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Pensiero

La morte, e quello che resta

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Ho compreso questa realtà quando, oramai una dozzina di anni fa, morì mio padre: quando se ne va un uomo, muoiono con lui tutte le sue storie. Immagino che per alcuni questa sia una banalità, chissà quanti già lo hanno detto, molto meglio di così. Massì: una frase da cioccolatini. Eppure, non se ne afferra  la verità estrema, e dolorosa, se non quando si è davanti davvero ad una morte – alla morte.

 

Sto parlando di quelle storie che, nell’epoca in cui siamo illusi che ogni informazione sia a portata di click, non compariranno mai da nessuna parte. Non su Google, né altrove. Pezzi di umanità che si estinguono irreversibilmente.

 

Quando è morto mio padre ho sentito subito che con lui sarebbe mancato un deposito enorme non solo di conoscenze, ma di storia umana, micrologica e macrologica, che si portava dentro. Non potevo più parlare con lui delle decadi passate: com’era il mondo, com’era il suo settore, com’era questo o quell’amico, i cicli di crisi economica, le nuotate da bambino nel torrente scavato sotto il monte, i parenti in Argentina e forse in Texas, le partite di pallacanestro dentro la Basilica Palladiana, la bisnonna che dava del voi al bisnonno, i ricordi delle macerie della guerra, la sua capacità profonda di leggere il mare dell’Istria e della Dalmazia, gli anni Cinquanta, gli anni Sessanta, gli anni Settanta, gli anni Ottanta, la sua esperienza di padre, di uomo. Tanto altro, ovviamente. L’insieme del senso che aveva recepito, per cui, in fondo, possiamo dire che aveva vissuto.

 

La vita è anche questa raccolta di informazioni, la vita è l’insieme di tutte queste storie che ci sono date a vedere, di cui siamo testimoni. Testimoniare, vivere… l’esistenza forse ha questa semplice base.

 

E poi: tramandare. Le storie che abbiamo raccolto trasmesse oltre a noi, nello spazio e nel tempo, ai figli, ai nipoti… Sì, il significato ultimo della parola «tradizione» altro non è che questo. Ricevi e trasmetti.

 

L’altro giorno appare su Whatsapp il messaggio. A., un amico dei tempi del liceo, è mancato. La trafila la conosciamo: lotta con la «malattia» che lo prende a fine 2021. Dapprima, mi hanno raccontato, sembrava in remissione. Poi l’evoluzione in male incurabile, con esaurimento dei cicli di cura. Non voglio chiedermi di più. Questo pattern, purtroppo, già lo ho veduto in altri amici, e il cuore ancora mi sanguina.

 

Aveva due figli, un bambino e una bambina dell’età dei miei. Lascia una moglie che, se non ricordo male, era stata la sua ragazza negli anni dopo la scuola.

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Ho provato a non pensarci. Letto il messaggio, ho risposto con un secco «Requiescat». Mi sono detto di andare avanti con la giornata senza farci caso, in fondo non era una persona che frequentavo, non avevamo molto in comune, e poi sapevo da tempo che stava male. Aggiungiamo che ad un funerale – un’altro del gruppo morto troppo presto, forse ne ho già scritto su queste pagine – mi era parso che mi avesse chiamato, dopo tanti anni che non ci vedevamo, «Alberto», cosa che mi aveva profondamento irritato: proprio lui che, membro attivo della Curva dello stadio sin da bambino, una volta mi accoglieva, quando arrivavo in motorino, con il coro celebrativo «Roberto /Dal Bosco / eh eh / oh oh».

 

In verità ci ho pensato in continuamente, almeno una volta l’ora negli ultimi tre giorni. La quantità di cose che la mia mente ha dissepolto autonomamente mi hanno via via spinto a scriverne: perché più passavano le ore, più capivo che le storie che A. portava con sé, erano a rischio di estinzione. Specie quelle per le quali posso dirmi testimone io, sia pure di quelle di qualche tratto eseiguo della sua esistenza. Il giornale locale ha fatto un trafiletto: era un tifoso storico del calcio cittadino. Non c’è traccia, nell’articolino, di chi fosse lui: me ne sono reso conto perché in testa avevo le mille storie giovanili.

 

Ho parlato con altri amici comuni, che erano rimasti più in contatto con lui. Mi hanno spiegato che negli ultimi giorni, quando ancora era lucido, raccontava come temesse che i figli sarebbero finiti per ricordare solo il periodo della malattia del padre, invece che quello che era davvero. La sua storia, la sua vera identità, sono a rischio di sparizione: anche di fronte ai bimbi che ha generato.

 

Non è una preoccupazione da poco, è un pensiero abissale, che, in alcune situazioni estreme mi sono trovato a fare pure io: cosa resterà di me ai miei figli? Cosa penseranno del loro padre? Se scompaio anzitempo, chi li proteggerà? Chi spiegherà loro? La fine della vita è la fine del materiale per il racconto che siamo tenuti a trasmettere. A meno che qualcuno questo racconto non lo custodisca, non lo ripeta, non lo faccia esistere nel ricordo e nella parola.

