Intelligence
Piazza Angleton. Ricordo del vero liberatore dell’Italia
L’anno scorso al 25 aprile vedemmo uno spettacolo indimenticabile. Alla marcia di Milano, quello in cui ogni sigla di sinistra possibile sfila da Piazzale Loreto – luogo del sacrifizio del cinghialone su cui si basa la Repubblica – ne accaddero di ogni.
Vedemmo, stropicciandoci molto gli occhi, comparire alla marcia… bandiere della NATO. Sì, proprio loro: e ci stavano pure delle persone, non dei robocani della Boston Dynamics, che le brandivano.
Spuntavano poi ovunque vessilli ucraini – si era a due mesi neanche dall’inizio dell’operazione militare speciale di Putin, che la sera prima aveva parlato dell’obiettivo, molto 25 aprile, di «denazificare» l’Ucraina.
Non sappiamo dire se a Milano sfilò anche qualcuno con i simboli del battaglione Azov, che all’epoca, prima del restyling con il quale si sono presentati pure a Washington, a Disneyland e a Tel Aviv, comprendevano una runa «dente di lupo» e un bel Sonnenrad, il «sole nero» della mistica SS.
C’è da dire che non tutti i presenti erano d’accordo. Ricordiamo con gusto il signore che apostrofava degli ucrainisti lì presenti dicendo loro «Azov dimmerda!!!».
Parimenti, gruppi di ragazzi di sinistra attaccavano l’allora segretario PD Letta accusandolo di essere «servo della NATO». I fanciulli goscisti, poverini, forse non sapevano che sia Letta che Renzi (tutti e due, poco tempo fa, capi di quello che fu il Partito Comunista) sono stati in lizza per il posto di Stoltenberg, cioè di segretario della NATO, vertice visibile del più grande e distruttivo patto militare della storia. Insomma, non esattamente «servi»: trovassero, i contestatori, un’altra definizione.
Tutto lo spettacolino, in fondo, era inevitabile, perché parlava dei nodi che, anche se a distanza di decenni, vengono al pettine. Chi ha liberato davvero l’Italia?
E poi: in Italia comanda chi l’ha liberata? Comanda chi l’ha liberata sulla carta, o chi l’ha liberata sul serio?
Tante foglie di fico, abbiamo visto, sono saltate. Quello che fu il partito comunista più grande d’Occidente ora difende l’americanismo più parossistico, il liberalismo più disperante, sostiene il regime di Kiev con le sue truppe di nazisti conclamati.
«Il 25 aprile si basa su un falso storico e cioè che siamo stati noi italiani a liberarci con le nostre stesse mani, mentre in realtà sono stati gli alleati angloamericani nelle cui file combattevano anche i razzisti sudafricani» ha dichiarato l’anziano giornalista, bastian contrario di professione, Massimo Fini in un’intervista all’Adnkronos. Non che siano partiti i dovuti 92 minuti di applausi di fantozziana memoria.
E allora, chi ha liberato l’Italia?
Beh, è facile dire che i partigiani hanno dato il cosiddetto «calcio dell’asino», che il grande lavoro lo hanno fatto le forze angloamericane.
E tale «lavoro», sappiamo bene cosa comprendeva: accordi con la mafia per lo sbarco in Sicilia, e poi bombardamenti a tappeto sulle nostre città, praticamente tutte, compresa Roma, fino a che, come non ne eravamo saturi. Saturation bombing, dicono, ma lo chiamano anche Strategic bombing, o meglio ancora, Terror bombing. Churchill ad un certo punto, dopo Dresda, lo ammise: era un «act of terror», era puro terrorismo. Dinanzi alle obiezioni del generale della RAF Arthur Harris, si rimangiò poi il commento.
L’Italia l’ha liberata «Pippo», in Italia lo chiamavano così, il bombardiere di cui mia nonna aveva ancora il terrore, perché quando arrivava doveva vestire i bambini che dormivano per trovare rifugio da qualche parte, e, mi raccontava, questi si riaddormentavano appena aveva finito di prepararli tutto.
«Pippo», mi disse mio zio, che era uno di quei bimbi, era ovunque, in una visione che non può dimenticare: «Pippo» copriva il cielo intero, c’erano così tanti aerei americani che era impossibile contarli, si poteva solo aspettare che finissero, che il cielo tornasse ad essere fatto di nuvole, e non di macchine di morte.
