Pensiero
La morte, e quello che resta
Ho compreso questa realtà quando, oramai una dozzina di anni fa, morì mio padre: quando se ne va un uomo, muoiono con lui tutte le sue storie. Immagino che per alcuni questa sia una banalità, chissà quanti già lo hanno detto, molto meglio di così. Massì: una frase da cioccolatini. Eppure, non se ne afferra la verità estrema, e dolorosa, se non quando si è davanti davvero ad una morte – alla morte.
Sto parlando di quelle storie che, nell’epoca in cui siamo illusi che ogni informazione sia a portata di click, non compariranno mai da nessuna parte. Non su Google, né altrove. Pezzi di umanità che si estinguono irreversibilmente.
Quando è morto mio padre ho sentito subito che con lui sarebbe mancato un deposito enorme non solo di conoscenze, ma di storia umana, micrologica e macrologica, che si portava dentro. Non potevo più parlare con lui delle decadi passate: com’era il mondo, com’era il suo settore, com’era questo o quell’amico, i cicli di crisi economica, le nuotate da bambino nel torrente scavato sotto il monte, i parenti in Argentina e forse in Texas, le partite di pallacanestro dentro la Basilica Palladiana, la bisnonna che dava del voi al bisnonno, i ricordi delle macerie della guerra, la sua capacità profonda di leggere il mare dell’Istria e della Dalmazia, gli anni Cinquanta, gli anni Sessanta, gli anni Settanta, gli anni Ottanta, la sua esperienza di padre, di uomo. Tanto altro, ovviamente. L’insieme del senso che aveva recepito, per cui, in fondo, possiamo dire che aveva vissuto.
La vita è anche questa raccolta di informazioni, la vita è l’insieme di tutte queste storie che ci sono date a vedere, di cui siamo testimoni. Testimoniare, vivere… l’esistenza forse ha questa semplice base.
E poi: tramandare. Le storie che abbiamo raccolto trasmesse oltre a noi, nello spazio e nel tempo, ai figli, ai nipoti… Sì, il significato ultimo della parola «tradizione» altro non è che questo. Ricevi e trasmetti.
L’altro giorno appare su Whatsapp il messaggio. A., un amico dei tempi del liceo, è mancato. La trafila la conosciamo: lotta con la «malattia» che lo prende a fine 2021. Dapprima, mi hanno raccontato, sembrava in remissione. Poi l’evoluzione in male incurabile, con esaurimento dei cicli di cura. Non voglio chiedermi di più. Questo pattern, purtroppo, già lo ho veduto in altri amici, e il cuore ancora mi sanguina.
Aveva due figli, un bambino e una bambina dell’età dei miei. Lascia una moglie che, se non ricordo male, era stata la sua ragazza negli anni dopo la scuola.
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Ho provato a non pensarci. Letto il messaggio, ho risposto con un secco «Requiescat». Mi sono detto di andare avanti con la giornata senza farci caso, in fondo non era una persona che frequentavo, non avevamo molto in comune, e poi sapevo da tempo che stava male. Aggiungiamo che ad un funerale – un’altro del gruppo morto troppo presto, forse ne ho già scritto su queste pagine – mi era parso che mi avesse chiamato, dopo tanti anni che non ci vedevamo, «Alberto», cosa che mi aveva profondamento irritato: proprio lui che, membro attivo della Curva dello stadio sin da bambino, una volta mi accoglieva, quando arrivavo in motorino, con il coro celebrativo «Roberto /Dal Bosco / eh eh / oh oh».
In verità ci ho pensato in continuamente, almeno una volta l’ora negli ultimi tre giorni. La quantità di cose che la mia mente ha dissepolto autonomamente mi hanno via via spinto a scriverne: perché più passavano le ore, più capivo che le storie che A. portava con sé, erano a rischio di estinzione. Specie quelle per le quali posso dirmi testimone io, sia pure di quelle di qualche tratto eseiguo della sua esistenza. Il giornale locale ha fatto un trafiletto: era un tifoso storico del calcio cittadino. Non c’è traccia, nell’articolino, di chi fosse lui: me ne sono reso conto perché in testa avevo le mille storie giovanili.