 

Sono a questo punto spinto a scrivere qualcosa su A., per quanto si tratta solo di quadretti giovanili, tuttavia fatti di esistenza vera, della quale io posso fare testimonianza diretta.

 

A. era un ragazzo sereno e gradevole. Alto, rasato, il viso angoloso e simpatico. Minorenne era già veterano rispettato della Curva Sud, con la particolarità che era forse l’unica figura ultras di alto livello a frequentare il liceo classico. Non solo: nel prestigiosissimo istituto cittadino vi insegnava latino e greco pure la madre. Lui tuttavia esibiva segni esteriori non esattamente da lettere classiche: bomber perenne, o al massimo giacca jeans, capello cortissimo, e il terrificante Oxford, assordante motorino preferito dai periferici studenti delle scuole tecnico-professionali, veicolo che qualcuno truccava sino a renderlo più veloce e rombante di tante motociclette.

 

Qui la prima storia: lo ferma la polizia, una sera tardi e, si dice, con una certa veemenza, mentre con l’Oxford e la sciarpa del Vicenza transitava casualmente davanti al nostro liceo dopo chissà quale serata. Gli chiedono: chi sei, cosa fai? Sono uno studente delle superiori, dice lui, che poteva dimostrare tranquillamente 25 anni quando ne aveva 16. E che cosa studi? Studio qui al liceo classico. Secondo la vulgata, la polizia non credette alle sue parole, tutte verissime, arrabbiandosi e incolpandolo. Non sarebbe stata l’ultima volta che le forze dell’ordine gli davano addosso, ma ne è uscito sempre intonso, perché innocente, perché A. era davvero, malgrado le toppe ultras sulla giacca, un bravo ragazzo.

 

Frequentava, come me, un gruppo di ragazzi e ragazze (tante, tantissime: come in nessun altro posto) che si era agglutinato organicamente in città in quegli anni, una compagnia conosciuta come «la Statua», perché il ritrovo era sotto una statua di Garibaldi (nota per essere ciclicamente sporcata di vernice rossa dagli indipendentisti veneti ancora cinquanta anni fa) in pieno centro storico.

 

«La Statua» era forse il gruppo umano più incredibile che abbia avuto modo di vedere. Non c’era alla base nessun senso tribale, nessuna categoria di censo, nessuna rete di conoscenza famigliare reciproca, nessuna comune distribuzione scolastica o drogastica. Non c’era quel principio clanico che rendeva il resto delle compagnie snob, tristi o violente. Non c’era, neanche in lontananza, una qualche meccanica di esclusione – davvero, come in un’utopia progressista, ma involontaria, riuscita ed irresistibile.

 

C’era, sorto davvero spontaneamente, un gruppo di giovani che proveniva da ogni scuola (dall’inarrivabile nostro liceo classico, allo scientifico, agli istituti professionali vari anche infimi) e persino dal mondo del lavoro, con ragazzi che a 15 anni già erano sotto padrone. C’erano due o tre che come A. che già bazzicavano da svariati anni il mondo ultrà (per il quale, considerati studenti e quindi capaci di scrivere, compilavano articoli per le fanzine, all’epoca cartacee, e in alcuni casi ho dato una mano pure io), ma alla maggior parte non importava nulla del calcio e voleva, come tutti, solo vivere e divertirsi.

 

C’erano tanti ragazzi di famiglie semplici, della piccola borghesia della provincia, con il veneto come lingua madre, ma c’erano pure tanti ragazzi del ceto medio-alto, con qualche riccone vero, che poteva parlarti dello shopping autunnale a Londra ma poi stava lì con tutti a passare quelle ore spensierate ed indimenticabili. C’erano soggetti della fuoranza (l’alterazione come orizzonte importante della ricreazione) così come quantità di persone che nemmeno toccavano le sigarette. Era una koiné umana mai vista, mai programmata, che a questo punto ritengo irripetibile.

 

Alla Statua, A. imperversava in tutti i modi. Aveva una strana capacità con le ragazze: puntava un determinato genere, arrivando persino a buttarsi su interi gruppi di amiche, che riusciva vittoriosamente ad espugnare, facendolo divenire come una sorta di harem però monogamico-sequenziale (prima una, poi dopo mesi un’altra, etc.) – noi lo chiamavamo «il canile di A.», ma era una definizione ingiusta, perché molte erano non erano neppure male. Aveva, con le giovani donne, questo approccio melenso – cheesy, direbbero gli americani – epperò, vedendo i risultati, davvero funzionale.