Sì: vogliono raccontarci che l’Italia è stata liberata da una gioventù comunista – scopertasi tale in pochi giorni – e non dall’immensa potenza cinetica dell’apparato di morte americano, quello che di lì a poco avrebbe spazzato via due intere città giapponesi con la potenza ultradistruttrice dell’atomo.
Torniamo a dire: semplice pensarla così. Semplice dire che è stata la forza degli angloidi a vincere la guerra e a denazificare l’Italia. In realtà in questo articolo, vorremmo fare un’altra cosa. Vorremmo fare qualche nome.
Ci sono figure con nome e cognome che, dietro le quinte, molto dietro le quinte, praticamente invisibili e misconosciuti ai più, hanno creato l’attuale Stato italiano. Ci sono agenti segreti, operativi sul terreno. Poi, più in su, vi sono menti decisive altissime, di quelle di cui non si sente parlare, anche perché parte del loro lavoro è fare in modo che non si parli di loro, e la Storia sembri qualcosa di lineare, naturale, progressiva, e non qualcosa di scelto da un potere terreno superiore.
Tra gli operativi sul campo da qualche anno si è cominciato a parlare di Richard «Dick» Mallaby (1919-1981), britannico cresciuto tra i campi da the dello Sri Lanka e le colline toscane. Divenuto spia dello Special Operations Executive (SOE) durante la guerra, fu utilizzato da Londra per favorire l’armistizio con gli angloamericani. Di fatto, dopo la proclamazione dell’armistizio del 1943, Mallaby viaggiò incorporato alla corte del Re e del Badoglio da Roma a Brindisi: una figura segretamente fondamentale in quella che si chiama «la resa degli ottocentomila». Successivamente Mallaby lavorò alla NATO, fino al 1981, quando morì a Verona. Al suo funerale era presente il generale Dozier, quello rapito dalle Brigate Rosse. Attualmente, tra film e teatri, circola la nipote Elettra, attrice di fascino magnetico, che come nonno materno ha Giussy Farina, il presidente che ha venduto il Milan a Berlusconi.
Se passiamo alle menti che davvero conquistarono l’Italia, il nome da fare è quello di James Jesus Angleton (1917-1987).
Pochissimi sanno di chi si tratta. La storiografia italiana, quella fatta di tanti comunisti inutili attaccati alle varie greppie accademico-editoriale che elargiscono stipendi e pubblicazione di libri inutili, lo ignora da sempre – nonostante i segni della sua importanza siano autoevidenti. Così come sono lampanti i tratti di grande dramma, di tragedia, di poesia, l’arco esistenziale romantico (diciamo così) che promana dalla sua figura.
Angleton era nato a Boise, in Idaho, da un ufficiale di cavalleria statunitense ed una messicana. Passò la gioventù a Milano, perché al padre era stato affidato il ramo italiano della NCR, una ditta di registratori di cassa. Studiò brevemente in Inghilterra per poi laurearsi a Yale. La sua materia era la poesia, in particolare quella modernista, astratta ad ermetica (William Carlos Williams, e. e. Cummings, Thomas S. Eliot, soprattutto Ezra Pound, con cui corrispondeva, anche quando nel dopoguerra lo teneva al gabbio) del periodo tra le due guerre. Poeta lui stesso, era redattore della rivista studentesca di poesia Furioso.
Mel 1943 fu arruolato dall’esercito, anche se in realtà lavoro immediatamente per l’OSS, l’agenzia di spionaggio antesignana della CIA, per dirigerne la branca italiana. Mandato a Londra, divenne amico di Kim Philby, che poi si rivelerà essere un agente doppio di Stalin. Nel 1944 fu trasferito in Italia come comandate dell’unità Z della SCI (Secret CounterIntellingence), dove usa informazioni che venivano dal programma britannico di decrittazione dei segnali tedeschi chiamato Ultra, quello che decifrò le macchine Enigma grazie al genio del matematico Alan Turing.
Da qui Angleton diresse praticamente ogni sviluppo del nostro Paese. Si racconta che fu lui a gestire i rapporti con la mafia, che permisero agli Alleati di sbarcare in Sicilia (si dice, tra i canti della popolazione: «Viva l’America! Viva la mafia!»).
Fu in contatto con l’allora sostituto Segretario di Stato Vaticano Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI – il quale, come raccontato da Renovatio 21, ha avuto un ruolo nel bloccare le richieste di armistizio con gli americani che i giapponesi avevano mandato attraverso la Santa Sede, cagionando quindi la distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki.