Ho parlato con altri amici comuni, che erano rimasti più in contatto con lui. Mi hanno spiegato che negli ultimi giorni, quando ancora era lucido, raccontava come temesse che i figli sarebbero finiti per ricordare solo il periodo della malattia del padre, invece che quello che era davvero. La sua storia, la sua vera identità, sono a rischio di sparizione: anche di fronte ai bimbi che ha generato.
Non è una preoccupazione da poco, è un pensiero abissale, che, in alcune situazioni estreme mi sono trovato a fare pure io: cosa resterà di me ai miei figli? Cosa penseranno del loro padre? Se scompaio anzitempo, chi li proteggerà? Chi spiegherà loro? La fine della vita è la fine del materiale per il racconto che siamo tenuti a trasmettere. A meno che qualcuno questo racconto non lo custodisca, non lo ripeta, non lo faccia esistere nel ricordo e nella parola.
Sono a questo punto spinto a scrivere qualcosa su A., per quanto si tratta solo di quadretti giovanili, tuttavia fatti di esistenza vera, della quale io posso fare testimonianza diretta.
A. era un ragazzo sereno e gradevole. Alto, rasato, il viso angoloso e simpatico. Minorenne era già veterano rispettato della Curva Sud, con la particolarità che era forse l’unica figura ultras di alto livello a frequentare il liceo classico. Non solo: nel prestigiosissimo istituto cittadino vi insegnava latino e greco pure la madre. Lui tuttavia esibiva segni esteriori non esattamente da lettere classiche: bomber perenne, o al massimo giacca jeans, capello cortissimo, e il terrificante Oxford, assordante motorino preferito dai periferici studenti delle scuole tecnico-professionali, veicolo che qualcuno truccava sino a renderlo più veloce e rombante di tante motociclette.
Qui la prima storia: lo ferma la polizia, una sera tardi e, si dice, con una certa veemenza, mentre con l’Oxford e la sciarpa del Vicenza transitava casualmente davanti al nostro liceo dopo chissà quale serata. Gli chiedono: chi sei, cosa fai? Sono uno studente delle superiori, dice lui, che poteva dimostrare tranquillamente 25 anni quando ne aveva 16. E che cosa studi? Studio qui al liceo classico. Secondo la vulgata, la polizia non credette alle sue parole, tutte verissime, arrabbiandosi e incolpandolo. Non sarebbe stata l’ultima volta che le forze dell’ordine gli davano addosso, ma ne è uscito sempre intonso, perché innocente, perché A. era davvero, malgrado le toppe ultras sulla giacca, un bravo ragazzo.
Frequentava, come me, un gruppo di ragazzi e ragazze (tante, tantissime: come in nessun altro posto) che si era agglutinato organicamente in città in quegli anni, una compagnia conosciuta come «la Statua», perché il ritrovo era sotto una statua di Garibaldi (nota per essere ciclicamente sporcata di vernice rossa dagli indipendentisti veneti ancora cinquanta anni fa) in pieno centro storico.
«La Statua» era forse il gruppo umano più incredibile che abbia avuto modo di vedere. Non c’era alla base nessun senso tribale, nessuna categoria di censo, nessuna rete di conoscenza famigliare reciproca, nessuna comune distribuzione scolastica o drogastica. Non c’era quel principio clanico che rendeva il resto delle compagnie snob, tristi o violente. Non c’era, neanche in lontananza, una qualche meccanica di esclusione – davvero, come in un’utopia progressista, ma involontaria, riuscita ed irresistibile.