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La capacità di aspirare attenzioni amorose fu ad un certo punto perfino premiata pubblicamente: al termine di un’autogestione al liceo, dove ero stato eletto rappresentate di istituto (con un misero voto di protesta tradotto indegnamente in seggio grazie al meccanismo proporzionale), annunciammo varie premiazioni semiserie ai personaggi della settimana, tra cui il premio «aspirapolvere», pensato proprio per le aspirazioni di A. Al momento dell’annuncio gli fu consegnata, tra scroscianti applausi, un’aspirapolvere, tuttavia lui quasi non aveva sentito e avevamo dovuto chiamarlo varie volte, perché persino in quel momento era intento, in fondo alla palestra, a intortare una tizia. Non capendo e avendo ancora la testa nell’intortamento pro-canile, con il suo classico volto imbarazzato inforcò davanti a tutti l’aspirapolvere, forse pensando che volevamo che pulisse. Mai premio fu più azzeccato.

 

Poi c’era quest’altra scena: un ristorante fuori città, dove eravamo sciamati (su prenotazione di chi, non sappiamo, non ha importanza) in una cinquantina. Praticamente occupavamo il locale nella sua interezza, il suo unico grande salone era fatto solo di noi. Io sono intento a conversare con una fiamma incipiente, forse me la tiravo trattando di Storia dell’Arte, la mia attenzione è solo sulla ragazza e su nient’altro. Poi alzo lo sguardo e mi rendo conto che in sala non c’è nessuno: nel mezzo delle portate, sono tutti in giro, sono fuori a fumare o a fare chissà che, è tutto vuoto, a parte me, la fanciulla e… A. Il quale sta, stoico, eroico, mirabile, mangiando il suo piatto da solo. Le logiche di branco, con evidenza, per lui contavano fino ad un certo punto.

 

In realtà, c’è una storia che posso raccontare solo io. Quella dell’indimenticabile Ferragosto 1996. Avevamo, si e no, diciotto anni.

 

Succede che ci troviamo alla Statua il 14. Siamo pochi: i più sono in vacanza. Io sono appena tornato da Parigi, località che avevo imparato a raggiungere con facilità in autostop (possono venirmi i brividi se ci penso in relazione ai miei figli, ma credo di detenere ancora il record europeo: meno di dieci ore da casa mia sino alla Ville lumière), per cui già passavo per esperto della materia: una skill non indifferente visto che nessuno di noi aveva ancora la patente.

 

A questo punto A. fa la sua proposta: «Roby, andiamo a Jesolo. In autostop». Poi snocciola giù un programma romantico e convincente: «ci sono delle mie amiche al campeggio. Andiamo là, andiamo a festeggiare Ferragosto con loro». I telefonini era di là da venire: si trattava quindi semplicemente di arrivare fin là, senza mezzi e senza garanzie, e di stare con delle ragazze a caso (a me completamente sconosciute) in riva al mare.

 

A me va bene, A. Pronti. Via.

 

Mettiamo i motorino legati ad un albero fuori dal casello autostradale. Di qui parte il tragitto autostoppistico: secondo il manuale Dal Bosco, la prima cosa da fare è riuscire ad arrivare almeno al primo Autogrill, dove puoi chiedere di persona, senza che questi possano accelerare ed andare oltre protetti da un involucro di metallo. I primi a darci un passaggio sono una coppia di ragazzi di Milano, non molto più vecchi di noi, ma che chiaramente lavorano da molti anni. Vanno a Jesolo, si capisce, per le discoteche, una particolare scena di musica elettronica ora scomparsa. Hanno delle magliette attillatissime.

 

A. comincia a chiacchierare, e per qualche ragione, dopo spirali varie sulle mode del tempo, si inerpica in un’invettiva contro quelli col piercing. Il tizio davanti sta zitto. Poi, ad un certo punto, senza voltarsi, si alza la maglietta: sul capezzolo ha infilato un anello di metallo. A questo punto scatta la classica faccia paonazza imbarazzata di A., che comuncia ad arrampicarsi sugli specchi in maniera alpinistica. Sopravviviamo.

 

Arriviamo a Jesolo, e riusciamo a raggiungere il campeggio, che è fuori città, al Nord. Conosco il luogo: due mesi prima tutta la compagnia di vi si era trasferita per un fine settimana memorabile, un tendone da venti persone (ma ci stavano probabilmente dentro in trenta e più…) che qualcuno aveva portato, con il caffè fatto in una moca gigante nella quale si poteva fare pure la pasta. A., mi aveva spiegato, era poi tornato una seconda volta il mese dopo, e qui aveva conosciuto queste ragazze di Montebelluna, che in teoria erano ancora lì, e sembrava, a quel che diceva, che non aspettassero altro che vederci.