Angleton favorì quindi la costituzione di un partito maggioritario non-comunista che dovesse ereditare il potere centrale: ecco la Democrazia Cristiana, la cui ideologia, va ricordato, ha pure una base di università americana: Jacques Maritain, l’ideologo del cattodemocratismo il cui libro Umanesimo Integrale i futuri capi della DC leggevano e discutevano durante la guerra, era un francese riparato negli USA dove era stato accolto dal sistema dell’accademia statunitense e dai suoi sponsor, economici e settari, che avevano bisogno di una forma di cattolicesimo compatibile con la democrazia liberale da impartire alle popolazioni europee «liberate».
Non solo bisogna calcolare l’influenza di Angleton sulla creazione della DC, ma anche sulla sua vittoria contro il PCI alle elezioni del 1948. Parimenti, un pensiero andrebbe fatto anche sulla sua influenza nel referendum monarchia/repubblica del 1946.
In pratica, è l’uomo che organizzò e vinse la lotta ideale e materiale al nazisfascismo, e poi plasmò il Paese sia nella sua forma visibile (la politica, il parlamento) che nel suo strato invisibile (i servizi segreti, la mafia). E non vogliamo nemmeno immaginare il suo ruolo riguardo la stesura della Costituzione. Angleton è un vero padre della patria.
La storiografia italiana, cioè quella dei professorini occhialuti forforosi panzoni mantenuti con i loro truogoli statal-partitici editoriali di cui si parlava prima, lo ricorda appena per la questione di Junio Valerio Borghese, il capo della Decima MAS cui Angleton riuscì ad evitare l’esecuzione portandolo da Milano a Roma vestito da ufficiale americano.
In seguito, sarebbe divenuto la «madre della CIA» (il padre dell’agenzia è considerato da taluni l’ammiraglio Donovan, che lo aveva reclutato). Pur mantenendo sempre spie in Italia che riportavano direttamente a lui, si occupò di quantità di operazioni mondiali (si dice che aiutò il programma nucleare israeliano), per poi concentrarsi nel controspionaggio interno americano, dove le talpe di Stalin abbondavano, e la rivelazione che il suo amico Philby era un traditore comunista lo sconvolse.
Il controspionaggio gli distrusse la mente, e qualcuno ha detto che questo fu il risultato di un programma esplicito del KGB, che gli faceva arrivare informazioni contrastanti e falsi disertori per confonderlo e farlo diventare paranoico. I suoi sospetti divennero incontrollabili. Diresse l’Operazione CHAOS con la quale spiava cittadini americani. Disse che il segretario di Stato Henry Kissinger era sotto l’influenza del KGB. Informò due volte la polizia canadese che il prima ministro di Ottawa Lester Pearson e il suo successore Pierre Trudeau (il padre dell’attuale premier Justin, che qualcuno ritiene però figlio biologico di Fidel Castro) erano agenti KGB, così come erano asset dei servizi sovietici il primo ministro svedese Olof Palme (poi trucidato a Stoccolma in un caso ancora irrisolto) e il cancelliere della Germania Ovest Willy Brandt (famoso per la sua Ostpolitick, politica di apertura verso oriente).
Angleton sospettava di chiunque. Era finito in quello che lui stesso chiamava, con l’estrema poesia di Thomas Eliot, «wilderness of the mirrors», il deserto degli specchi. Mondi fatti di riflessi, di ombre, di informazione, controinformazione, dove la propria lucidità è l’arma da cui si procede alla salvezza della propria parte, ma niente è come sembra, niente è davvero reale.
Nel 1974, in seguito ad un articolo di Seymour Hersh sul New York Times sullo stato del controspionaggio americano, Angleton si dimise. Era la viglia di Natale.
Quando morì di cancro del 1987 la sua famiglia era entrata in gruppi religiosi sikh, con l’influenza specifica del guru Harbhajan Singh Khalsa, detto Yogi Bhajan, santone dello yoga accusato poi di molestie sessuali da centinaia di donne sue seguaci.
