacchianeria», benché estremamente professionale e ben fatta.

 

 

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Il seguito che hanno questi spettacoli nel contesto nipponico è impressionante, ancora di più perché per la grandissima maggioranza femminile: lo scrivente ricorda di essersi imbattuto in una lunghissima coda in attesa di entrare nel teatro di Tokyo – in zona centralissima, vicino al palazzo imperiale – dove si esibisce la compagnia. Si poteva constatare che gli uomini tra la folla erano appena una manciata.

 

Un ambiente quindi quasi completamente femminile, al sicuro da patriarcato e maschilismo tossico.

 

E allora, come si spiegano allora vessazioni di gruppo, ustioni procurate con le piastre per i capelli, carichi di lavoro insostenibili assegnati al solo scopo di umiliare e di lasciare soltanto tre ore di sonno al giorno? È questa l’ordalia che ha portato la 25enne Aria Kii a gettarsi nel vuoto per porre fine alla sua vita nel settembre del 2023.

 

La vicenda era stata prontamente insabbiata dall’azienda che gestisce la compagnia teatrale ma è stata riportata a galla dall’ineffabile Shuukan Bunshun, testata con una lunga e gloriosa tradizione di caccia agli scheletri negli armadi. Nella primavera di quest’anno i dirigenti dell’azienda in questione hanno pubblicamente ammesso la loro responsabilità nel non essere stati in grado di vigilare adeguatamente l’ambiente lavorativo delle attrici.

 

Duole dire che per la società giapponese uno scenario così è tutto fuorché inconsueto: il proverbio «il chiodo che sporge verrà martellato» illustra ancora con una certa fedeltà le dinamiche sociali che si formano all’interno delle istituzioni giapponesi – siano esse scuole, aziende, partiti.

 

Negli ultimi tempi c’è un evidente cambiamento in atto soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro, ma il bullismo allo scopo di creare coesione all’interno di un gruppo è una pratica a cui i giapponesi ricorrono abitualmente e che non sembra soffrire di particolare disapprovazione sociale.

 

Dal Giappone ci chiediamo con sincerità come un giornalista italiano – di area woke, ma anche solo attento a seguire i dettami del politicamente corretto elargiti ai corsi di deontologia dell’Ordine – potrebbe riportare la notizia della triste morte di Aria, con lo stuolo di angherie subite in un contesto esclusivamente femminile.

 

Taro Negishi

Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo

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Lucerna annulla il concerto della Netrebko, Berlino la invita a cantare

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Il concerto in Svizzera della cantante lirica russa Anna Jur’evna Netrebko, previsto per il 1° giugno, è stato annullato su richiesta delle autorità locali, hanno riferito ai media i rappresentanti della sala da concerto della città di Lucerna.   In una dichiarazione al quotidiano Luzerner Zeitung, la direzione del KKL (Kultur und Kongresszentrum Luzern) ha spiegato che «la percezione pubblica del solista resta controversa», riferendosi alle accuse secondo cui Netrebko rimane vicino al presidente russo Vladimir Putin, avendo rifiutato di prendere le distanze da lui dopo l’avvio del conflitto in Ucraina.   La sede del KKL ha inoltre affermato che la vicinanza del concerto alla data e al luogo della prossima Conferenza di pace in Ucraina, prevista per il 15 giugno al Burgenstock, nella città di Nidvaldo, avrebbe causato «una minaccia all’ordine pubblico», secondo quanto affermato da un politico lucernese, riporta EIRN. Ci sarebbero stati «almeno un migliaio» di manifestanti all’esibizione di Netrebko.

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Anche il consigliere comunale di Lucerna, Armin Hartmann, ha dichiarato ai media che l’ufficio del sindaco ha chiesto esplicitamente al KKL di annullare l’esibizione di Netrebko, affermando che «non riteniamo appropriato che un artista russo presumibilmente fedele al regime si esibisca a Lucerna».   Il sindaco Beat Zusli ha anche affermato che «un artista che ha preso le distanze dalla guerra ma non ha mai rinunciato al regime russo, non dovrebbe apparire in città», per non causare «danni alla reputazione» della regione.   In risposta, gli uffici della Netrebko ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna l’annullamento unilaterale della sua esibizione «contrariamente agli obblighi contrattuali» degli organizzatori e sottolinea che la conferenza di pace in Ucraina si terrà due settimane dopo il concerto previsto.   I rappresentanti della cantante hanno sottolineato che «nessuna delle quasi 100 esibizioni di Anna Netrebko dal marzo 2022 ha portato a un disturbo dell’ordine pubblico».   Il management della cantante ha anche sottolineato che, dopo lo scoppio del conflitto ucraino nel 2022, Netrebko si è espressa pubblicamente contro i combattimenti e ha chiesto la pace in Ucraina. Da allora non è più tornata in Russia, poiché vive in Austria dal 2006.   La questione Netrebko ha portato giovedì anche il ministero degli Esteri ucraino a denunciare la decisione dell’Opera di Stato di Berlino di riportare indietro il soprano russo di fama mondiale, una grande artista che era stata precedentemente «cancellata» per essersi rifiutata di denunciare il suo Paese.   «La voce dell’Ucraina in Germania dovrebbe essere ascoltata più forte del soprano Anna Netrebko», ha affermato il ministero di Kiev in un post su Facebook, rivelando che il regime ucraino aveva compiuto sforzi per impedire alla cantante russa di esibirsi a Berlino, ma i suoi sforzi «non hanno avuto la risposta adeguata».   La Netrebko prenderà parte alla première di venerdì del Macbeth. L’Ucraina intende protestare contro la sua presenza inviando l’ambasciatore Oleksiy Makeev alla mostra anti-russa allestita accanto al teatro dell’opera, accompagnato dal senatore per la cultura di Berlino Joseph Chialo, ha detto il ministero. Makeev ha anche pubblicato un editoriale in cui denuncia Netrebko in diversi organi di stampa tedeschi.