 

In realtà, delle ragazze non pare esserci traccia. Mentre si faceva sera, le cerchiamo ovunque, su è giù per il camping, che era immenso, e labirintico. Ad un certo dice: forse sono in centro, vanno a mangiare in quel posto. Ci spostiamo, sempre a dito, verso i viali dello struscio adriatico. Cerchiamo in un locale, in un altro: niente, delle ragazze promesse da A. non c’è traccia. Io non sono nervoso, lui un po’ sì. Decidiamo di prendere una pizza al trancio, e ci accade un raro miracolo giovanile: la commessa che ci serve – che era una ragazza neanche tanto in là con gli anni – invece che darci il resto per diecimila lire ce lo dà per centomila (sì, l’agognata banconota con su Raffaello, bellissima come tutte le altre, ma spiccatamente difficile da vedere per un ragazzino). In futuro, quando mi sarebbe ricapitato– raro, ma accade – lo avrei più fatto, ma quella volta è stato diverso: ci scambiamo un rapido sguardo colpevole, e decidiamo tacitamente di fare questa cosa orrenda per tenerci quel budget che di fatto decuplicava quanto ci rimaneva in tasca facendoci svoltare quel viaggetto pazzo, magari permettendoci pure l’indomani di prendere un autobus. (Non è escluso, ho pensato qualche volte, che quella ragazza lo abbia fatto apposta)

 

Saremo tornati almeno altre due volte al Campeggio, facendo la spola con la cittadina, nella speranza di trovare le ragazze. Io comincio a dubitare della loro esistenza, ma va bene così, mica mi importa. Specie quando decidiamo di andare nella spiaggia selvaggia davanti al camping ed unirci ad un falò di ragazzi e ragazze mai visti, intenti anche loro a passare lì la notte di Ferragosto.

 

Ci avviciniamo perché sentiamo che cantano, prima con l’accompagnamento della chitarra di ordinanza, poi con slogan che sanno da tifo. Lì per lì non capisco cosa stiano intonando, ma me lo spiega lui sghignazzando: «Priebke libero!». Erano i giorni dell’assoluzione del capitano delle SS al tribunale di Roma, e di certo questo non era l’umore che si leggeva sui giornali italiani – ma abbiamo capito che quello che finisce sui giornali spesso non è la realtà di come si sente la gente in giro. Il gruppo a cui ci uniamo non sembra però fatto di nazisti: anzi tanti sono tosatti dai capelli lunghi, più fanciulle tranquille. Gente semplice, di provincia. Tanta voglia vivere, che sento per intero.

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Stiamo con loro tutta la notte. Si parla si ride, si sorride. Si racconta. Si cantano le canzonette note. Non ricordo altro, nemmeno le loro facce, e forse non le ho nemmeno viste, perché era buio. Ricordo la facilità con cui A. riusciva ad entrare in sintonia con un gruppo di persone mai conosciute prima, una dote speciale che ho visto in poche altre persone nella vita. Del resto, perché mai non deve essere così? Siamo qui, siamo vivi: e quindi perché non dovremmo parlarci, stare insieme, divertirci?

 

Arriva l’alba. Il gruppone di sconosciuti e sconosciute si dissolve. Io sono stremato e vorrei dormire. Non è il caso di A., che a questo punto riparte alla cerca – alle cinque e mezza del mattino! – delle tizie del campeggio. Scatta a perlustrare ancora una volta il campo, io non riesco a tenerlo fermo, a dirgli fermiamoci, dormiamo almeno un’ora sulla sabbia finché è fresca… lui scansiona tutto il dedalo di tende e tendine, recuperando anche un grissino da un tavolino lasciato spreparato per intingerlo in un barattolone di nutella del tavolino successivo – la fame chimica si fa sentire.

 

Poi accade qualcosa di incredibile: qualcuno chiama A. Ci voltiamo: è una ragazza con la pelle ambrata e gli occhi chiari, capelli raccolti, un bel sorriso in volto, trucco, perfino elegante, perfetta come se fossero le sei di sera e non del mattino di una notte insonne. È proprio lei: la ragazza di Montebelluna che era stata promessa, l’amica di A. Esisteva, sì. Di più: aveva sentito da altri che l’avevamo cercata otto ore prima, e quindi ci aveva cercato anche lei – e trovato all’alba. Happy ending vero.

 

Io sono divertito dalla cosa – dovevamo stare a festeggiare la notte con loro, invece arrivano alla fine – ma esausto. A. invece è partito con il suo modus operandi mieloso ed infallibile, e alla fanciulla non sembra dispiacere. Quindi questa mi dice: senti, vuoi dormire? Sì, tanto. Bene, vieni in tenda da noi, c’è la mia amica che dorme lì, tu ti metti accanto. È così: mi infilano in una tenda dove c’è una biondina un po’ butterata che ronfa.

 

«Mettiti a dormire pure a fianco lei» mi dice, del resto altro spazio non c’era. Io penso che quando questa si sveglierà, farà un urlo vedendo uno sconosciuto al suo fianco. Anche questo pensiero mi diverte, ma la stanchezza è troppa. Crollo.

