Connettiti con Renovato 21

Pensiero

«Sfigorum Pontificum». Ratzinger sepolto vivo

Pubblicato

il

 

 

E così, in una notte di mezza estate, sparisce la cosiddetta «messa in latino» dalle chiese vaticane di tutto il mondo. Il Motu Proprio Summorum Pontificum voluto da Ratzinger è stato spazzato via, e senza tanti complimenti. Aggiungiamo: per alcuni l’operazione Summorum, cioè la possibilità di una reintroduzione massiva della Santa Messa in rito antico su tutta la Terra, è il vero motivo per cui Ratzinger è stato fatto fuori in quella manovra di Palazzo che ancora nessuno sa spiegarsi.

 

Sono comandamenti di una religione allucinante, incentrata sulla grande operazione di tradimento escogitata 60 anni fa

Bergoglio ha fatto uscire stamane la lettera apostolica Traditionis Custodes, che è senza alcun dubbio il motu proprio che annichilisce il Summorum Pontificum: cioè, si tratta dell’ordine di cancellazione della Messa di sempre dalla faccia del pianeta.

 

Ciò che rappresenta la Custodes Traditores (dove traditores lo intendiamo qui inteso in lingua spagnuola: traditori) è una soperchieria talmente chiara da essere a tratti esilarante. Sono comandamenti di una religione allucinante, incentrata, appunto, sulla grande operazione di tradimento escogitata 60 anni fa.

 

Art. 1. I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano.

Tradotto: non avrai altro dio al di fuori del Concilio Vaticano II.

Non avrai altro dio al di fuori del Concilio Vaticano II

 

Art. 2. Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi. Pertanto, è sua esclusiva competenza autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica.

Tradotto: obbedirai allo zucchetto zonale, che potrà disintegrare a suo piacimento la tua voglia di latino, comunione sulla lingua genuflessi, sacerdote ad orientem, etc.

 

 

Art. 3. Il vescovo, nelle diocesi in cui finora vi è la presenza di uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970:

Dovrai fare pubblica confessione di fede nel dio Concilio Vaticano II, baciare le pantofole di tutti i papi recenti, ammettere che la messa nuova va benissimo.

  1. accerti che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici;
  2. indichi, uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali);
  3. (…) In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali;

Tradotto: dovrai fare pubblica confessione di fede nel dio Concilio Vaticano II, baciare le pantofole di tutti i papi recenti, ammettere che la messa nuova va benissimo.

 

E non avrai mai più la possibilità di andare in parrocchia, perché lì può capitare che rubi fedeli – chissà mai, «al contadino non far sapere / quanto è buono il formaggio con le pere»

 

Test Invalsi della Fede. Pena la bocciatura, cui non segue il divenire ripetenti, ma la cancellazione della Messa

E ti beccherai un po’ di italiano (o tedesco, inglese, tamil, giapponese, polacco) in dose massiccia dentro alla Santa Messa, perché sappiamo bene che basta una goccia di sangue per contaminare un secchio di latte… e già dovete immaginarvi la reazione dei«nerd liturgici» (avete presente, quelli con dettagliosa inclinazione al rito e a tutti i suoi pizzi e merletti) che fuggono via infastiditi con il ditino alto: ecco sì, dice il Vaticano svuotiamo le messe tridentine anche di quelli, che non sono pochi e sono soprattutto assidui.

 

Art 4. nomini, un sacerdote che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale di tali gruppi di fedeli.

Tradotto: ecco il kapò.

 

Art 5. proceda, nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valuti se mantenerle o meno.

Tradotto: Test Invalsi della Fede. Pena la bocciatura, cui non segue il divenire ripetenti, ma la cancellazione totale della Messa. Se vieni bocciato, chiudiamo la scuola.

 

E ancora, gli altri articoli dicono che bisogna chiedere e richiedere al vescovo, con il culmine nell’ultimo punto:

Tradotto: abbiamo polverizzato il Motu proprio di Ratzinger. La sua era è chiusa, definitivamente: mettetevela via.

 

Art. 8: Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate.

Tradotto: abbiamo polverizzato il Motu proprio di Ratzinger. La sua era è chiusa, definitivamente: mettetevela via.

