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Emir Kusturica con i serbi del Kosovo
Il premiatissimo regista serbo bosniaco Emir Kusturica ha dichiarato lo scorso martedì il suo appoggio ai kosovari serbi nei momenti di tensione con le autorità albanesi.
«Chiunque abbia anche solo un briciolo di compassione non può mollare persone che erigono barricate per difendere il loro diritto a esistere», ha detto il cineasta al quotidiano di Belgrado Novosti. «Se potessi unirmi a loro, lo farei. Dato che mi è stato vietato di entrare in Kosovo, tuttavia, posso stare con loro solo attraverso le mie parole e le mie azioni».
Il regista, palma d’oro a Cannes in due occasioni, ha dichiarato anche che non è la comodità o l’arroganza a spingere le persone a un passo così drastico come quello di erigere delle barricate, ma il «grande guaio» in cui si trova.
I residenti di diversi comuni nel nord del Kosovo hanno organizzato posti di blocco all’inizio di questo mese, per protestare contro l’arresto di un poliziotto di etnia serba e una forte presenza di poliziotti di etnia albanese nelle loro comunità. Pristina chiede la rimozione delle barricate, per il bene della “libera circolazione di tutti i cittadini” e insiste che il suo obbligo si applichi ovunque nella provincia.
Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha chiesto formalmente il ritorno in Kosovo di un massimo di 1.000 soldati e agenti di polizia serbi, come previsto dalla risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che autorizza anche la presenza della NATO nella provincia. Ha detto che gli è stato detto in privato dai leader occidentali che non intendono onorare la risoluzione o la sua richiesta.
Kusturica è un rinomato regista, attore, autore e musicista, vive nella Serbia occidentale, in un villaggio tradizionale a Drvengrad inizialmente costruito come set cinematografico nel 2004. Da allora ha vinto numerosi premi ai festival cinematografici di Cannes, Venezia e Berlino negli anni ’80 e ha ricevuto l’Ordine dell’Amicizia dalla Russia nel 2016.
Durante le tensioni con Milosevic a fine anni Novanta, create anche da fomentatori di «rivoluzioni colorate» (dove si fece sentire un’organizzazione chiamata Otpor, il cui simbolo, il pugno, fu poi visto in una quantità di altri moti in giro per il mondo, magari con lo zampino di enti USA e del finanziere Soros), il regista si era distinto per il suo supporto al presidente serbo.
La prima Palma d’oro la ricevette nel 1990 per il film Tempo di Gitani, dove, pur nel suo stile surreal-fellineggiante, mostrava il sistema dei campi nomadi tra bambini mandati a chiedere la carità e furti nelle case degli italiani. La seconda Palma d’oro la ebbe per Underground (1995) pellicola di attualità significativa: per alcuni può leggersi come metafora del potere mentitore all’opera anche durante la pandemia COVID.
Con ulteriori film manieristici, tipo Gatto nero, gatto bianco (1997) il Kusturica ha contribuito ad una fiammata di musica balcanica – sullo stile di un suo autore di colonne sonore, Goran Bregovic – che occupò lo spazio sonoro italiano con effetti allergici, ad un certo punto, incontrovertibili.
Il gruppo Elio e le Storie tese, nel loro capolavoro Complesso del Primo Maggio, dedicano al fenomeno dei versi immortali:
«La musica balcanica ci ha rotto i coglioni / è bella e tutto quanto / ma alla lunga rompe i coglioni»
Immagine di Odessa International Film Festival via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)
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No al Jazz. Sì al Dark Jazz
In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.
Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.
A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.
I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.
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A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.
Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.
Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.
A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.
Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».
Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.
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È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.
Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.
Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.
O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?
Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.
Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…
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Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.
Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.
Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.
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Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.
Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.
Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.
C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.
No?
Roberto Dal Bosco
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Nella nuova Notre Dame vi saranno molte vetrate «contemporanee»
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Attivisti anti-israeliani vandalizzano il ritratto di Lord Balfour
Un gruppo filo-palestinese ha deturpato e tagliato un dipinto di Lord Arthur James Balfour, il ministro degli Esteri britannico la cui dichiarazione del 1917 fu determinante nel giustificare il sostegno alla fondazione dello Stato di Israele.