 

Quando mi sveglio c’è A. che mi chiama: «Roby… Roby». Ha un’espressione serena, e forse pure una punta di quella generosa dolcezza che mette con le ragazze. A fianco a me la biondina sconosciuta, che mi guarda sorridente anche lei. Non so che ore siano, ma capisco che bisogna andare. Non so A. cosa abbia nel frattempo, ma sembra sano e riposato. Ci offrono delle brioches, e salutiamo, avviandoci verso la strada che, a pollice alto, ci avrebbe riportato a casa.

 

Un ritorno non facile: si ferma a raccoglierci un tizio con una Citroen DS tipo «squalo» – auto che per alcuni è già di per sé un segno di possibile psicopatia – che guidava praticamente ignudo. Dopo un po’ di conversazione, emerge che il signore forse aveva assunto nelle ore precedenti dell’LSD. (Ecco, il lettore capisca che quando di lì a poco sarebbe uscito Paura e delirio a Las Vegas a me non poteva che sembrare un film neorealista). Ci irrigidiamo un po’. Riusciamo, con uno stratagemma, a scendere per trovare un altro passaggio, che ci lascia direttamente in autostrada, e dobbiamo tornare all’albero dove erano legati i motorini a piedi tra i campi e lo svincolo, consumati da 24 ore di incertezza e meraviglia.

 

Non ci saremo più visti tanto, dopo quel magico Ferragosto. Lo avrei incontrato, negli anni successivi, nel treno-bestiame che va all’università, a volte mi dava l’idea di non avere il biglietto, più che altro, capivo, perché risparmiava per qualcosa. Nonostante i guai che aveva avuto, da innocente, con le istituzioni, fu credo il primo del nostro a laurearsi.

 

Di qui parte tutta un’altra storia. Lui, che era uscito dal liceo con il 38 – all’epoca dei sessantesimi, un voto di sufficienza da alcuni ritenuto umiliante – fece una carriera professionale straordinaria. Si studiò, da solo, le lingue: divenne fluente in francese, inglese e spagnolo, e aggiunse, rara avis, il russo, che usava nelle trasferte a Mosca. Aveva iniziato a lavorare come venditore per una grande società energetica, per poi passare ad un’altra, in un’inarrestabile traiettoria ascendente di lavoro concreto, parallelo alla creazione di una bella, solida famiglia.

 

C’è anche questo da dire: ecco un caso di quelli che il nuovo sistema scolastico – che raccoglie dati e punteggi e per «orientare» il resto dell’esistenza dello studente – avrebbe potuto soffocare più di quanto ancora non abbia fatto il vecchio: un bruco a liceo che diventa farfalla nel lavoro, ma è ingiusto dire pure che fosse un bruco, perché lo ricordo come questa creatura dinamica, attiva, inesauribile, vitale. Amato da tutti: per quello che era, non per i voti, né per altro.

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Scrivo queste righe mentre qualche comune più in là c’è il funerale. Io non sono andato. Un po’ perché in fondo non gli ero cosi vicino (me lo ripeto ancora), un po’ perché sono diventato davvero stronzo con il rito, per cui un funerale della chiesa conciliare, con gli amici che parlano dal pulpito, le musichette, magari pure il defunto polverizzato e la funzione senza più nulla di sacro neanche nel momento sacro della morte, no, non posso più affrontarlo.

 

Ma ho sentito il bisogno di ricordarlo, perché tutto quello che A. è stato non può andare perduto, nemmeno le briciole di gioventù raccontate qui sopra. Quello che resta, anche dopo la morte.

 

È qualcosa che sento come un imperativo: se perdiamo le nostre storie, perdiamo la nostra umanità. Se affidiamo alle macchine le nostre relazioni – ai social media, alle chat, ai telefonini – di noi non rimarrà davvero più nulla. E ciò non è tanto a discapito nostro, ma a detrimento dei nostri figli, della memoria, grande o piccola, che siamo chiamati a conservare e trasmettere.

 

A Dio A.

 

Quel pezzettino in cui sei esistito a fianco a me lo posso testimoniare tutto.

 

Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri

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Abbiamo lanciato su queste colonne un mese fa una dura condanna dei cosiddetti Baby Boomer, cioè i nati dal 1946 al 1964, definendoli come «generazione perduta nel suo egoismo». In altri articoli, come quello sulle gemelle suicide Kessler, abbiamo definito sempre più il tiro riguardo la cifra utilitaristico-mortifera di questa fetta della popolazione.   Molti dei problemi che stiamo vivendo, crediamo, derivano da questo gruppo generazionale, cui tutto è stato concesso senza che nulla fosse dato in cambio. I boomer con il loro narcisismo tossico, la loro avarizia, il loro edonismo autistico hanno mandato alla malora il mondo, portandolo sull’orlo del collasso. I boomer come volenterosi carnefici della Necrocultura, come agenti di decadenza, come soldati della fine della Civiltà. Questa è un’analisi che non ci togliamo dalla testa.   Tuttavia, il lettore deve sapere come il direttore di Renovatio 21 abbia visto rimbalzare il concetto del male boomerro ad un evento, forse più prosaico di questi pensieri, cui ha partecipato di recente.