C’era, sorto davvero spontaneamente, un gruppo di giovani che proveniva da ogni scuola (dall’inarrivabile nostro liceo classico, allo scientifico, agli istituti professionali vari anche infimi) e persino dal mondo del lavoro, con ragazzi che a 15 anni già erano sotto padrone. C’erano due o tre che come A. che già bazzicavano da svariati anni il mondo ultrà (per il quale, considerati studenti e quindi capaci di scrivere, compilavano articoli per le fanzine, all’epoca cartacee, e in alcuni casi ho dato una mano pure io), ma alla maggior parte non importava nulla del calcio e voleva, come tutti, solo vivere e divertirsi.
C’erano tanti ragazzi di famiglie semplici, della piccola borghesia della provincia, con il veneto come lingua madre, ma c’erano pure tanti ragazzi del ceto medio-alto, con qualche riccone vero, che poteva parlarti dello shopping autunnale a Londra ma poi stava lì con tutti a passare quelle ore spensierate ed indimenticabili. C’erano soggetti della fuoranza (l’alterazione come orizzonte importante della ricreazione) così come quantità di persone che nemmeno toccavano le sigarette. Era una koiné umana mai vista, mai programmata, che a questo punto ritengo irripetibile.
Alla Statua, A. imperversava in tutti i modi. Aveva una strana capacità con le ragazze: puntava un determinato genere, arrivando persino a buttarsi su interi gruppi di amiche, che riusciva vittoriosamente ad espugnare, facendolo divenire come una sorta di harem però monogamico-sequenziale (prima una, poi dopo mesi un’altra, etc.) – noi lo chiamavamo «il canile di A.», ma era una definizione ingiusta, perché molte erano non erano neppure male. Aveva, con le giovani donne, questo approccio melenso – cheesy, direbbero gli americani – epperò, vedendo i risultati, davvero funzionale.
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La capacità di aspirare attenzioni amorose fu ad un certo punto perfino premiata pubblicamente: al termine di un’autogestione al liceo, dove ero stato eletto rappresentate di istituto (con un misero voto di protesta tradotto indegnamente in seggio grazie al meccanismo proporzionale), annunciammo varie premiazioni semiserie ai personaggi della settimana, tra cui il premio «aspirapolvere», pensato proprio per le aspirazioni di A. Al momento dell’annuncio gli fu consegnata, tra scroscianti applausi, un’aspirapolvere, tuttavia lui quasi non aveva sentito e avevamo dovuto chiamarlo varie volte, perché persino in quel momento era intento, in fondo alla palestra, a intortare una tizia. Non capendo e avendo ancora la testa nell’intortamento pro-canile, con il suo classico volto imbarazzato inforcò davanti a tutti l’aspirapolvere, forse pensando che volevamo che pulisse. Mai premio fu più azzeccato.
Poi c’era quest’altra scena: un ristorante fuori città, dove eravamo sciamati (su prenotazione di chi, non sappiamo, non ha importanza) in una cinquantina. Praticamente occupavamo il locale nella sua interezza, il suo unico grande salone era fatto solo di noi. Io sono intento a conversare con una fiamma incipiente, forse me la tiravo trattando di Storia dell’Arte, la mia attenzione è solo sulla ragazza e su nient’altro. Poi alzo lo sguardo e mi rendo conto che in sala non c’è nessuno: nel mezzo delle portate, sono tutti in giro, sono fuori a fumare o a fare chissà che, è tutto vuoto, a parte me, la fanciulla e… A. Il quale sta, stoico, eroico, mirabile, mangiando il suo piatto da solo. Le logiche di branco, con evidenza, per lui contavano fino ad un certo punto.
In realtà, c’è una storia che posso raccontare solo io. Quella dell’indimenticabile Ferragosto 1996. Avevamo, si e no, diciotto anni.
Succede che ci troviamo alla Statua il 14. Siamo pochi: i più sono in vacanza. Io sono appena tornato da Parigi, località che avevo imparato a raggiungere con facilità in autostop (possono venirmi i brividi se ci penso in relazione ai miei figli, ma credo di detenere ancora il record europeo: meno di dieci ore da casa mia sino alla Ville lumière), per cui già passavo per esperto della materia: una skill non indifferente visto che nessuno di noi aveva ancora la patente.