Su Angleton vi sono due opere ragguardevoli – ma, bizzarramente, parliamo di film hollywoodiani e non di libri. Una è la miniserie The Company (2007), una storia della CIA basata sul romanzo di Robert Littel, dove Angleton è interpretato dal luciferino Michael Keaton. L’altra è la pellicola di Robert De Niro (che oltre ad essere uno dei più grandi attori della storia è un regista enorme) The Good Shepherd (2006), con Matt Damon e Angelina Jolie. Il film di De Niro, che non nomina direttamente Angleton ma se ne ispira dettagliosamente, pone con determinazione questioni sulle quali gli storici ancora cincischiano, come il rapporto tra CIA e mafia, continuato intensamente anche dopo la guerra, e soprattutto quello della CIA come sorta di società iniziatica nata dalla setta universitaria di Yale Skull and Bones (non nominata direttamente, ma rappresentata in modo egregio nei suoi riti di iniziazione umilianti).
Ma al di là di film, che peraltro nessuno ricorda, niente di niente. Sulla sua figura, così rilevante per la struttura stessa del nostro Paese, non c’è nulla, nessuno che lo voglia non dico celebrare, ma anche solo mandargli un pensiero grato. Tanti poteri che hanno prosperato dopo la liberazione dovrebbero ringraziarlo, invece niente. Magari lui non si offende: del resto era pagato per rimanere nell’ombra, e ci è voluto mezzo secolo prima che ci facessero sopra, timidamente, un film.
Di qui la proposta di Renovatio 21 per il prossimo 25 aprile: si faccia entrare Angleton nella toponomastica italiana. Via Angleton. Corso Angleton. Piazza Angleton.
Abbiamo nelle nostre città quantità di luoghi che portano il nome del satanico terrorista massonico Giuseppe Mazzini, che è morto in esilio come un Bin Laden qualunque. Immaginiamo che la superfetazione di vie mazziniane in Italia sia dovuta, oltre all’influenza di quelli col grembiule, che non manca mai, anche al fatto che si ritiene che il Giuseppe abbia contribuito alla forma dell’Italia attuale (compresa la strana mancanza di appetito del personaggio per territori italofoni come Malta, dove in effetti ci stavano gli inglesi etc.)
Quindi, a coloro che hanno nei decenni e nei secoli definito la forma del Bel Paese, perché non tributare il giusto?
È possibile pensare che, con tutto il rispetto per il nome della località del grande santuario mariano, si possa ribattezzare Piazzale Loreto come Piazza Angleton?
Sarebbe d’uopo. Se da Piazza Angleton poi partissero tutte le comitive del 25 aprile, NATO e ucraini inclusi, sarebbe un grado di onestà intellettuale per tutti.
Liberazione dalle menzogne e dall’ingratitudine, innanzitutto. No?
Roberto Dal Bosco
Intelligence
Harvey contro Philby, storie di spie e lotte intestine agli albori della CIA
L’FBI non riuscì ad aggiudicarsi il controllo dell’Intelligence americana nel dopoguerra ma non per questo John Edgar Hoover (1895-1972) si ritirò dalla competizione. Lo sforzo profuso da William Harvey (1915-1976) nell’estrarre delle prove soddisfacenti dalla spia sovietica Elizabeth Bentley (1908-1963) non diede i suoi frutti ma i successivi approfondimenti degli interrogatori misero in luce la reale penetrazione sovietica negli apparati statunitensi.
Harvey lasciò l’FBI e poco dopo entrò nella CIA, secondo la versione formale ebbe a ridire con Hoover in seguito al fiasco del caso Bentley. La versione di Joseph J. Trento nel suo The Secret History of the CIA invece racconta come Harvey divenne la talpa di Hoover all’interno della CIA. Sia Hoover che Harvey erano convinti che i vecchi membri dell’OSS passati alla CIA avevano un passato che li rendeva vulnerabili all’essere reclutati come spie sovietiche.
Kim Philby (1912-1988), britannico, uno dei più famosi agenti doppiogiochisti nella storia dello spionaggio, nella sua autobiografia descriveva le differenze tra gli uomini dell’FBI e della CIA: «gli uomini dell’FBI sono orgogliosi della loro ignoranza, di essere cresciuti nell’ordinarietà, bevono whiskey dissetandosi con la birra. Al contrario, gli uomini della CIA hanno un atteggiamento cosmopolita. Discutono sull’assenzio e servono un Borgogna appena sopra la temperatura ambiente. Non è solo una questione di frivolezza è una fondamentale spaccatura sociale tra le due organizzazioni».
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Harvey possedeva una tenacia che nessun altro aveva. Il vantaggio sui suoi colleghi era che lui stava combattendo contro un nemico al contrario degli altri. Per Harvey i servizi segreti sovietici dell’NKVD e in seguito il KGB i servizi segreti sovietici, erano criminali. Lui era un poliziotto e la sua visione del controspionaggio rimaneva quella del poliziotto.