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Il vostro affezionatissimo un paio di mesi fa è andato a dare una mano a degli amici che producono tabarri durante una piccola fiera che si tiene in un castello medievale sperduto nel deserto padano piacentino. Nella piattezza della campagna emiliana (o… lombarda?) si tiene questa rassegna che dovrebbe essere incentrata sulla frutta antica, ma a cui partecipano vari artigiani.   Gli amici facitori di tabarri vi avevano allestito, con sforzo non indifferente, un piccolo banchetto ricchissimo: diecine di capi, il banchetto, lo specchio, il mobile per i cappellacci, manichini, locandine, foto, registratore di cassa e bancomatto. Lo scrivente era lì per aiutare: come presidente della Civiltà del Tabarro mica posso esimermi dall’opera di evangelizzazione, cioè di tabarrizzazione del mondo: convertire le moltitudini del paganesimo giubbotto per portarle verso la luce della verità vestimentaria, del gusto immortale, della storia umana, della Civiltà, del Tabarro.   Sono stati due giorni di fatica impressionante. In piedi per una diecina e più di ore, interazioni con centinaia di persone (non sempre piacevoli: ci arriveremo), una caviglia dolente perché rottasi cadendo a settembre per le scale dell’Università di Scampia (un’altra storia, un’altra volta).   Già dopo qualche ora abbiamo cominciato a percepire che forse gli avventori della fiera non rappresentavano esattamente il nostro target, ma in fondo non era vero – c’era qualcosa di diverso, di più sottile, che ci turbava.   Accanto a noi, c’era, appena separato da una colonna e dai nostri appendi-abiti, il banchetto di un ragazzotto oltre i cinquanta, simpatico e gentile, che vendeva un unico prodotto specifico: copertine di lana. Tali copertine non incontravano, diciamo, il gusto nostro e dei nostri amici: fatte di lana grezza, con fiorelloni e altri motivi non irresistibili…. e poi, l’idea che quelle sembravano coperte, più che da letto, da ginocchia, da divano, cioè da televisione.   Non riuscivo ad immaginarne altro uso: uno che guarda la TV (immagine che dentro di me è quasi divenuta antica, come un bisnonno che si scalda un pentolone d’acqua per lavarsi) e che, nel culmine della narcosi catodica, vuole riscaldarsi le gambe, divenute inutili, proprio come accade agli astronauti in assenza di gravità: la televisione non prevede l’uso degli arti, trasforma i suoi utenti in tronchetti mutilati, quindi è normale che si senta la necessità di riscaldarsi davanti al fuoco freddo del palinsesto televisivo.   Eppure, il ragazzotto aveva lo stand pieno, strapieno. Sempre. Noi no. E quelle copertine, mica le vendeva a poco. La ressa attorno al suo banchetto era totale, continua. «Pare che venda gelati» dice il mio amico, che ha fatto il commerciante dagli anni Sessanta, e usa questa espressione spesso per dire che un negozio è pieno di clienti.   Il lettore avrà capito chi fossero gli infiniti clienti della copertineria. Erano, senza eccezione, tutti boomer. Un’esercito, un’armata, che sgomitava assiepata per comprarsi la calda copertina di lana. «Quanto costa questa»…? Altre domande non mi è parso di sentirne, anche perché probabilmente non era possibile farle. Il boomerro compra un prodotto monodimensionale, e l’unico dato con cui si misura davvero è il prezzo.   Da noi, tra i tabarri più belli del mondo, invece, poche persone. Sicuramente molte, molte meno del nostro vicino copertinista. Tuttavia, nelle interazioni che abbiamo avuto, ha cominciato a svilupparsi un pattern.   Entrava spesso qualche boomer, giubbottino di ordinanza, che in realtà era diretto poco più in là. Se avvicinava al punto al bancone che non era possibile registrarlo come semplice curioso: ti tocca, a quel punto alzarti (se sei riuscito a sederti un minuto), avvicinarti, salutare, ricevere, e fargli la domanda più cordiale che si possa fare: «vuole provare un tabarro?»   Risposta: «assolutamente no. Volevo solo dire che ce lo aveva mio padre». Tale replica è stata ottenuta praticamente identica in forse una dozzina di diversi occasioni – ripetiamo: è un pattern riconoscibile. Dicevano proprio: «assolutamente no». Assolutamente. Detto dalla generazione che l’assoluto lo ha perso per strada, è un bel segno di rifiuto, probabilmente non solo del tabarro.