A questo punto A. fa la sua proposta: «Roby, andiamo a Jesolo. In autostop». Poi snocciola giù un programma romantico e convincente: «ci sono delle mie amiche al campeggio. Andiamo là, andiamo a festeggiare Ferragosto con loro». I telefonini era di là da venire: si trattava quindi semplicemente di arrivare fin là, senza mezzi e senza garanzie, e di stare con delle ragazze a caso (a me completamente sconosciute) in riva al mare.
A me va bene, A. Pronti. Via.
Mettiamo i motorino legati ad un albero fuori dal casello autostradale. Di qui parte il tragitto autostoppistico: secondo il manuale Dal Bosco, la prima cosa da fare è riuscire ad arrivare almeno al primo Autogrill, dove puoi chiedere di persona, senza che questi possano accelerare ed andare oltre protetti da un involucro di metallo. I primi a darci un passaggio sono una coppia di ragazzi di Milano, non molto più vecchi di noi, ma che chiaramente lavorano da molti anni. Vanno a Jesolo, si capisce, per le discoteche, una particolare scena di musica elettronica ora scomparsa. Hanno delle magliette attillatissime.
A. comincia a chiacchierare, e per qualche ragione, dopo spirali varie sulle mode del tempo, si inerpica in un’invettiva contro quelli col piercing. Il tizio davanti sta zitto. Poi, ad un certo punto, senza voltarsi, si alza la maglietta: sul capezzolo ha infilato un anello di metallo. A questo punto scatta la classica faccia paonazza imbarazzata di A., che comuncia ad arrampicarsi sugli specchi in maniera alpinistica. Sopravviviamo.
Arriviamo a Jesolo, e riusciamo a raggiungere il campeggio, che è fuori città, al Nord. Conosco il luogo: due mesi prima tutta la compagnia di vi si era trasferita per un fine settimana memorabile, un tendone da venti persone (ma ci stavano probabilmente dentro in trenta e più…) che qualcuno aveva portato, con il caffè fatto in una moca gigante nella quale si poteva fare pure la pasta. A., mi aveva spiegato, era poi tornato una seconda volta il mese dopo, e qui aveva conosciuto queste ragazze di Montebelluna, che in teoria erano ancora lì, e sembrava, a quel che diceva, che non aspettassero altro che vederci.
In realtà, delle ragazze non pare esserci traccia. Mentre si faceva sera, le cerchiamo ovunque, su è giù per il camping, che era immenso, e labirintico. Ad un certo dice: forse sono in centro, vanno a mangiare in quel posto. Ci spostiamo, sempre a dito, verso i viali dello struscio adriatico. Cerchiamo in un locale, in un altro: niente, delle ragazze promesse da A. non c’è traccia. Io non sono nervoso, lui un po’ sì. Decidiamo di prendere una pizza al trancio, e ci accade un raro miracolo giovanile: la commessa che ci serve – che era una ragazza neanche tanto in là con gli anni – invece che darci il resto per diecimila lire ce lo dà per centomila (sì, l’agognata banconota con su Raffaello, bellissima come tutte le altre, ma spiccatamente difficile da vedere per un ragazzino). In futuro, quando mi sarebbe ricapitato– raro, ma accade – lo avrei più fatto, ma quella volta è stato diverso: ci scambiamo un rapido sguardo colpevole, e decidiamo tacitamente di fare questa cosa orrenda per tenerci quel budget che di fatto decuplicava quanto ci rimaneva in tasca facendoci svoltare quel viaggetto pazzo, magari permettendoci pure l’indomani di prendere un autobus. (Non è escluso, ho pensato qualche volte, che quella ragazza lo abbia fatto apposta)
Saremo tornati almeno altre due volte al Campeggio, facendo la spola con la cittadina, nella speranza di trovare le ragazze. Io comincio a dubitare della loro esistenza, ma va bene così, mica mi importa. Specie quando decidiamo di andare nella spiaggia selvaggia davanti al camping ed unirci ad un falò di ragazzi e ragazze mai visti, intenti anche loro a passare lì la notte di Ferragosto.