Bill Harvey era l’uomo giusto al momento giusto, proprio in quel momento la United States Army Security Agency, il precursore della NSA, National Security Agency, stava cominciando a decriptare un codice sovietico chiamato VENONA. Molti dei messaggi stavano confermando le dichiarazioni rilasciate dalla Bentley proprio ad Harvey. Il quadro che ne stava uscendo era che i Sovietici avevano spiato America e Inghilterra durante tutto il periodo bellico.
Harvey era stato commissionato a seguire il nuovo ufficio dell’OSO, Office of Special Operation, chiamato «Staff C» e dedito al controspionaggio. Il suo nuovo ufficio si trovava non lontano dal Lincoln Memorial e il suo nuovo collega era l’ex agente dell’OSS, reclutato dall’ufficio di Roma, James Jesus Angleton (1917-1987). Nonostante le differenze tra classi sociali e interessi i due legarono immediatamente.
Harvey era estremamente colpito dal lavoro di controspionaggio portato avanti da Angleton negli anni da agente dell’OSS ma la cosa che più affascinava e disturbava l’ex FBI era la sua strettissima relazione con la superspia Kim Philby. I loro incontri erano talmente abituali che si sentivano praticamente ogni giorno e i pranzi assieme avvenivano più volte a settimana. Philby a sua volta aveva stretti contatti anche con Allen Dulles e con il suo braccio destro, Frank Wisner, responsabile dei Clandestine Services.
Nel 1949 quando il codice VENONA venne decriptato per la prima volta, Philby venne mandato dall’MI6 nella capitale americana per lavorare con la CIA sull’individuazione dei doppiogiochisti. In particolare il britannico avrebbe dovuto lavorare su HOMER, identificato come colpevole di aver sottratto informazioni dal progetto Manhattan a favore dei sovietici. Sia gli americani che gli inglesi erano convinti che fosse impiegato nell’ambasciata britannica a Washington.
Harvey iniziò a sviluppare crescenti sospetti su Philby e sul suo compagno di università a Cambridge, Donald Maclean (1913-1983), di cui era fermamente convinto fosse HOMER. Cercò il supporto di Angleton e di chiunque altro avesse volontà ad ascoltare nella CIA ma senza incontrare alcun appoggio. Improvvisamente Maclean venne promosso all’ambasciata inglese del Cairo e sostituito con Guy Burgess (1911-1963), anche lui compagno d’università di Philby a Cambridge.
I sospetti di Harvey crebbero sempre più, rendendosi conto che Philby aveva accesso al progetto VENONA e che contemporaneamente diverse operazioni clandestine non avevano portato i frutti sperati come in Albania, Lettonia, Lituania ed Estonia.
Philby nel frattempo aveva sposato una ragazza ebrea austriaca, comunista dichiarata, al suo matrimonio era presente anche Teddy Koellek futuro sindaco di Gerusalemme, che ammonì Angleton di rimuovere immediatamente Philby dalla sede della CIA. Ma Angleton, anche per non portare alla luce i suoi contatti con il Mossad, mantenne il riserbo sul loro scambio.
Una sera durante una cena a casa di Philby, complice l’elevato tasso alcolico di Burgess, i rapporti con Harvey si ruppero definitivamente. Successivamente alla cena, precisamente dal venticinque maggio 1951, Guy Burgess e Donald Maclean scomparvero. Era l’inizio della loro personale odissea verso l’Unione Sovietica e non sarebbero riapparsi in superficie per almeno altri cinque anni.
Il generale Smith, direttore della CIA in quel momento, pretese un documento scritto da chiunque avesse avuto rapporti personali con le talpe sovietiche. Bill Harvey dopo aver letto il resoconto di Angleton ci scrisse sopra: «qual’è il resto della storia?». I due ruppero i loro rapporto da quel momento in avanti, Harvey non riuscì a capire la posizione di Angleton, chiedendosi quale potesse essere il movente che avesse spinto il suo collega.
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La conclusione della storia scosse alle fondamenta le basi dell’intero sistema dell’intelligence inglese e americano. Il generale Smith ottenne che Philby venisse rimosso da Washington e contemporaneamente il controspionaggio inglese aprì un indagine su di lui.