 

Per quanto adesso tutti i cattotradizionalisti d’accatto si straccino le vesti, noi possiamo dire che queste cose le abbiamo viste arrivare: cioè, nel senso, non che le abbiamo previste, ma le abbiamo proprio vedute verificarsi negli ultimi tre lustri. Sì: abbiamo visto vescovi opporsi contra legem al Motu Proprio ratzingerista. Abbiamo visto sacerdoti sbagliare (apposta, si diceva) la liturgia, immettendoci l’italiano. Abbiamo visto, e di recente, un’intera comunità redigere una sorta di confessione-autocritica in stile settario, maoista, in cui, pur di aver la loro «Messa in latino» concessa dal vescovo scrivevano di accettare il Concilio Vaticano II etc. etc., data, firma.

«Ma come – mi dice una signora – non danno le parrocchie alla Messa tridentina… ma la diocesi le dà agli ortodossi, ai protestanti, a sette africane, ai musulmani, a chiunque»

 

In pratica, non è successo niente: hanno solo regolarizzato qualcosa che già accadeva, un po’ come vogliono fare con la Comunione ai divorziati, ai sodomisti, agli abortisti, etc.

 

È che in questo caso hanno fatto rapidi, in modo anche molto sorprendente. Come se la Messa antica fosse una questione prioritaria…

 

Non è dato sapere se questa impennata sia dovuta al misterioso stato di salute di Bergoglio. La cintura di colonnelli modernisti attorno all’omino bianco teme di perderlo d’improvviso? Le sue condizioni sono davvero più gravi di quanto sembra come dice qualcuno? È per questo che bisogna accelerare, e procedere a seppellire Ratzinger da vivo?

 

Qualsiasi cosa, tranne la cosa che conta. Se il potere esclude qualcosa, non vorrà mica dire che quel qualcosa è pericoloso per il potere? E se il potere esclude qualcosa di considerato Santo per millenni, questo cosa ci dice sulla natura del potere? Chi governa davvero il mondo? Chi governa davvero il Vaticano, se esso distrugge il suo rito centrale più antico?

Possiamo solo attaccarci ai ricordi. Come quando, a pochi mesi dall’elezione dell’Argentino, incontrammo personalmente un vescovo straniero che tanto ancora ammiriamo. Egli ci disse una cosa che ci sembrava avere senso: il fatto che Ratzinger fosse riuscito a riportare in vita – quantomeno potenzialmente – la Messa antica – valeva come l’intero papato. Avesse fatto solo quello, sarebbe bastato: la storia umana e metafisica lo avrebbe ricordato per sempre, perché la portata spirituale e materiale della cosa era immane.

 

Ci convincemmo. Era l’ora più buia – anzi, era solo l’inizio della tenebra che stiamo vivendo. Erano delle parole di speranza che non ci aspettavamo di trovare, e alle quali ci attaccammo volentieri. Poco dopo, il vescovo disse per noi e pochi altri una Messa in una cappella privata nel cuore di Roma. Ricordo ancora l’emozione, ricordo la geometria delle sue braccia quando innalzava il calice, l’atmosfera potente che ti rimbombava nel cuore: sì, la Santa Messa tradizionale era la cosa più importante del mondo, e io ne ero parte. Del resto, si dice «Comunione»…

 

Non poteva che essere così: se nella Santa Eucarestia c’è il Signore, il fine del Nemico non può che essere la cancellazione tutti i punti dove essa può concretizzarsi in modo puro,  indiscutibile.

 

«Ma come – mi dice una signora – non danno le parrocchie alla Messa tridentina… ma la diocesi le dà agli ortodossi, ai protestanti, a sette africane, ai musulmani, a chiunque»…

 

Non è dato sapere se questa impennata sia dovuta al misterioso stato di salute di Bergoglio. La cintura di colonnelli modernisti attorno all’omino bianco teme di perderlo d’improvviso? Le sue condizioni sono davvero più gravi di quanto sembra come dice qualcuno? È per questo che bisogna accelerare, e procedere a seppellire Ratzinger da vivo?

Sì, proprio così: a chiunque. Qualsiasi cosa, tranne la cosa che conta. Se il potere esclude qualcosa, non vorrà mica dire che quel qualcosa è pericoloso per il potere? E se il potere esclude qualcosa di considerato Santo per millenni, questo cosa ci dice sulla natura del potere? Chi governa davvero il mondo? Chi governa davvero il Vaticano, se esso distrugge il suo rito centrale più antico?