Ci avviciniamo perché sentiamo che cantano, prima con l’accompagnamento della chitarra di ordinanza, poi con slogan che sanno da tifo. Lì per lì non capisco cosa stiano intonando, ma me lo spiega lui sghignazzando: «Priebke libero!». Erano i giorni dell’assoluzione del capitano delle SS al tribunale di Roma, e di certo questo non era l’umore che si leggeva sui giornali italiani – ma abbiamo capito che quello che finisce sui giornali spesso non è la realtà di come si sente la gente in giro. Il gruppo a cui ci uniamo non sembra però fatto di nazisti: anzi tanti sono tosatti dai capelli lunghi, più fanciulle tranquille. Gente semplice, di provincia. Tanta voglia vivere, che sento per intero.
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Stiamo con loro tutta la notte. Si parla si ride, si sorride. Si racconta. Si cantano le canzonette note. Non ricordo altro, nemmeno le loro facce, e forse non le ho nemmeno viste, perché era buio. Ricordo la facilità con cui A. riusciva ad entrare in sintonia con un gruppo di persone mai conosciute prima, una dote speciale che ho visto in poche altre persone nella vita. Del resto, perché mai non deve essere così? Siamo qui, siamo vivi: e quindi perché non dovremmo parlarci, stare insieme, divertirci?
Arriva l’alba. Il gruppone di sconosciuti e sconosciute si dissolve. Io sono stremato e vorrei dormire. Non è il caso di A., che a questo punto riparte alla cerca – alle cinque e mezza del mattino! – delle tizie del campeggio. Scatta a perlustrare ancora una volta il campo, io non riesco a tenerlo fermo, a dirgli fermiamoci, dormiamo almeno un’ora sulla sabbia finché è fresca… lui scansiona tutto il dedalo di tende e tendine, recuperando anche un grissino da un tavolino lasciato spreparato per intingerlo in un barattolone di nutella del tavolino successivo – la fame chimica si fa sentire.
Poi accade qualcosa di incredibile: qualcuno chiama A. Ci voltiamo: è una ragazza con la pelle ambrata e gli occhi chiari, capelli raccolti, un bel sorriso in volto, trucco, perfino elegante, perfetta come se fossero le sei di sera e non del mattino di una notte insonne. È proprio lei: la ragazza di Montebelluna che era stata promessa, l’amica di A. Esisteva, sì. Di più: aveva sentito da altri che l’avevamo cercata otto ore prima, e quindi ci aveva cercato anche lei – e trovato all’alba. Happy ending vero.
Io sono divertito dalla cosa – dovevamo stare a festeggiare la notte con loro, invece arrivano alla fine – ma esausto. A. invece è partito con il suo modus operandi mieloso ed infallibile, e alla fanciulla non sembra dispiacere. Quindi questa mi dice: senti, vuoi dormire? Sì, tanto. Bene, vieni in tenda da noi, c’è la mia amica che dorme lì, tu ti metti accanto. È così: mi infilano in una tenda dove c’è una biondina un po’ butterata che ronfa.
«Mettiti a dormire pure a fianco lei» mi dice, del resto altro spazio non c’era. Io penso che quando questa si sveglierà, farà un urlo vedendo uno sconosciuto al suo fianco. Anche questo pensiero mi diverte, ma la stanchezza è troppa. Crollo.
Quando mi sveglio c’è A. che mi chiama: «Roby… Roby». Ha un’espressione serena, e forse pure una punta di quella generosa dolcezza che mette con le ragazze. A fianco a me la biondina sconosciuta, che mi guarda sorridente anche lei. Non so che ore siano, ma capisco che bisogna andare. Non so A. cosa abbia nel frattempo, ma sembra sano e riposato. Ci offrono delle brioches, e salutiamo, avviandoci verso la strada che, a pollice alto, ci avrebbe riportato a casa.