Per Harvey però non si poteva parlare di vittoria, come con il caso Bentley non c’erano abbastanza prove per un accusa definitiva. Sarebbe dovuto diventare un eroe a Langley ma invece venne sempre trattato con sospetto per aver accusato un membro del club. Il futuro della CIA non sarebbe stato lui ma Allen Dulles e Richard Helms che impersonificavano appieno lo spirito dell’agenzia.
«La gerarchia della CIA rimaneva immutata nel suo sistema inglese», disse William Corson, autore e colonnello della CIA in pensione, «amicizia, OSS e la rete dei vecchi commilitoni. Questo era esattamente il modo in cui Dulles misurava le persone». Philby rimaneva un membro del club, mentre Harvey non lo sarebbe mai potuto diventare. Nessuno lo voleva più nella sede centrale e proprio per questo Harvey accettò il trasferimento a Berlino, dove il generale Smith gli accordò il controllo totale dell’ufficio.
La BBC pubblicò nel 2016 un video in cui Philby raccontava nel 1981 la sua esperienza a membri della Stasi. La spia descriveva la sua carriera come doppiogiochista di successo debitrice verso alcune variabili che gli vennero in aiuto.
La mitologica efficienza dell’MI6 era, durante la guerra, semplice propaganda, infatti potè ogni notte tornare a casa con i documenti segreti, fotografarli e consegnarli a corrieri sovietici senza mai incorrere in alcun ostacolo, sino a divenire a capo del dipartimento di controspionaggio con il compito di scovare spie sovietiche, libero dal rischio di accuse grazie all’appartenenza all’alta classe sociale inglese. Nessuno si sarebbe mai permesso di accusarlo con il rischio di venire distrutto da un terribile scandalo.
Marco Dolcetta Capuzzo
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; modificata
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Conflitti nell’Intelligence americana: la storia dell’OSS contro l’FBI e la creazione della CIA
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La CIA ha cercato di reclutare Winston Churchill
Negli anni Cinquanta la CIA tentò di coinvolgere l’ex primo ministro britannico Winston Churchill, figura di spicco durante la Seconda Guerra Mondiale, per trasmettere messaggi di propaganda attraverso Radio Liberty, un’emittente finanziata dall’agenzia, con l’obiettivo di indebolire l’Unione Sovietica. Lo riporta il giornale britannico Telegraph.
Durante il culmine della Guerra Fredda, Radio Liberty, sostenuta dalla CIA, colpiva l’URSS con trasmissioni propagandistiche, mentre la sua controparte, Radio Free Europe, si concentrava sugli alleati di Mosca. Entrambe le emittenti erano segretamente controllate e finanziate dall’agenzia di intelligence statunitense fino al 1972, per poi fondersi in RFE/RL nel 1976.
Nel 1958, i responsabili di Radio Liberty proposero di sfruttare il «revisionismo» che stava emergendo in Unione Sovietica, capitalizzando le divisioni ideologiche nel marxismo-leninismo per destabilizzare il regime, come indicato sabato dal Telegraph, che cita documenti CIA declassificati.
Secondo i documenti, la CIA puntava a utilizzare i «pensatori revisionisti», che si opponevano a un blocco sovietico compatto, promuovendo invece stati comunisti indipendenti.
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Churchill, all’epoca 83enne e ritirato dalla politica attiva, fu una delle figure di spicco considerate per condurre queste trasmissioni, scrive il Telegraph. Sebbene fosse un convinto anticomunista, come dimostrato dal suo celebre discorso sulla «cortina di ferro» a Fulton nel 1946, non vi sono prove che abbia accettato l’offerta, secondo il rapporto.
I programmi avevano l’obiettivo di «stimolare il pensiero eterodosso» e «minare la fiducia nel marxismo, suggerendo che i suoi principi fondamentali, il suo metodo storico e le sue previsioni fossero errati», secondo una nota informativa della CIA citata dal giornale.
Churchill aveva un rapporto personale con l’allora direttore della CIA, Alan Dulles. Tuttavia, nella primavera del 1958, quando gli fu proposto di partecipare a un programma di propaganda, declinò l’invito a visitare Washington per motivi di salute, come riportato dal Telegraph.
Più recentemente, RFE/RL ha continuato a ricevere finanziamenti da Washington attraverso l’Agenzia statunitense per i media globali (USAGM), fino ai tagli di bilancio imposti dal presidente Donald Trump, nell’ambito del suo programma di riduzione della spesa pubblica.
Il mese scorso, l’USAGM ha annunciato il licenziamento di oltre 500 dipendenti, dopo centinaia di tagli nei mesi precedenti.
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