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Subito dopo averci edotto del tabarro paterno, e averci fatto capire quando si sente diverso dal genitore, il boomer medio, rifiutato di provare il capo (nemmeno per fare qualcosa di particolare, ad una fiera), si dirige – indovinate, indovinate – a comprarsi la copertina lì a fianco. Lì spende, tocca, prova, è il suo prodotto. Con evidenza, ne vede l’utilità esistenziale: si immagina subito con il telo lanoso di fiorelloni variopinti steso sopra le gambette mentre guarda Rete 4.   Vi è tuttavia un ulteriore pattern che dà speranza, e completa l’analisi. L’avventore volontario, entusiasta, che chiede del tabarro, lo tocca, lo prova, si guarda e riguarda allo specchio mentre lo indossa in tutte le sue varianti (aperto, chiuso, intabarrato a destra, intabarrato a sinistra, colletto su, colletto giù), gli vedi che in testa gli macina l’immaginazione: come sarebbe uscire con gli amici con il tabarro? Senti, talvolta, delle domande sussurrate: «ma quanto figo sono, così?».   Il giovane aspirante tabarrista ascolta ammirato il suono dell’intabarrata, l’atto di coprirsi con il tabarro – unico indumento che ha un suo effetto sonoro, romantico e notturno come nient’altro. Il ragazzo, la ragazza rimirano ammirati e riproducono estasiati la sequenza di gesti classici per la vestizione: tabarro preso a rovescio dinanzi a sé, colpo d’anca, il manto che gira dietro le spalle… più fluido e raffinato di un kata di un’arte marziale giapponese.   E quando gli dici che il tabarro è per sempre, perché non solo non passerà di moda, ma potrà essere trasmesso ai propri figli, nipoti, pronipoti – ad una conferenza di Renovatio 21 a Modena sei anni fa uno mi si presentò con un tabarro la cui etichetta diceva 1907! – ai giovani brillano gli occhi, sia che la prole la abbiano o sia che non la abbiano ancora. Quei pochi che ne hanno memoria famigliare – del nonno, bisnonno, o persino più indietro – non ne parlano come un ricordo da cui separarsi: il nonno, il bisnonno, il trisavolo, riconoscono i giovani, avevano una dignità superiore alla nostra, una dimensione esistenziale fatta di sacrificio e semplicità, di compostezza e determinazione cui non è possibile non anelare.   Quando ai ragazzi dici il prezzo – certamente più di un giubbino di Decathlon, epperò assai meno di un giubbotto parafirmato, di un Moncler, di qualsiasi brand tiri per qualche ragione quest’anno – non si scompongono. Li vedi calcolare a mente come fare per permetterselo: aspettare il prossimo stipendio, sfruttare il Natale o il compleanno, rompere il porcellino che da qualche in parte è in casa.   Il ragazzo veniva, provava, e si lanciava con il pensiero: questa cosa se la metteva addosso per uscire, non per chiudersi in casa. Per portare fuori la morosa, per trovarsi con le amiche o per (caso di una serie di signorine che, senza che si conoscessero, sono capitate tutte da noi) per andare a cavallo. Il tabarro come catapulta dell’essere, veicolo per incontrare, nella materia, le persone, il mondo.   Capite da voi cosa invece rappresentino le copertine boomer: la contrazione nel non-essere del tinello televisivo, la chiusura verso la realtà della gente, del consorzio umano, del proprio corpo. La copertina è l’addobbo per l’essere umano che ha abdicato alla sua dignità di creatura vivente e creatrice, che ha appaltato la gestione del cervello a qualcun altro, che ha accettato per decadi la propria mummificazione catodica.   È, in tutta chiarezza, uno scontro metafisico, ontologico, apocalittico: l’espansione contro la contrazione, l’essere contro il non-essere… la vita contro la morte.   Una volta realizzato questo, bisogna andare avanti con la disamina, e considerare i concreti effetti sociopolitici di quanto stiamo notando.   Nonostante il loro lavoro, non tutti i giovani che volevano acquistare un tabarro avevano i danari per farlo. Al contrario, tutti i boomer che sono entrati per rifiutarsi di indossare il tabarro i soldi per il tabarro li avevano, accumulati nell’età dell’oro dell’economia mondiale, quando era possibile, senza essere imprenditori d’alto bordo, farsi una casa, una seconda casa, la macchina e pure mettere via qualche soldo in banca.