Un ritorno non facile: si ferma a raccoglierci un tizio con una Citroen DS tipo «squalo» – auto che per alcuni è già di per sé un segno di possibile psicopatia – che guidava praticamente ignudo. Dopo un po’ di conversazione, emerge che il signore forse aveva assunto nelle ore precedenti dell’LSD. (Ecco, il lettore capisca che quando di lì a poco sarebbe uscito Paura e delirio a Las Vegas a me non poteva che sembrare un film neorealista). Ci irrigidiamo un po’. Riusciamo, con uno stratagemma, a scendere per trovare un altro passaggio, che ci lascia direttamente in autostrada, e dobbiamo tornare all’albero dove erano legati i motorini a piedi tra i campi e lo svincolo, consumati da 24 ore di incertezza e meraviglia.
Non ci saremo più visti tanto, dopo quel magico Ferragosto. Lo avrei incontrato, negli anni successivi, nel treno-bestiame che va all’università, a volte mi dava l’idea di non avere il biglietto, più che altro, capivo, perché risparmiava per qualcosa. Nonostante i guai che aveva avuto, da innocente, con le istituzioni, fu credo il primo del nostro a laurearsi.
Di qui parte tutta un’altra storia. Lui, che era uscito dal liceo con il 38 – all’epoca dei sessantesimi, un voto di sufficienza da alcuni ritenuto umiliante – fece una carriera professionale straordinaria. Si studiò, da solo, le lingue: divenne fluente in francese, inglese e spagnolo, e aggiunse, rara avis, il russo, che usava nelle trasferte a Mosca. Aveva iniziato a lavorare come venditore per una grande società energetica, per poi passare ad un’altra, in un’inarrestabile traiettoria ascendente di lavoro concreto, parallelo alla creazione di una bella, solida famiglia.
C’è anche questo da dire: ecco un caso di quelli che il nuovo sistema scolastico – che raccoglie dati e punteggi e per «orientare» il resto dell’esistenza dello studente – avrebbe potuto soffocare più di quanto ancora non abbia fatto il vecchio: un bruco a liceo che diventa farfalla nel lavoro, ma è ingiusto dire pure che fosse un bruco, perché lo ricordo come questa creatura dinamica, attiva, inesauribile, vitale. Amato da tutti: per quello che era, non per i voti, né per altro.
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Scrivo queste righe mentre qualche comune più in là c’è il funerale. Io non sono andato. Un po’ perché in fondo non gli ero cosi vicino (me lo ripeto ancora), un po’ perché sono diventato davvero stronzo con il rito, per cui un funerale della chiesa conciliare, con gli amici che parlano dal pulpito, le musichette, magari pure il defunto polverizzato e la funzione senza più nulla di sacro neanche nel momento sacro della morte, no, non posso più affrontarlo.
Ma ho sentito il bisogno di ricordarlo, perché tutto quello che A. è stato non può andare perduto, nemmeno le briciole di gioventù raccontate qui sopra. Quello che resta, anche dopo la morte.
È qualcosa che sento come un imperativo: se perdiamo le nostre storie, perdiamo la nostra umanità. Se affidiamo alle macchine le nostre relazioni – ai social media, alle chat, ai telefonini – di noi non rimarrà davvero più nulla. E ciò non è tanto a discapito nostro, ma a detrimento dei nostri figli, della memoria, grande o piccola, che siamo chiamati a conservare e trasmettere.
A Dio A.
Quel pezzettino in cui sei esistito a fianco a me lo posso testimoniare tutto.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.
L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.
Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax
— The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.
Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.
Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.
Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».
«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».
La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.
«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».
Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».
Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.
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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.
Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.
Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.
Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.
Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.
Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.
Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.
Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.
Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.
Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.
Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.
Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.
Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.
Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.
Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.
Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.
Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.
Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.
Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.
Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.
Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.
Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.
Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.
Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.
Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.
Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.
Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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