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La Staatsoper Unter den Linden, come viene ufficialmente chiamata l’opera berlinese, ha annunciato alla fine di agosto che intende riprendere la collaborazione con la Netrebko, adducendo che non si è esibita in Russia di recente.   Come riportato da Renovatio 21, la battaglia dell’Ucraina contro la Netrebko in Germania è risalente, e non si tratta della sola Germania: lo scorso settembre era emerso che pure le autorità ceche, sotto pressione, hanno annullato l’esibizione programmata di Netrebko a Praga il mese scorso.   La musica classica – settore di eccellenza di tanti artisti russi, dall’opera al balletto e oltre – è sempre più teatro della guerra della russofobia, con le pretese allucinanti del regime di Kiev spesso assecondate dai Paesi occidentali, nonché episodi al limite del tollerabile come quello della nona di Beethoven, cioè L’Inno alla gioia, dove viene ora inserita la parola «Slava», che ricorda ovviamente da vicino lo slogan banderista, cioè neonazista, «Slava Ukraini».   Come riportato da Renovatio 21, la furia russofoba era tracimata anche in Italia, facendo saltare in provincia di Vicenza il balletto Il lago dei cigni di Tchaikovskij, compositore che ha la colpa di essere russo.  

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La nona di Beethoven trasformata nel canto banderista «Slava Ukraini»

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La direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» eseguirà la famosa nona sinfonia di Beethoven, quella ispirata all’ode Inno alla gioia (An die Freude) del drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Lo riporta EIRN.

 

Tuttavia, secondo quanto si apprende, la Wilson starebbe sostituendo la parola «Freude» nel testo con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.

 

A causa di quanto accaduto nella prima metà del secolo, in Germania non si può cantare «Heil!» in tedesco senza invocare «Heil Hitler!», né si può dichiarare ad alta voce «Slava!» in Ucraina senza invocare lo «Slava Ukraini» canto dei sanguinari collaboratori locali del Terzo Reich, in particolare il Bandera.

 

La Wilson, che si vanta delle sue origini ucraine via nonna materna e della sua comunità ucraina di Winnipeg, Canada (Paese, come è emerso scandalosamente con il caso Trudeau-Zelens’kyj, pieno di rifugiati ucronazisti), ha rilasciato ieri il suo comunicato stampa.

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«La decisione di cantare il grande testo di Schiller per la Nona Sinfonia di Beethoven in ucraino è stata per noi un’importante dichiarazione artistica e culturale più ampia» ha dichiarato il direttore. «Putin sta letteralmente cercando di mettere a tacere una nazione. Non saremo messi a tacere. Il nostro unico emendamento a Schiller è che invece di cantare “Freude” (Gioia) canteremo “Slava” (Gloria), dal grido della resistenza ucraina di fronte alla spietata aggressione russa, Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina!)».

 

Notiamo l’interessante inversione in corso presso la sinistra e l’establishment: la «resistenza», oggi, la fanno i nazisti…

 

 

 

«Mentre l’Ucraina continua la sua lotta a nome del mondo libero, ha bisogno più che mai del nostro sostegno e porteremo con orgoglio il nostro messaggio in tutta Europa e negli Stati Uniti» ha continuato la Wilsona, che ha eseguito per la prima volta la sua versione banderizzata di Beethoven il 9 nel dicembre 2022 a Leopoli con la sua Ukraine Freedom Orchestra.

 

Nel 2023, l’importante casa discografica della classica Deutsche Grammophon ha registrato l’esecuzione del suo primo tour europeo a Varsavia, e quest’anno vi sarà la pubblicazione, proprio nel bicentenario dell’opera di Beethoven. Vi sarà quindi una tournée quest’estate che toccherà Parigi, Varsavia, Londra, Nuova York e Washington.

 

Secondo quanto riporta EIRN, «si dice inoltre che il prossimo progetto della Wilson coinvolga la sostituzione della parola “agape”» (cioè, in greco, amore disinteressato, infinito, universale), termine contenuto nella lettera di San Paolo ai Corinzi (capitolo 13), «con «agon» o «eris» (cioè, contesa, lotta, conflitto)».

 

Se fosse vero, sarebbe un altro tassello del quadro che si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi. Dalla gioia alla guerra. Da Cristo a Nietzsche.

 

Va così, perfino nella musica classica.

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