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Tutti i boomer che finiscono ricoperti a guardare Barbara D’Urso e Mentana hanno conti in banca che permettono loro di vivere benissimo, e pensioni che moltiplicano tale benessere. Ecco quindi la settimana in crociera, il weekend alle terme, il sole a Sharm el-Sheik, il giretto in Nepal, la vacanzetta all’isola d’Elba, etc. Tutti questi non hanno avuto problemi a cambiare l’auto – di più, non hanno avuto necessità di farlo, ma senza problemi si sono presi l’ultima Toyota, Audi, Hyundai, FIAT, etc.   Il giovane, al contrario, non ha i soldi per niente di tutto questo, e l’auto, o la vacanza, o il tabarro, devono essere calcolati a dovere in un paradigma che è l’opposto di quello della generazione precedente: non più abbondanza, ma carenza, scarsità anche negli ambiti più basilari. Quanti, della generazione dei boomer, hanno avuto problemi a riscaldare la propria casa? Per quanti il costo del gas o della benzina sono stati un problema tale da indurre rinunzie drastiche, come quella di lasciare mezza casa, o una casa intera, al freddo?   È chiaro, quindi, il blocco storico del presente: tutte le risorse sono in mano ad una generazione vecchia, sterile, priva di valori che non siano di consumo continuo e distruttivo. Le generazioni successive, che pure hanno dalla loro la spinta della vita che non ancora sono riusciti a spegnere, hanno niente o poco più – e di fatto pagano per le gozzoviglie degli anziani parassiti. I mezzi economici sono concentrati su una fetta della popolazione votata allo spreco e – in ultima analisi – alla morte e alla sua cultura. A chi manda avanti la società, a chi continua la vita, invece non è lasciato nulla. Non ci è chiaro quanto questa situazione sarà considerata tollerabile, di certo i suoi effetti sono già visibili e devastanti.   Secondariamente, c’è il rilievo psico-sociale: se compri una coperta per il divano e non un mantello per uscire e vivere stai di fatto amalgamando il tuo essere al programma del potere costituito che è, lo abbiamo visto con i nostri occhi col lockdown, chiuderti in casa. In casa sei controllabile in ogni modo possibile, in casa non creerai mai alcun problema, in casa ti puoi spegnere senza sporcare, levarti di torno senza che nemmeno si oda il tuo lamento – il vertice della piramide vede il tuo appartamento come luogo di esistenza pre-tombale a bassa intensità.   Qui, nel loculo domestico, non puoi far altro che ricevere gli ordini che ti arrivano dalla TV (o dai grandi canali internet, che abbiamo visto essere manipolati dagli stessi poteri che producevano la psicopolizia dei palinsesti televisivi). Chi si mette al calduccio per guardare il televisore accetta di farsi lavare il cervello, e quindi divenire servitore dell’agenda mondialista.   Sì, l’esistenza stessa di un fenomeno come quello della pandemia COVID parte proprio dai divani di una generazione stravaccata e satolla che si è fatta indottrinare nel modo più rivoltante, accettando la clausura, la siringa genica obbligatoria, le ore quotidiane di odio verso i no-vax… Di lì avanti, ancora, la stessa gente ha accettato di pagare bollette folli e rischiare una guerra termonucleare globale perché la TV gli ha detto è ripetuto che Putin è cattivo.   La società, la geopolitica mondiale, la storia presente sono impattate da questo blocco umano immenso, e in maniera presente.

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È stata consentita qualsiasi cosa, ai boomer, perfino l’essere gustibus soluti: il loro schifo non è solo metafisico e morale, è pure estetico. Il giubbino in piuma d’oca, il cappottino peloso, sono lì a testimoniarcelo con più forze del nano da giardino.   La rivolta contro il boomer moderno passa, quindi, da dimensioni come quella del tabarro, che ti avvolge spingendo in faccia agli aridi e narcisi il loro essere senza bellezza e senza radice.   Renovatio 21 si offre di dare una mano a coloro che vorranno partecipare a questa riscossa cosmica. Se volete un tabarro, non avete che da comunicarcelo.   Non siete soli. Il network della resistenza è più grande di quello che potete pensare. E contiene, ovvio, pure vari boomer anagrafici non piegati ai diktat entropici del sistema.  
  Un tabarro alla volta, rovesceremo l’impero delle copertine di lana. Chi scrive già da anni opera in questo senso.   Riscriveremo l’etica del secolo passando per l’estetica, e non poteva che essere così. Dimenticandoci una volta per tutti di quelli che hanno vissuto con indolenza distruttiva, offendendo la meraviglia della Vita e della Civiltà.   Roberto Dal Bosco

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Foto di Silvano Pupella; modificata
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Pensiero

Trump e la potenza del tacchino espiatorio

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Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.

 

L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.

 

Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.

 


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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.

 

Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.

 

Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.

 

Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».

 

«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».

 

La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.

 

«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».

 

Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».

 

Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.

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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.

 

Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.

 

 

Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.

 

Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.

 

Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.

 

Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.

 

Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.

 

Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.

 

Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.

 

Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.

 

Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.

 

Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.

 

Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.

 

Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.

 

Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.

 

Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.

 

Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.

 

Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.

 

Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.

 

Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.

 

Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.

 

Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.

 

Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.

 

Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.

 

Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.

 

Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.

 

Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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Civiltà

Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica

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Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.   Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.   Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.

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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.   Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.   Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.   Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.   Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.   O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.   Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.   Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.   Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».   Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.

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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.   Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.   Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.   Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.   Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.   Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.   la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.   La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.   Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.   Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.   Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.   Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.

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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.   Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.   Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.   Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».   E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.   Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.   Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.   Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.

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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.   Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.   Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.   Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.   Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.   Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.   Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.   Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.   Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.   Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.   Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.   Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».   Patrizia Fermani

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