 

Sono domande a cui il lettore può rispondere da solo.

 

Noi qui invece abbiamo messo in microonde i popcorni.

 

Alcuni dicono: che goduria. Vedere appiedati tutti quelli che, da sfigati, per anni si sono illusi con il loro Summorum Pontificum (o meglio, lo «Sfigorum Pontificum»), l’idea che in fondo con le forze del male che occupano il soglio fosse possibile convivere: dai, se ci comportiamo bene, ci lasciano la Messa in latino, magari pure in centro. Quindi, con la cartina da sole della pandemia, eccoteli passare tra i banchi con l’amuchina, eccoteli redarguire le famigliole senza mascherina, eccoteli accettare la Comunione in piedi sulla mano data da un sacerdote con i guanti di lattice… del resto, il loro padrone, quello che volevano compiacere, è stato il primo e probabilmente l’unico al mondo a organizzare un volo fatto integralmente di vaccinati, l’aereo del viaggio in Iraq, dove a tutti i giornalisti era richiesta l’iniezione  di siero mRNA.

 

Non è a caso che parliamo di vaccini: rileggetevi gli articoli della lettera apostolica, sentite il tono autoritario, spietato, con cui parlano ai fedeli. Danno ordini, fanno balenare l’idea di un’esclusione, un’emarginazione: non ti comporterai bene, non accetterai di fare la professione di fede assoluta nel Concilio, non sarai «cresciuto spiritualmente» come da Test Invalsi o da delazione del kapò, allora ti toglierò la Messa, ti leverò questo diritto, e farai quello che fanno gli altri, sarai zittito, piallato, omogeneizzato

Non è a caso che parliamo di vaccini: rileggetevi gli articoli della lettera apostolica, sentite il tono autoritario, spietato, con cui parlano ai fedeli. Danno ordini, fanno balenare l’idea di un’esclusione, un’emarginazione: non ti comporterai bene, non accetterai di fare la professione di fede assoluta nel Concilio, non sarai «cresciuto spiritualmente» come da Test Invalsi o da delazione del kapò, allora ti toglierò la Messa, ti leverò questo diritto, e farai quello che fanno gli altri, sarai zittito, piallato, omogeneizzato.

 

Del resto, lo sappiamo: la chiesa vaticana è uno dei motori principali del Male nel XXI secolo. Lo abbiamo chiamato, in un altro articolo, «il Papa del battesimo di Satana». E sappiamo tutti che i vaccini da feti abortiti non sono l’unico articolo della Necrocultura che il pampero sta promuovendo.

 

Quindi, siamo disperati? Maddeché. Anche qui, nihil novum sub solis. Noi ci siamo sistemati da molto tempo, da ben prima di questo biennio di caos.

 

Da anni gli animatori di Renovatio 21 contribuiscono ad organizzare Sante Messe tradizionali dove di queste impurità, di questi ricatti infami, di questi quadretti luciferici non entra nemmeno una molecola. (E anche le molecole di mRNA alieno, in realtà, per lo più vorremmo se ne stessero fuori, ma noi non siamo quelli che si prendono la libertà degli altri)

 

Se volete partecipare, e salire su questa arca che i più non vedono ma che c’è da tanto e ci sarà per sempre, scriveteci. Vi garantiamo: non ve ne pentirete.

 

E, se siete stati tra i volenterosi amuchinisti dello Sfigorum e ora invece vagate nel niente, mica ci facciamo problemi: venite, ammazzeremo il vitello grasso (tranquilli, poi lo cuociamo a 53°C, temperatura legale a cui si neutralizza la carica batterica, e magari così sparisce anche il Coviddo).

Del resto, lo sappiamo: la chiesa vaticana è uno dei motori principali del Male nel XXI secolo

 

Anche perché, sul serio: adesso dove volete andare?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

 

Continua a leggere

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

Pubblicato

il

Da

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

Sostieni Renovatio 21

Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

Aiuta Renovatio 21

La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

Continua a leggere

Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

Pubblicato

il

Da

Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

Sostieni Renovatio 21

Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

Aiuta Renovatio 21

L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
Continua a leggere

Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Pubblicato

il

Da

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

Sostieni Renovatio 21

«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

Aiuta Renovatio 21

L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

Continua a leggere

Più popolari