Un video pubblicato lo scorso venerdì da Palestine Action mostra un attivista che spruzza il ritratto di Balfour del 1914, realizzato dall’artista ungherese Philip Alexius de Laszlo, appeso al Trinity College di Cambridge, e lo taglia ripetutamente con un oggetto appuntito.
L’Azione Palestinese ha affermato che la Dichiarazione Balfour ha segnato l’inizio della «pulizia etnica in Palestina».
BREAKING: Palestine Action spray and slash a historic painting of Lord Balfour in Trinity College, University of Cambridge.
Written in 1917, Balfour’s declaration began the ethnic cleansing of Palestine by promising the land away — which the British never had the right to do. pic.twitter.com/CGmh8GadQG
— Palestine Action (@Pal_action) March 8, 2024
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La dichiarazione Balfour prometteva di costruire «un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina, dove la maggioranza della popolazione indigena non era ebrea», si legge nella dichiarazione pubblicata sul sito ufficiale del gruppo. «Ha dato via la patria palestinese – una terra che non poteva essere data via».
Datata 2 novembre 1917, la dichiarazione Balfour rappresenta una comunicazione ufficiale della politica del governo britannico riguardante la divisione dell’Impero ottomano – e quindi delle terre palestinesi – dopo la Prima Guerra Mondiale. La lettera, redatta da Arthur Balfour, allora ministro degli esteri britannico, e indirizzata a Lord Lionel Walter Rothschild, un importante rappresentante della comunità ebraica inglese e del movimento sionista, esprimeva il sostegno del governo britannico all’istituzione di una «dimora nazionale per il popolo ebraico» in Palestina, all’epoca parte dell’Impero ottomano, garantendo al contempo i diritti civili e religiosi delle altre comunità presenti nella regione. Questa posizione governativa fu deliberata durante una riunione di gabinetto il 31 ottobre 1917.
Successivamente, la dichiarazione Balfour fu inclusa nel trattato di Sèvres, che segnò la fine delle ostilità con la Turchia e attribuì la Palestina al Regno Unito (che successivamente avrebbe ottenuto il mandato sulla Palestina). Attualmente, il documento è conservato presso la British Library.
Il Regno Unito è stato teatro di frequenti proteste filo-palestinesi e filo-israeliane dalla strage del 7 ottobre dello scorso anno.
Il Regno Unito è stato teatro di frequenti proteste filo-palestinesi e filo-israeliane dalla strage del 7 ottobre dello scorso anno.
Pochi giorni fa, gli studenti dell’Università di Leeds hanno occupato un edificio del campus per protestare contro i legami dell’università con Israele. I manifestanti hanno chiesto alle autorità universitarie di licenziare il rabbino dell’università, tornato a prestare servizio nell’esercito israeliano dopo il 7 ottobre.
Il mese scorso, decine di migliaia di persone avrebbero preso parte a una marcia filo-palestinese nel centro di Londra, chiedendo un cessate il fuoco immediato a Gaza.
A gennaio, un gruppo di attivisti filo-palestinesi è stato arrestato con l’accusa di complotto per ostacolare il lavoro della Borsa di Londra, e un altro gruppo di manifestanti ha bloccato brevemente le strade fuori dal Parlamento britannico. A novembre, i sostenitori della Palestina hanno organizzato un sit-in alla stazione di King’s Cross, nel centro di Londra.
Come riportato da Renovatio 21, lo scorso novembre attivisti filopalestinesi avevano lanciato sorci vivi dentro un McDonald’s di Birmingham.
⚡️A pro-Palestinian protester released a horde of mice painted in the colors of the Palestinian flag into a McDonald’s branch in Birmingham, England #مجزرة_جباليا #CeasefireForGaza #FreePalestine pic.twitter.com/YcdEdM4ARQ
— Shadab شاداب (@ImShadab_) November 1, 2023
A third mice released in a McDonald’s this time in small heath Birmingham McDonald’s https://t.co/7k6Y9c9Q5c pic.twitter.com/gqP8L96acU
— London & UK Street News (@CrimeLdn) November 1, 2023
La tremenda protesta murina potrebbe essere motivata dalla decisione della catena israeliana di fornire pasti gratuiti alle truppe israeliane
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